giovedì 14 ottobre 2010

Arriva John Doe ( II )

MEET JOHN DOE (t.l. Vi presentiamo John Doe , 1941; titoli italiani: ARRIVA JOHN DOE / I DOMINATORI DELLA METROPOLI) Regia: Frank Capra; sceneggiatura: Robert Riskin (da un soggetto di Richard Connell e Robert Presnell); fotografia: George Barnes; scenografia: Stephen Goosson; montaggio: Daniel Mandel; effetti speciali: Slavko Vorkapich; costumi: Natalie Visart; musica: Dimitri Tiomkin; interpreti: Gary Cooper (Long John Willoughby), Walter Brennan (il '`colonnello"), Barbara Stanwyck (Ann Mitchell), Edward Arnold (D.B.Norton), James Gleason (Henry Connell), Spring Byington (signora Mitchell), Rod La Rocque (Ted Sheldon), Regis Toomey (Bert Hansen), Irving Bacon (Beany) Warren Hymer (Angelface), Sterling Holloway (Dan), Gene Lockhart (sindaco), J. Farrell MacDonald (Sourpuss Smithers); produzione: Frank Capra per la Frank Capra Productions; distribuzione: Warner Brothers; durata: 135'.

Ci sono almeno tre film di Frank Capra che dovrebbero entrare nei nostri programmi scolastici, proprio come libri di testo: “Arriva John Doe”, “Mr. Smith va a Washington”, e uno a scelta tra “L’eterna illusione” (titolo originale “Non puoi portarli con te”, nel senso dei soldi) e “It’s a wonderful life” (La vita è meravigliosa”).
Non inganni il fatto che siano film di settanta o magari ottant’anni fa: poche altre volte sono stati messi così in chiaro gli intrecci tra affari e politica, il contrasto tra le buone intenzioni e i grandi princìpi e la corruzione del potere economico.
In “John Doe” succede questo: una giovane redattrice, licenziata durante la ristrutturazione aziendale di un vecchio e importante quotidiano, per il suo ultimo articolo (ormai non ha più niente da perdere) si inventa una notizia di sana pianta, la lettera di un disoccupato che minaccia di buttarsi dal tetto del municipio, la notte di Natale. Dato che anche il tipografo e il correttore di bozze sono stati licenziati e sono d’accordo con lei, la notizia finisce in prima pagina; siccome è una notizia verosimile e di grande attualità, ha molto successo e appassiona tutta la città. La redattrice verrà richiamata al suo posto, otterrà un ottimo contratto, e da qui in avanti smetto di raccontare perché il film è avvincente e non vorrei rovinare il piacere di vederlo a chi ancora non lo conosce.

Si inizia con un “tagliatore di teste” al lavoro, nello stile della Fiat di Marchionne (ma quasi tutti i capi del personale sono scelti così e così si comportano, da sempre). Il “tagliatore di teste” si chiama Connell; e sta parlando con D.B. Norton, il potentissimo sindaco della città.
Connell (al telefono): Sì, DB, stiamo tagliando qualche ramo secco. Ok.
Stanwyck: (entrando decisa, senza chiedere permesso e non invitata): Signor Connell, io non posso restare senza lavoro: ho una madre da mantenere, e due sorelle più piccole.
La segretaria porta dei telegrammi a Connell, che si mette a leggerli.
Stanwyck (quasi tra sè) :Ho bisogno di questo lavoro....
Connell (lascia i telegrammi, sguardo deciso da manager, diritto negli occhi): Mi dispiace, ma io sono qui per fare pulizia. La sua rubrica è vecchia, senza effetto.
E qui finisce il discorso di Connell, che si rivolge subito alla segretaria:
Connell: Faccia entrare quella gente.
Stanwyck (insistendo): Mi ascolti, la prego...sono disposta a prendere meno di 30 dollari alla settimana.
Connell (seccato, con l’atteggiamento di chi spiega qualcosa a un bambino): Non si tratta di denaro, dobbiamo aumentare le vendite.
Stanwyck: Ma io conosco bene questa città, saprei cosa scrivere. Mi dia una possibilità, la prego.
Connell (stizzito, senza guardarla, rivolgendosi alle persone sulla soglia): Entrate, entrate pure. (poi, alla Stanwyck) Lei può andare a ritirare il suo assegno. (poi, al suo assistente) Chi è questa gente? Dibbs, Frawley, Cunningham, Gills... (alza la testa verso la Stanwyck, che sta uscendo dall’ufficio) E lei, mi raccomando, veda di terminare il suo articolo prima di passare a ritirare l’assegno.

Un altro momento del film che mi fa piacere ricordare è questo: Willoughby e il colonnello, con i due del giornale (Beany e Faccia d’angelo), nella suite dell’albergo. Beany accende un sigaro a Willoughby, mentre il “colonnello” (che è solo il soprannome del vecchio vagabondo amico di Gary Cooper-Long John Willoughby) inizia un discorso che rimanda a Diogene, all’anarchia, alla poetica dello hobo, a Woody Guthrie, a Furore di John Steinbeck, ai monaci zen, al “Boudu salvato dalle acque” di Jean Renoir: insomma, qualcosa che mi piace.
Ah, dimenticavo: gli iloti erano gli schiavi ai tempi di Sparta. Schiavi, ma anche soldati e coltivatori per conto dei loro padroni: quasi sempre prigionieri di guerra. E Long John è un giocatore di baseball, il suo ruolo è quello del pitcher.
John: Ehi, non mi avrebbero trattato così bene neanche se fossi entrato nella Major League.
Beany: Si metta a suo agio. (al colonnello) Vuole un giornale?
Colonnello: Io non leggo i giornali, e non ascolto nemmeno la radio. Io so già che il mondo è stato sbarbato da un barbiere ubriaco, non ho bisogno di tornare a leggerlo. (poi si rivolge all’amico Willoughby) Ho visto tipi come te finire schiacciati da altra gente che non ha mai avuto problemi. Alla fine, tutti si erano montati la testa: la prima cosa che capita a uno...
Beany (a John) Ehi, hai già visto la tua stanza?
John: (con entusiasmo) No! Andiamo!
Colonnello: (inseguendoli) La prima cosa che gli capita, è che poi vuole andare a cena nei ristoranti, sedersi comodo a un tavolo, mangiare insalate, tè e pasticcini, e non sai quanto male può fare quella roba! E poi si passa a pretendere una stanza: sissignore, una stanza ben riscaldata. E in men che non si dica, sei diventato un rammollito che non dorme se non ha un letto come questo.
John: Colonnello, non saranno cinquanta dollari a corrompermi.
Colonnello: (sprezzante) Ho visto gente cominciare così, e poi finire con un conto in banca!
Beany (sorpreso): Ehi, che cosa c’è di male in un conto in banca?
Colonnello: (guardando John Willoughby negli occhi)...e quando sei arrivato ad avere un conto in banca, ti hanno in pugno. Sì, ti hanno preso!
Willoughby si allontana, Beany e l’altro insistono con il Colonnello.
Beany: Chi?
Colonnello: Gli iloti.
Beany: Chi? (...) Chi è che l’ha in pugno?
Colonnello: The hylots! (scandisce) I-L-O-T-I.
Beany: E chi sarebbero?
Colonnello: Sei mai stato al verde? (espressione molto affermativa di Beany) Ecco, immagina: tu cammini per strada da solo, senza un centesimo, libero come il vento e nessuno che ti dà noia. Intorno a te, centinaia di persone che vendono di tutto: scarpe, cappelli, automobili, radio, mobili, ogni cosa. Sono tutte persone gentili ed amabili. Mi segui? (cenno affermativo ma perplesso) Ti finisce in tasca qualche dollaro, e che cosa succede? Che tutte queste persone gentili ed amabili si trasformano in iloti, nello stesso tempo schiavi e persecutori. Cominciano subito a tormentarti, cercano di venderti la loro roba, ti afferrano alla gola con gli artigli e non mollano più la presa. E tu urli, ti dimeni, cerchi di respingerli in qualche modo, ma loro ti hanno in pugno. Ti obbligheranno a possedere delle cose. Un’auto, per esempio. E tutta la tua vita si riempie di roba di questo tipo, paghi le tasse di concessione, comperi la benzina, i ricambi, l’olio, la sovrattassa, l’assicurazione, la carta di circolazione, e poi lettere, ricevute, e gomme sgonfie e giudici civili, e multe, e poi un milione di altre cose. Che cosa è successo? Che non sei più libero e felice come prima, che devi procurarti il denaro per pagare tutte quelle cose, che vuoi possedere tutto: ed ecco fatto, si anche tu un ilota.
Oltre ai rimandi che ho citato prima, per la storia di John Doe ci si potrebbe rifare anche alla storia del filosofo anglo-indiano Krishnamurti (1895-1986, contemporaneo del film), a Frankenstein e quindi ad Adamo e a Prometeo; il paragone con Gesù Cristo non volevo metterlo ma è (dichiaratissimo) nel finale del film. Qualche cosa di “John Doe” è arrivato anche in “Network” di Sydney Lumet (titolo italiano “Quinto potere”, 1976) e direi che qualche suggestione (soprattutto presa dai personaggi minori del film) si ritrova anche nei discorsi odierni di Beppe Grillo. Salire sui tetti per protestare, i tetti delle fabbriche o dei palazzi monumentali, purtroppo è diventata pratica comune anche nell’anno 2010, o 2011 che sia: se non fai così non ti ascolta più nessuno, e anzi ti prendono in giro.

C’è molta musica in “John Doe”, anche se quasi sempre appena accennata: l’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini, in versione per armonica e ocarina, al minuto 18; sempre per armonica a bocca la marcia funebre dalla sonata per pianoforte di Chopin e il duetto di una canzone popolare (come in Pinocchio di Walt Disney, il gatto e la volpe) ai minuti 38 e 53. Ma c’è anche il finale della Nona Sinfonia di Beethoven, appena ritoccata (“Freude schöne Götterfunken...”), molta musica da ballo, i grandi classici d’America (Glory glory alleluia, Star spangled banner, inni religiosi) ma anche Rosamunda: nel senso della canzone, non del lied di Schubert.
Nel film ci sono molti momenti che oggi possono apparire di una lentezza esasperante: per esempio i lunghi monologhi di personaggi anche secondari, il fornaio, i vicini di casa. Non è un difetto di sceneggiatura, ma piuttosto un indice di come è cambiata la nostra società. Questi monologhi si sono sempre fatti a teatro: un premio ad attori non protagonisti, qualcosa che se ben recitato scatena applausi, giusta ricompensa per ottimi attori non in grado (o magari non più in grado) di ricoprire parti principali. Nell’opera lirica, per esempio, compositori importanti come Rossini e Mozart ci hanno lasciato arie importanti composte su misura per cantanti loro amici, che potrebbero essere tagliate perché non fondamentali per l’esecuzione, e che hanno il loro senso soltanto durante l’esecuzione teatrale; e spesso si tratta di arie molto belle, come quella del pescatore all’inizio del “Guglielmo Tell” di Rossini. Insomma, dalla lunga tirata del fornaio davanti a John Doe si può risalire all’origine teatrale di questo soggetto: oggi a teatro non ci va quasi più nessuno, i nostri tempi sono dettati dalla pubblicità (dagli spot, prima ancora che dalla tv in sè) ed è per questo che a noi possono sembrare vecchi, o lenti, questi film. E probabilmente se questo ci capita è perché in fin dei conti siamo davvero tutti iloti, schiavi della pubblicità e dei tempi stretti della tv commerciale
A che cosa, e a chi, serve la stampa rosa
Giorgio Bocca, Venerdì di Repubblica, 6 agosto 2010
Il direttore di un settimanale ad alta tiratura ha licenziato due collaboratrici, un’avvocata e un'attrice, con una motivazione che per essere sincera non è meno oscena: si ostinano a occuparsi di problemi seri nonostante i ripetuti avvisi della direzione e dell'ufficio di distribuzione a non insistere su temi che nel gergo editoriale vengono definiti «pallosi», cioè noiosi.
L'idea che il direttore di quel settimanale ha del giornalismo è piuttosto riduttiva e non è condivisa dalla maggior parte di coloro che scelgono questo mestiere, in cui si sta tra due casi estremi ma sostanzialmente veri: fra l'esortazione del poeta a «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» e il ritegno del padre di Pierino a confessare di essere un giornalista, cioè «a suonare il violino in un bordello». Chi come me è nato e vissuto a lungo fra giornalisti sa che la verità della professione sta fra le due esagerazioni, sa che chi fa il giornalista, chi è giornalista, lo fa e lo è per capire come vanno realmente le cose di questo mondo, per il dovere della conoscenza e non per i soli interessi editoriali, non per essere la fedele «voce del padrone».
Mi è capitato di scrivere in un saggio sulla nostra professione che per essere un buon giornalista bisogna all'occorrenza essere un rompiscatole ribelle agli interessi editoriali, che i giornalisti destinati a grandi carriere sono anche dei grandi piantagrane. Esattamente il contrario di quanto richiede alle sue redattrici il direttore del settimanale a grande tiratura. Il giornale che piace al direttore del settimanale ad alta tiratura preferisce all'informazione l'evasione, quel materasso morbido, quella colla malleabile, quel rifugio da ogni preoccupazione o dubbio che è per l'appunto gran parte della stampa rosa. Ma è un giornalismo che serve poco e male una società civile che deve essere informata in tempo su tutto ciò che non funziona nelle sue relazioni, su tutti gli inganni della pigrizia, dell'assuefazione al peggio, del cattivo gusto, del pressappochismo.
Il signor Berlusconi, capo del nostro governo, non a caso è il massimo editore di informazione confortevole e il massimo oppositore di quella critica e problematica. Non a caso ogni giorno accusa la stampa ostile e le nega il diritto alla libertà. Non a caso tutte le società autoritarie hanno per prima cosa vietato o limitato la libertà d'informazione. L'oblio è meno doloroso dell'angoscia e delle preoccupazioni, ma di oblio le società muoiono.

2 commenti:

giacy.nta ha detto...

Perfetta la relazione che hai posto con Dickens: anche in "La vita è meravigliosa" Capra fa vedere " cosa succede in questo mondo, appena più in là, magari anche sotto il vostro naso" ed è geniale il modo in cui rende evidente che le scelte sono importanti e che non solo la nostra vita ma anche quella degli altri dipende dalla nostra volontà di non divenire degli iloti..
Bellissimo questo tuo scritto, Giuliano!:)

Giuliano ha detto...

come ti dicevo, sono passati tanti anni e non ricordo quasi più cosa avevo scritto... toglierei oggi il riferimento a Beppe Grillo, che sta apertamente dalla parte dei padroni (ma a sinistra ancora c'è chi gli dà credito, come Dario Fo)
Dal blog manca La vita è meravigliosa perché mi ero promesso di rivederlo, ma poi non l'ho più fatto.