venerdì 30 aprile 2010

Witness

Witness (Il testimone, 1985). Regia di Peter Weir. Scritto da William Kelley, Pamela Wallace, Earl W. Wallace. Fotografia di John Seale. Musica originale di Maurice Jarre. Canzoni: What a wonderful world (Cooke-Alpert-Adler), Shocking behaviour (Chiten-Sheridan), Party down (Brackett-Sherry). Girato in Pennsylvania (Philadelphia e Contea di Lancaster). Con Harrison Ford, Kelly McGillis, Lukas Haas (il bambino), Jan Rubes (Eli, il suocero), Alexander Godunov (Daniel Hochleitner), Brent Jennings (Carter), Josef Sommer, Danny Glover, Angus Mac Inness, Patti Lupone, Frederick Rolf, Viggo Mortensen. Durata 112 minuti

“Witness” è così bello, bello dal principio alla fine, che mi rimane poco da dire. Verrebbe da dire soltanto di andarselo a cercare se non lo avete ancora visto; ma poi qualcosa bisogna pur scrivere, anche solo per il piacere di parlarne. Allora comincio dagli Amish: una giovane vedova di religione Amish parte per Baltimora, con il suo bambino. In stazione, il treno è in ritardo e bisogna aspettare; ed è lì, in stazione, che il bambino assisterà ad un omicidio. E’ un omicidio importante, e il bambino è l’unico ad aver visto tutto; c’è da pensare che se fosse stato scoperto se la sarebbe passata male.
Ecco, questa è la parte che si può raccontare senza fare un dispetto a chi non l’abbia ancora visto; basterà aggiungere che a questo punto entra in scena Harrison Ford, poliziotto a Philadelphia.
Ma chi sono gli Amish? Quasi tutto il film si svolge nella loro comunità, perciò è giusto conoscerli un po’ meglio. Come al solito, mi appoggio a wikipedia; ma la voce dedicata agli Amish è molto ricca (e probabilmente un po’ datata) e devo riassumere salvando solo le parti che servono per il film : « Gli Amish sono una confessione di stampo cristiano protestante anabattista, nata in Svizzera nel '500 e stabilitasi negli Stati Uniti d'America dal 1700. Attualmente la più grande comunità Amish si trova in Pennsylvania. Vengono da alcuni studiosi di religioni considerati come Protestanti Conservatori e da altri come appartenenti all'ampia famiglia delle chiese libere insieme con i Mennoniti, i Fratelli Quaccheri ed altri, poiché con questi hanno numerosi punti dottrinali in comune. Parlano tradizionalmente un dialetto tedesco chiamato Tedesco della Pennsylvania. (...)
Dopo la Riforma protestante, con l'affissione delle tesi di Lutero a Wittemberg nel 1517, furono principalmente tre i pensatori che si staccarono da Roma: Lutero in Germania, Calvino a Ginevra e Ulrico Zwingli a Zurigo. (...) nella Svizzera di Calvino si originò il movimento Anabattista, che più tardi divenne Mennonita. Gli Anabattisti, violentemente perseguitati, concepirono la chiesa come un gruppo di persone adulte unite dalla professione di fede, assolutamente pacifiste e del tutto svincolate da governi e poteri temporali. Da qui il termine "Chiese Libere", che trovarono piena espressione successivamente nelle colonie americane. (...) Il termine “Anabattista” si riferisce al fatto che il Battesimo viene dato solo agli adulti. (...) Nel 1534 un gruppo di Anabattisti radicali fondò con la forza una teocrazia a Münster macchiandosi di crimini violenti. Il risultato fu una grave persecuzione corale di tutto il movimento da parte sia dei cattolici che delle tre chiese protestanti. (...)
Nel 1536 un giovane prete cattolico, Menno Simons, divenne anabattista e riuscì ad unificare gruppi differenti che, quando l'Olanda intraprese una politica di tolleranza religiosa, poterono vivere in pace. I gruppi che aveva unito presero spunto dal suo nome e si chiamarono, da allora in poi, Mennoniti. Nel 1632 venne stilata la Confessione di Fede Mennonita di Dordrecht, cui le credenze e pratiche religiose Amish si ispirarono e fondarono, e che tutt'oggi li guidano. (...) Circa 150 anni dopo, Jacob Amman, un Vescovo svizzero, ruppe con la chiesa Mennonita e diede origine al movimento Amish, che derivò il nome dal suo e mantenne molti punti comuni con i Mennoniti. A questo punto entra in scena William Penn, al quale la Pennsylvania deve il suo nome. Penn aderì, in Inghilterra, al movimento dei “quakers”, i quaccheri, anch’essi parte delle Chiese Libere.
(...) Per sfuggire alle persecuzioni e alla ricerca di un modo di vita del tutto diverso, Penn salpò con un gruppo di Quaccheri. Una parte di essi si stabilì nello stato che oggi conosciamo come Pennsylvania e che considera William come suo fondatore: la corona britannica, infatti, gli assegnò lo stato come saldo del debito che essa aveva con la sua famiglia. Penn, in linea con altri analoghi esperimenti, volle fondare un modo differente di vivere basato sul rispetto e sulla amorevole collaborazione tra persone differenti perché rese uguali dall'atto creativo di Dio. In tal senso "le persone" non furono solo gli altri cristiani, ma anche le popolazioni indiane residenti. (...) Nel 1720 circa alcuni gruppi di Amish seguirono il sogno della colonia di Penn e la raggiunsero. Si stabilirono per la maggior parte in Pennsylvania, dove tutt'oggi hanno la presenza maggiore. Altri si diressero in New York, Illinois, Indiana, Iowa, Missouri e Ohio. In Italia sono presenti alcune comunità (...)
(...) È comune pensiero che gli Amish rifiutino testardamente ogni tipo di oggetto moderno, ma questo è vero solo in parte. Oggetti che non portino valori indesiderati nella casa e non provochino crepe nella struttura sociale sono i benvenuti se si rendono davvero necessari e se non sono un desiderio vanitoso e superfluo. Una stufa a legna moderna, ad esempio, è un'ottima scelta in termini di costi-benefici. Pretendere una riproduzione fedele di una stufa antica sarebbe inutile e ingiustificatamente costoso, infatti nelle case Amish è frequente trovare ottime stufe a legna chiaramente moderne. Allo stesso modo, una donna può trovare una buona soluzione cucire con filo di nylon anziché di cotone o lasciare andare a pattinare sui rollerblade le figlie, rigorosamente vestite con vestitini lunghi, grembiuli e cuffiette. Gli Amish aborrono la televisione, ma amano leggere libri e riviste, se non offendono i loro princìpi. (...)
Eccetera. Va detto che Weir tratta con molto rispetto la comunità Amish, che è rimasta estranea al film. Tutti gli Amish che vediamo nel film sono infatti attori: tra di essi il grande ballerino russo Alexander Godunov che interpreta uno dei protagonisti, il biondissimo Daniel. Con lui, ed è solo una curiosità, vediamo qua e là comparire suo fratello Moses: una piccola parte, ma l’attore è Viggo Mortensen, “Il signore degli anelli”.
Forse non è il film più personale di Peter Weir, però – mi ripeto - è fatto così bene che c’è poco da aggiungere: è un film d’azione, un thriller e una storia d’amore, si segue con il fiato sospeso e oltre a tutto questo è di una finezza che è raro trovare. Anche le sparatorie e gli omicidi, con Peter Weir, trovano il loro posto: purtroppo, è un esempio assai poco seguito.
“Witness” racconta con grande evidenza il tema principale dei film di Peter Weir: il tema dell’intrusione, e quello dell’incontro fra due persone tra loro diversissime. E’ un tema presente in tutti i film del grande regista australiano: si pensi a “Green card”, per fare un altro esempio lampante (è il film con Depardieu e con Andie Mac Dowell). A essere pignoli, rispetto ai grandi capolavori di Weir qui manca l’elemento del soprannaturale, quello che rende magici “Picnic ad Hanging Rock”, “L’ultima onda”, “The Truman show”, e tanti altri film memorabili. Ma c’è una tale magia negli sguardi, nei gesti, nei paesaggi, che qualche brivido arriva lo stesso.
Posso aggiungere, senza svelare molto, che la finezza di Weir è unica, e si vede da alcuni particolari non secondari: in un altro film, con un regista “normale”, Daniel e Book avrebbero senz’altro fatto a cazzotti, e il poliziotto sarebbe finito subito a letto con la bella McGillis. Ma questo è un film di Weir, e non aspettatevi mai che tutto vada come nei film “normali”: anche il finale è destinato a sorprendere.
“Witness” ebbe grande successo quando uscì, anche per la presenza di un Harrison Ford in gran forma e al culmine della popolarità; poi è stato molto dimenticato, ed è un peccato. L’ho rivisto di recente e trovo che non è invecchiato nemmeno un po’.
“Witness” è anche il film che diede grande popolarità al mondo degli Amish: in Pennsylvania erano già un’attrazione turistica, ma al di fuori non si sapeva niente di loro, e nessun film li aveva mai messi così al centro della narrazione. Quello che compie il personaggio interpretato da Harrison Ford è un salto indietro nel tempo, compiuto senza muoversi nel tempo ma solo nello spazio, e per di più solo per pochi chilometri. Un’altra caratteristica è che nelle sequenze iniziali tutto è visto attraverso gli occhi di un bambino: l’attore è Lukas Haas che poi avrà anche una buona carriera anche da adulto. Anche in questo caso, un altro regista ci avrebbe marciato dentro: si sa, un bambino fa sempre tenerezza. Invece, la finezza di Weir è quella che spetta per diritto ai grandi: non c’è nessuna furberia, e sembra davvero che sia il bambino a guidarci dentro il film.
In questo film c’è anche una delle scene d’amore più belle mai viste al cinema. Qualcuno comincerà già a ricordare, per gli altri trascrivo qui sotto, per chi avesse voglia di cantare (e ballare):
What a wonderful world
(Sam Cooke, Herb Alpert, Lou Adler, 1958)
cantato da Greg Chapman
Don't know much about history Don't know much biology Don't know much about a science book Don't know much about the french I took But I do know that I love you And I know that if you love me too What a wonderful world this would be Don't know much about geography Don't know much trigonometry Don't know much about algebra Don't know what a slide rule is for But I do know that one and one is two And if this one could be with you What a wonderful world this would be
Now I don't claim to be an "A" student But I'm trying to be So maybe by being an "A" student baby I can win your love for me
Don't know much about history Don't know much biology Don't know much about a science book Don't know much about the french I took But I do know that I love you And I know that if you love me too What a wonderful world this would be La la la (History) Ooh ooh ooh (Biology) La la la (Science book) Ooh ooh ooh (French I took) But I do know that I love you And I know that if you love me too
What a wonderful world this would be


giovedì 29 aprile 2010

True Stories

True stories (1986) Regia di David Byrne. Scritto da David Byrne, Beth Henley, Stephen Tobolowsky. Fotografia: Ed Lachman Musiche originali di David Byrne. Girato in Texas e California. Interpreti: John Goodman, David Byrne, Anne McEnroe, Jo H. Allen, Spalding Gray, Alix Elias, Roebuck Staples, Tito Larriva, John Ingle, e altri. Durata: 90 minuti

“True stories” (alla lettera, “Storie vere”) è un bel film del 1986, girato in Texas e in California, ambientato nella città immaginaria di Virgil City, opera non di un regista di professione ma di David Byrne, cantante e leader dei “Talking Heads” (le “Teste Parlanti). Byrne adopera uno stile molto personale, a metà strada tra il Woody Allen di “Zelig” e i Blues Brothers, e con anticipazioni del miglior Michael Moore (“Roger & Me” del 1989) e usa come traccia una piccola storia molto simpatica, quella di un uomo (l’attore è John Goodman) che desidera una moglie ma non la trova, e per trovarla si rivolge ai sistemi più famosi e collaudati: il computer dell’agenzia matrimoniale, lo stregone voodoo, eccetera.
All’inizio del film vediamo l’ottimo Goodman alle prese con alcune compagne possibili ma decisamente improbabili, come una donna con un numero incredibile di figli e una ragazza molto carina che cerca di insegnargli le pose yoga: la ragazza è minuta, esile e flessibile, John Goodman proprio no. Avendo provato a fare yoga, ed avendo più o meno la corporatura di Goodman, so cosa significa...

John Goodman è molto simpatico, e le scene con lui sono sempre divertenti; si può dire subito (questo non è un thriller) che alla fine troverà la sua compagna ideale: è quella che vediamo fin dall’inizio, sdraiata su un enorme letto, intenta a guardare la tv. Goodman è un attore che amo moltissimo; qui era agli inizi, forse il suo primo film da protagonista; dopo “True stories” avrà una magnifica carriera, soprattutto per i suoi film con i fratelli Coen, prima di andare a svendersi in film più facili e banali. Penso però che per interpretare Fred Flintstone si sia fatto pagare bene: se è così ne sono molto contento, se lo merita e mi sono divertito anch’io a vederlo dar vita ad un cartone animato.
L’altro protagonista di “True stories” è David Byrne stesso, nelle vesti di narratore, a bordo di un’automobile (alla fine confesserà che è la sua) nelle strade del Texas.
“True stories” è un film che potrebbe essere terribile, un atto d’accusa contro l’ignoranza e il conformismo televisivo, ma che invece è girato con grazia e anche con affetto, e diventa così molto piacevole da vedere senza perdere nulla della sua attenta osservazione di un mondo decisamente mellifluo e spaventoso. Un mondo che è arrivato anche da noi, nel frattempo: proprio in quegli anni stava cominciando il contagio irreversibile, e non è un caso che Byrne abbia riempito il film di spot televisivi – veri spot, ripresi dalla tv sempre accesa in quasi tutte le case dove entriamo.
Del resto, come la pensi il simpatico protagonista del film è ben spiegato dalla canzone che canta nel finale, che si intitola “La gente come noi” (People like us): “We don’t want freedom, we dont’ want justice, we just want someone to love...”. Cioè: non vogliamo la libertà, non vogliamo la giustizia, vogliamo solo qualcuno da amare. Un inno che sarebbe perfetto anche dalle nostre parti, e la musica è molto più bella di quella che abbiamo dovuto sopportare in simili occasioni. Va aggiunto che con un testo del genere, sia pure cantato ed eseguito con grande bravura, Byrne e i Talking Heads stavano scherzando, facevano satira; la triste verità, la “storia vera”, è che gente così ne esiste tanta, e sempre più ne esisterà a meno che non ci si stacchi dalla tv e dai telefonini cellulari e si torni a ragionare con i piedi per terra, come forse ci invita a fare la bambina nei titoli di testa (e di coda).
La storiellina con protagonista John Goodman è dunque solo un pretesto per girare il Texas e mostrarci la gente che ci abita, un po’ come fecero Jacques Tati o Fellini, o magari Altman, ma con uno stile molto personale che rende il film ancora attuale e godibile. Non mancano tocchi alla Herzog-Wenders, giustificati dalla presenza di Ed Lachman come direttore della fotografia.
Di Byrne so poco o niente, e non sono nemmeno un fan dei Talking Heads, anche se conosco molte delle loro canzoni; perciò mi rivolgo ancora una volta a Wikipedia in cerca di informazioni. E così apprendo che Byrne non è americano di nascita, ma scozzese. « David Byrne è un musicista, compositore e produttore discografico britannico naturalizzato statunitense, fondatore e animatore dei Talking Heads. Byrne è nato a Dumbarton, piccolo centro della Scozia non lontano da Glasgow, il 14 maggio 1952. I suoi genitori si trasferirono in Canada nel 1954, poi negli Stati Uniti intorno al 1960, per stabilirsi nel Maryland. Byrne si diplomò a Landsdowne (contea di Baltimora), poi andò a Providence per frequentare i corsi universitari di educazione artistica alla Rhode Island School of Design, nella quale rimase un solo anno: lì conobbe Chris Frantz e Tina Weymouth, una coppia di musicisti legati sentimentalmente e che nel 1977 divennero marito e moglie. Tra il 1971 e il 1972 formò insieme a un suo amico di Baltimora un duo chiamato Bizadi, nel quale Byrne si produsse nel violino, nell'ukulele e nel canto; il duo si esibì nei locali cittadini e, poi, a San Francisco, come artisti di strada o nei ristoranti. L'esperienza terminò nella primavera del 1972 e Byrne tornò a Providence per riprendere i contatti artistici con Chris Frantz e Tina Weymouth. I tre furono il nucleo fondante, nel 1974, dei Talking Heads a cui si aggiunse nel 1976 Jerry Harrison.»
Wikipedia segnala molte collaborazioni importanti di Byrne: con la coreografa Twyla Tharp, con la compagnia di danza belga Ultima Vez, con Brian Eno, con Ryuichi Sakamoto e Cong Su per le musiche del film di Bernardo Bertolucci “L'ultimo imperatore”, che valsero all'artista il premio Oscar e il Golden Globe 1988 e il Grammy 1989 per la migliore colonna sonora. Byrne è presente anche in “Stop Making Sense” del 1984, che non è un film a soggetto come “True stories” ma che riprende una tournèe dei Talking Heads. Eccetera: Byrne è molto attivo, per sapere tutto quello che ha combinato (discografia completa) è meglio andare a vedere, oltre che su wikipedia, sul suo sito internet e sugli altri siti a lui dedicati.
In “True stories” c’è molta musica. Nove brani sono scritti da David Byrne ed eseguiti dai Talking Heads. Nell’ordine: Love For Sale, Wild Wild Life, Radio Head, City of Dreams, City Of Steel, Technological Love Story, 844-WIFE, The Celebration Begins, The Stage Nears Completion (Texas Tunes)
Altri brani: "Puzzlin' Evidence" (Talking Heads con John Ingle and the Bert Cross Choir), "Hey Now" (Talking Heads and the St. Thomas Aquinas Elementary School Chorus), "Papa Legba" (Talking Heads and The Staples Singers), "Dream Operator" (Talking Heads con Annie McEnroe e Susanna Hoffs), "People Like Us" (cantata da John Goodman con i Talking Heads, il finale del film). Scritte ed eseguite dal solo David Byrne sono "Freeway Son", "Brownie's Theme", "Disco Hits!", "Love Theme From True Stories", "I Love Metal Buildings", "Glass Operator"
Altri titoli: "Cocktail Desperado" (Terry Allen and David Byrne), "Mall Muzak" (scritta ed eseguita da Carl Finch), "Buster's Theme" (di Carl Finch, David Byrne e Brian Eno, eseguita da Carl Finch),
"Soy de Tejas" (scritta ed eseguita da Steve Jordan), "Seen And Not Seen" (di David Byrne, Brian Eno, Tina Weymouth, Chris Frantz and Jerry Harrison, eseguita dai Talking Heads).
"Festa para um Rei Negro" e "Ze Pereira" scritte da David Byrne, sono eseguite da Banda Eclipse.
"Dinner Music", scritta da David Byrne, è suonata dal Kronos Quartet, una formazione da camera be nota nel campo della musica contemporanea.
Wikipedia ricorda anche che il gruppo inglese dei Radiohead, nato negli anni ’90, prende il suo nome proprio da una canzone di questo film.
Merita un cenno a parte la musica dei titoli di testa (e di coda): si intitola "Road Song” ed è stata scritta da Byrne con Meredith Monk, compositrice e coreografa, uno dei grandi della musica del ‘900. E’ cantata da Capucine DeWulf, che potrebbe essere la bambina che vediamo danzare nella strada.

People like us
In 1950 when I was born Papa couldn't afford to buy us much
He said be proud of what you are There's something special 'bout people like us
People like us (Who will answer the telephone)
People like us (Growing as big as a house)
People like us (Gonna make it because)
We don't want freedom
We don't want justice
We just want someone to love.
I was called upon in the 3rd grade class I gave my answer and it caused a fuss
I'm not the same as ev'ryone else And times were hard for people like us
People like us (Who will answer the telephone)
People like us (Growing as big as a house)
God laughs at people like us I see it coming Like coming down from above
The clouds roll by and the moon comes up How long must we live in the heat of the sun
Millions of people are waitin' on love And this is a song about people like us
People like us (Who answer the telephone)
People like us (Growing big as a house)
People like us (Gonna make it because)
We don't want freedom
We don't want justice
We just want someone to love.
Someone to love. Someone to love. Someone to love.


mercoledì 28 aprile 2010

La spada nella roccia

La spada nella roccia (The sword in the stone, 1963). Film di animazione, produzione Walt Disney. Regia di Wolfgang Reitherman. Scritto da Bill Peet e T.H.White. Musiche di George Bruns. Durata 79’

“La spada nella roccia” è l’ultimo film uscito con la supervisione di Walt Disney, che ci avrebbe lasciati di lì a poco; ed è un film che a me piace molto, e che rivedo sempre volentieri. La cosa curiosa, e divertente, è che in “The sword in the stone” ciò che dà il titolo alla storia, la leggendaria Spada Nella Roccia, è un evento secondario: poco più di una cornice. Un’altra cosa notevole è che Artù è un bambino, e non un giovane uomo. Forse il titolo più giusto sarebbe stato “il mago e il bambino”: una storia di crescita, e di iniziazione, dove della Tavola Rotonda quasi ci si dimentica. Ho notato che il voto Imdb non è altissimo, per un film Disney di quel periodo: è facile pensare che molti siano rimasti delusi, e certo se ci si aspetta Excalibur o I Cavalieri della Tavola Rotonda, o magari Lancillotto e Ginevra e la Ricerca del Graal, la delusione è comprensibile.
Ma questo è un film da non sottovalutare, ed è anche molto più profondo ed educativo di quanto non sembri a prima vista. Passato il primo momento di sconcerto (“ma dov’è la Tavola Rotonda?”) ci si diverte molto, ed è una gran bella cosa; e, alla fine, vien quasi da dire che non ci importa molto della Tavola Rotonda, del Graal, della Corona, della Spada e di tutte queste cose da grandi; e che invece preferiamo tornare indietro a vedere Artù e Merlino trasformati in pesci, o magari la storia d’amore mancata con la scoiattolina, una storia dolce ma che fa spezzare il cuore. Forse ha ragione Semola e ha torto Merlino: meglio rimanere bambini...
Ma andiamo con ordine: si comincia da un libro con le pagine miniate come gli antichi codici, dove sono messe bene in evidenza le frasi fondamentali: “una leggenda di quando l’Inghilterra era giovane”, “ i cavalieri erano forti e coraggiosi”, “il buon Re era morto”, “sembrava che il mondo dovesse essere sconvolto da una guerra”. E poi, subito, si entra nel vivo della narrazione: con la Spada e con Merlino.
Dopo solo cinque minuti, Artù è già a casa di Merlino (e del Gufo): “leggermente in ritardo, ma può andare”, commenta il Mago.
Il Gufo, alter ego di Merlino, è un gran bel personaggio: si chiama Anacleto nella versione italiana e Archimede in quella originale. Un classico esempio di burbero benefico, come avrebbe detto Carlo Goldoni: brontola sempre ma vuole un gran bene al bambino, e non si tira indietro quando c’è da rischiare la vita per salvarlo. Quando Merlino vuole dar qualcosa da fare al Gufo, ma il Gufo non ne ha voglia, per farlo muovere lo minaccia di trasformarlo in uomo: “No, in uomo no!” dice il Gufo spaventatissimo, e si mette subito all’opera.
Dopo dieci minuti dall’inizio del film, Merlino fa già la valigia: “Hokety pokety igitus digitus”, eccetera: una scena da antologia, che fa il paio con quella (molto più avanti, al minuto 36) della lavastoviglie. Merlino si trasferisce accanto a Semola, nel castello dove sir Ettore (il patrigno di Artù) lo chiama Martino, e gli dà alloggio nella torre diroccata. Il tutore di Artù non accoglie volentieri Merlino, e vorrebbe anzi mandarlo via, ma ha ben visto che è un mago vero, ne ha un po’ paura e gli consente di fare da insegnante al bambino, che è poco più di uno sguattero: nel castello di sir Ettore le attenzioni sono tutte per Kay, figlio legittimo.
Nella versione italiana Artù viene chiamato “Semola”: dubito che i bambini di oggi, vedendo il film, lo capiscano. Per quanto mi riguarda, sono più di trent’anni che non ascolto questa parola in questo senso: ma si usava, forse per via del fatto che sono i bambini a mangiare la semola, il semolino; i giovani mangiano carne e addentano pagnotte, un po’ come fa Kay nel cartone animato. “Semola” era il bambino magrolino, e il suo contraltare era quasi sempre “Maciste”, l’uomo forte tutto muscoli. Maciste è un personaggio d’invenzione con una data di nascita ben precisa, all’interno del film “Cabiria” di Giovanni Pastrone, un kolossal del 1914. Come si vede, andiamo ben lontano nel tempo: oggi invece di “Semola” ascolto quasi sempre parole che si rifanno a concetti molto volgari, sui quali sorvolo volentieri.
Nell’originale, Semola è Wart : “porro, verruca, bitorzolo”, secondo il mio dizionario. Il mio inglese è piuttosto scarso e non so dire di più, ma mi basta cogliere l’assonanza tra Wart e Walt per cominciare a capire qualcosa.
Merlino inizia subito l’istruzione: la prima lezione è sui pesci. Artù diventa un pesciolino rosso, nel fossato del castello incontra un ranocchio e uno spaventoso luccio. Saper combattere, anche con l’astuzia, è fondamentale per vivere. Artù-pesciolino è molto meno forte del luccio, ma ce la fa.
Nella seconda lezione, Artù è uno scoiattolo: la scoperta del sesso, e dell’amore – una forza potentissima, come spiega Merlino. La scoiattolina è davvero una di cui innamorarsi, ma come si fa?
Poi si passa alla teoria. Merlino insegna al bambino che la Terra è rotonda e si muove nell’Universo girando intorno al Sole, ma il Gufo si oppone: sono concetti troppo complicati, troppo in avanti per i tempi in cui deve vivere. Insegnandogli queste nozioni, Merlino metterà in difficoltà il ragazzo presso i suoi contemporanei. Merlino si arrabbia molto col Gufo: “Ok, allora la lezione la farai tu.”. E il Gufo scopre presto che Artù non sa né leggere né scrivere, e glielo insegna. Molto bella la lunga risata del Gufo (un Gufo fin lì serissimo e bisbetico) quando Merlino cerca di spiegare la teoria del volo, e il modellino di aereo finisce ingloriosamente nel fossato.
La terza trasformazione è appunto in uccello; aiutato dal Gufo, Artù impara a volare ma viene subito adocchiato da un temibile falco. Per sfuggire al rapace, l’uccellino Artù precipita nella cappa di un camino e finisce nella casa di Maga Magò: siamo al minuto 56. Maga Magò nell’originale è Madam Mim (“Mad Madam Mim”), che non saprei tradurre. Forse un’abbreviazione di “mimetic”?
Arriva subito Merlino in soccorso, e i due maghi si sfidano a duello. Il duello di magia è una delle sequenze più belle del cinema d’animazione, ed è a un’ora esatta dall’inizio del film.
Ecco la sequenza delle trasformazioni:
MERLINO MAGA
MERLINO COCCODRILLO
TARTARUGA COCCODRILLO
CONIGLIO VOLPE
BRUCO GALLINA
TRICHECO ELEFANTE
TOPO TIGRE
TOPO SERPENTE
GRANCHIO RINOCERONTE
CAPRA DRAGO (il drago era stato esplicitamente vietato)
TOPO DRAGO
VIRUS DRAGO.
E’ una sequenza molto buffa, ma attenzione a non prenderla sottogamba. Le metamorfosi sono alla base della cultura umana in tutto il mondo, a partire da quelle di Ovidio, o dal mito di Proteo, dal Fauno, e chissà quante altre cose ancora si potrebbero tirare fuori, anche in ambito cristiano. Penso che un antropologo, o uno studioso di storia delle religioni, potrebbe tirare fuori da questa sequenza un saggio di quelli ponderosi.
A me è venuta in mente, insieme con mille fiabe e racconti (Pinocchio è pieno di metamorfosi, e così anche i Grimm, e Andersen...), un’antica ballata inglese che ho ascoltato su un disco dei Fairport Convention: la storia di Tam Lin. “Tam Lin” non è una fiaba ma una storia da adulti, una storia molto complicata di incantamenti, parente stretta della Bella e la Bestia, o di Amore e Psiche, ma tragica e con un’atmosfera di stregoneria e sortilegio. Una fanciulla ama un giovane che è soggetto ad un incantesimo; il giovane le spiega come deve fare per salvarlo, e le dice di non avere paura quando, al momento fatale, lo vedrà trasformarsi: “(...) Oh, they will turn me in your arms to a newt or a snake But hold me tight and fear not, I am your baby's father And they will turn me in your arms into a lion bold But hold me tight and fear not and you will love your child And they will turn me in your arms into a naked knight But cloak me in your mantle and keep me out of sight. (...)" Nell’ordine, la ragazza vedrà il suo innamorato trasformarsi in ramarro, serpente, leone audace, e infine nudo cavaliere. In tutti i casi, dovrà tenerlo stretto e non fuggire; alla fine, dovrà coprire il cavaliere con il suo mantello.
Ma qui non serve fare discorsi complicati, ci si diverte e basta; e ci si diverte molto.
Alla fine dell’addestramento, sconfitta anche Maga Magò, Artù dice al suo maestro che lui è molto contento di fare lo scudiero per Kay, e Merlino lo sgrida. Il bambino insiste, è convinto che fare lo scudiero sia un onore, e Merlino si arrabbia così tanto che parte seduta stante per Honolulu, in costume da surfista e camicia a fiori. Mago Merlino in tenuta da surfista è un’invenzione formidabile, faccio i miei complimenti e anche un inchino rispettoso. Artù rimane solo con il Gufo, che non sa cosa dire: è rimasto senza parole anche lui.
Poi, ecco l’evento del titolo: narrato in poche sequenze, un po’ sbrigativamente; comunque la Spada è fuori dalla Roccia, anche sir Ettore e Kay si inchinano. Fatto re, Semola vorrebbe scappare e mollare tutto, e il Gufo è pronto ad assecondarlo: ma Merlino ritorna e (ancora in costume da surf) assicura il suo aiuto. “Vedrai, sarai così famoso che faranno anche un film su di te – ma senza pubblicità!”
E’ un film musicale, con molte canzoni ben interpretate anche in italiano, mai sgradevoli (capita, con le versioni ritmiche), molto funzionali e ancora oggi ascoltabili con piacere.
Tra i comprimari, alcuni personaggi meravigliosi: un Lupo spelacchiato (parente di Wyle Coyote?) che sembra uscito da “Pierino e il lupo”, una Zuccheriera impagabile armata di cucchiaino e col coperchio a mo’ di cappello, la valigia magica, mamma picchio, la scoiattolona che corteggia Merlino, cavalli e cavalieri, e tanto altro ancora.
E, per chiudere, una frase dalla prima lezione di Merlino al futuro King Arthur: “La magia non può risolvere tutti i tuoi problemi, devi imparare a cavartela da solo.”

martedì 27 aprile 2010

Tokyo Ga

Tokyo Ga (1983). Regia, soggetto, sceneggiatura di Wim Wenders. Fotografia: Ed Lachman. Documentario su Yasujiro Ozu e sul Giappone. Con Chishu Ryu, Yuharu Atsuta, Werner Herzog, Chris Marker. Musica: “Dick Tracy” (Laurent Petitgand, Mèche Mamacier, Chico Ortega). Durata originale: 92 minuti.

“Tokyo Ga” significa “immagine di Tokyo”. E’ un documentario su Tokyo, e sul grande regista giapponese Yasujiro Ozu: ipnotico e affascinante, è per molti versi da considerare come il prologo a “Il cielo sopra Berlino”.
« La tomba di Ozu non ha nome, solo un antico ideogramma cinese: Mu, che significa “il vuoto, il nulla”. Tornando, in treno, pensavo a quell’ideogramma. Da bambino avevo spesso provato ad immaginare il Nulla. L’idea stessa mi incuteva paura: il Nulla. Cercavo di negarne l’esistenza, poteva solo esistere ciò che era reale, la realtà.... Non c’è nozione più inutile e vuota nel contesto del cinema. Ognuno apprende da sè ciò che significa la percezione della realtà. Si vedono gli altri, soprattutto chi amiamo, e si vedono le cose che ci circondano: le città, i paesaggi... Si vede anche la morte. La mortalità degli uomini, la fragilità delle cose, si vede e si vive l’amore, la solitudine, la felicità, la tristezza, la paura... Insomma, ciascuno vede per conto proprio la vita e riconosce da solo lo scarto, spesso ridicolo, tra le esperienze personali e le rappresentazioni al cinema. Si è talmente abituati a questo scarto, ci sembra così evidente che cinema e vita si siano distanziati, che quando vediamo qualcosa di vero, di reale, che sia un uccello che attraversa l’immagine o una nuvola che proietta per un istante la sua ombra, o il gesto di un bambino ripreso in secondo piano, restiamo sorpresi al punto di farci trattenere il respiro. E’ raro nel cinema d’oggi che tali momenti di verità si riproducano, che gli uomini e le cose si mostrino come sono. Era questo l’incredibile dei film di Ozu, soprattutto gli ultimi. Tali momenti di verità non erano solo dei momenti, ma una verità estesa dalla prima immagine all’ultima. Erano film che parlavano della vita stessa, nei quali si rivelavano uomini, cose, città, paesaggi. Una tale rappresentazione della realtà, una tale arte, non esistono più nel cinema. Lo erano un tempo. Mu, il vuoto... Ecco cos’è che regna attualmente.»

Ozu ha filmato Tokyo per quarant’anni, attraverso delicate storie familiari, e ne ha registrato i cambiamenti, dagli inizi con il cinema muto fino al 1963, anno della sua morte. Ma “Ozu è grande per conto suo, non c’è bisogno che io ne stia a parlare”, dice Wenders; e aggiunge: « Il mio viaggio a Tokyo non ha nulla del pellegrinaggio: ero solo curioso. Avrei trovato ancora qualche traccia? Forse qualche immagine o qualcuno che l’aveva conosciuto; o forse Tokyo era tanto cambiata dalla morte di Ozu da non poterla più riconoscere? La memoria mi ha abbandonato, non ho più ricordi. Ero a Tokyo, questo lo so: era la primavera dell’83. Avevo puntato una cinepresa ed ho filmato. Quelle immagini esistono e sono diventate la mia memoria, ma penso che se ci fossi andato senza cinepresa ora i miei ricordi sarebbero più nitidi.»
Nel 1983 il Giappone era una potenza che metteva paura, le sue aziende comperavano ditte che erano il simbolo stesso degli USA (come la CBS Columbia); oggi è passato di moda e si parla solo della Cina, negli stessi termini in cui si parlava del Giappone fino a una decina d’anni fa. Nel frattempo, da quel 1983 è passato un quarto di secolo, molte delle immagini di Wenders, che all’epoca erano nuove, oggi sono diventate esse stesse reperti d’epoca: i giapponesi che giocano a golf in grandi stadi coperti, le ragazze e i ragazzi in stile rockabilly, le architetture del metrò, i videogames e e il Pachinko, il grande gioco d’azzardo simile a un flipper, ormai non stupiscono più nessuno; e anche per noi è diventata una cosa normale incontrare per strada bambini con i tratti orientali.
La parte più bella del film, spesso toccante, è quando Wenders incontra Chishu Ryu e Yuharu Atsuta, attore e cameraman di fiducia di Ozu. Chishu Ryu è un uomo ancora molto bello, elegante; con lui Wenders va alla tomba di Ozu. Di Chishu Ryu dice Wenders: «Con l’aiuto dell’interprete gli chiesi se Ozu era solito provare a lungo. Ovviamente, dipendeva dalla scena che si stava provando: in genere, bastavano 2-3 prove, poi si girava. Ma nel suo caso, bisogna ammetterlo, era raro che Ozu fosse soddisfatto alle prime riprese. Con Chishu Ryu spesso ci voleva molto più tempo: si ricordava perfino di aver provato una scena 20 volte, e di averla anche girata 20 volte, ma non sapeva ciò che non andava. Diceva a se stesso: "Anche il peggiore dei tiratori prima o poi colpisce il bersaglio, se gli si concede tempo sufficiente." Ozu gli aveva chiesto, con molto tatto: "Non è il suo giorno, Ryu, o sta cercando di mettermi alla prova?"

Anche l’incontro con Atsuta è commovente, e si meriterebbe uno spazio a sè per il suo racconto, cioè il racconto del lavoro nel cinema. Atsuta mostra nei dettagli come lavorava Ozu: teneva la macchina da presa bassissima, a livello terra: la visuale di un uomo seduto alla giapponese, in casa. « Nei suoi ultimi anni, dalla maturità in poi, Ozu usava solo il 50mm, un teleobiettivo leggero, con la macchina da presa rigorosamente fissa, sistemata all’altezza di una persona seduta: la visuale era quella, sempre.» Yuharu Atsuta ha ottant’anni e sembra un adolescente. Si commuove solo alla fine, vorrebbe piangere e chiede di finire l’intervista; fin lì era stato meticoloso e preciso, entusiasta nel raccontare tutte le minime cose relative al maestro Ozu e ai suoi film.
Nel suo giro per Tokyo, alla ricerca dei luoghi di Ozu, o di situazioni che lo avrebbero interessato, Wenders sale sul punto più alto della città, la Torre. Sulla Tokyo Tower, incontra Werner Herzog: è a Tokyo di passaggio, sta per andare in Australia (vi girerà “Dove sognano le formiche verdi”). Herzog è elegantissimo, giacca e cravatta e abito scuro: il che sembra strano per un avventuriero come lui, ma probabilmente è il mezzo migliore per mimetizzarsi. Insieme guardano la città dall’alto, e a Werner Herzog non piace quello che si vede: « Le cose stanno così: ormai restano poche immagini. Osservando il panorama da qui, si vedono solo edifici. Le immagini non sono più possibili; bisognerebbe cominciare a scavare, come un archeologo, con una vanga, per riuscire a ritrovare qualcosa di questo paesaggio offeso. Infatti io non mostro mai questo genere di cose. Oggi ci sono pochissime persone in questo mondo che lottano per il bisogno di immagini adeguate. Abbiamo assolutamente bisogno di immagini che si armonizzino con la nostra civiltà e il nostro intimo più profondo; a volte bisogna affrontare una dura lotta per ottenerle. Io non mi lamento del fatto che spesso di debba salire su una montagna alta ottomila metri per trovare delle immagini pulite, chiare e trasparenti... Ma qui non c’è più niente. Bisogna cercare bene. Andrei anche su Marte o Saturno se un’astronave mi ci portasse. Su questa terra è diventato difficile trovare quella trasparenza delle immagini che una volta era presente. Io andrei ovunque per trovarle.»
Ma quel panorama artificiale a Wenders piace, e qui emergono le differenze tra i due grandi registi tedeschi: « Benché capissi la ricerca di Werner per le immagini pure e trasparenti, le immagini che io cercavo erano solo quaggiù nel caos della città. Nonostante tutto, Tokyo continuava a colpirmi.»

Wenders intende dire che la Tokyo moderna colpisce ancora come quella vista nei film di Ozu: del resto, Ozu aveva iniziato a mostrare i primi cambiamenti “americani”, i rockers, le gonne, i jeans, la radio, la tv... Qualcosa di simile è successo e sta succedendo anche da noi, come spiegava bene Pasolini negli anni ’70, e come abbiamo visto tutti in seguito: confesso che, anche se capisco il parere di Wenders (berlinese di città) il panorama di cemento non mi è mai piaciuto molto e sto più dalla parte di Herzog (bavarese, cresciuto in montagna), che ama avere davanti l’orizzonte e magari vedere in cielo le stelle e non le insegne al neon. Wenders gira per Tokyo in cerca del mondo di Ozu, ma non lo trova più, tutto è cambiato e il Giappone (a Tokyo) è ormai interamente americanizzato. Nei film di Ozu tutto era più lento e dolce, oggi è tutto duro e colorato artificialmente, musiche e rumori elettronici hanno sostituito le vecchie voci e i silenzi. Rimangono le immagini dei treni, treni superveloci che hanno sostituito le locomotive di “Viaggio a Tokyo”, il film di Ozu che vediamo all’inizio e alla fine di “Tokyo Ga”.
« I treni, tutti i treni dei film di Ozu. Non c’è un solo suo film dove non si veda un treno.»
(Wim Wenders, speaker in Tokyo-Ga)


sabato 17 aprile 2010

Macbeth di Polanski ( I )

The tragedy of Macbeth (in USA “Macbeth”,1971). Dal dramma di William Shakespeare. Regia di Roman Polanski. Sceneggiatura di Kenneth Tynan e Roman Polanski. Fotografia: Gil Taylor. Musica: Third Ear Band. Interpreti: Jon Finch, Francesca Annis, Martin Shaw (Banquo), Terence Bayler (Macduff) John Stride (Ross) Nicholas Selby (Duncan) Stephen Chase (Malcolm) Maisie Mac Farquhar, Elsie Taylor, Noelle Rimmington (tre streghe), e altri. Durata: 140 minuti.

Le streghe sono il banco di prova per chiunque si cimenti col Macbeth. Con le streghe comincia il dramma, così come lo ha scritto Shakespeare, ed è un inizio forte e violento. Polanski non si sottrae alla sfida e ci va giù duro, tenendo conto che non sono ancora partiti i titoli di testa: le streghe, brutte e/o vecchie come da tradizione, sono sulla spiaggia tra il fango e seppelliscono il braccio mozzato di un cadavere, mettendogli in mano un pugnale e versandoci sopra del sangue. Loro sanno che tra poco saranno in quel luogo Macbeth e Banquo, nobili e fedelissimi al Re di Scozia, reduci dalla battaglia contro i traditori.
Il mio Macbeth di riferimento è quello di Giuseppe Verdi, composto nel 1847: a giudicare dalla sceneggiatura del film stesa da Polanski, direi che non si tratta solo di un mio riferimento. Verdi era uno che tirava diritto per la sua strada, ma una delle poche volte che si ribellò ai suoi critici fu quando lo rimproverarono di non conoscere Shakespeare, come viene riportato in una sua celebre lettera. La sua è una sintesi geniale dell’opera, con tagli dolorosi ma necessari per dare il ritmo teatrale e musicale che Verdi cercava; Polanski non fa molti tagli, lascia tutti i personaggi che ci sono in Shakespeare, e questo forse è un problema per chi vuole vedere il film e non conosce già il Macbeth.
La questione dei tagli, in Shakespeare, è sempre all’ordine del giorno: date per intero così come sono scritte, il Macbeth e l’Amleto richiedono mezza giornata di tempo: ai tempi del Globe, cinquecento anni fa, succedeva. La gente entrava e usciva a suo piacimento dai teatri, i biglietti erano popolari, ognuno vedeva quello che gli interessava; in più gli attori avevano una fama dubbia, spesso veniva negata loro perfino la sepoltura nei cimiteri: insomma, la percezione del teatro era completamente diversa. Non giustifico sempre i tagli, ma confesso di sentirmi spesso a disagio con questo esercito di personaggi che popolano i drammi di Shakespeare. Per esempio, nel film di Polanski ha molto spazio Ross: ma chi è Ross? Mi ricordavo bene di tutti questi scozzesi, perfino di Donalbain, ma Ross me l’ero proprio dimenticato e l’ho ritrovato solo sulle pagine del libro. Nel film di Polanski ha molto spazio anche il signore di Cawdor, accusato di tradimento in battaglia e messo in catene dal Re: il suo titolo e il suo castello, come ben sa chi conosce il dramma, passeranno a Macbeth e saranno l’inizio della sua perdizione.
Tornando alle streghe, spesso si rimprovera a Verdi di aver dato loro ritmi popolari e un po’ rozzi: ma perché mai le streghe dovrebbero ballare su ritmi raffinati e urbani? Anche questo è un equivoco comune quando si parla di Shakespeare: i suoi personaggi sono molto spesso triviali, poco colti, approssimativi. L’usanza di farne una rappresentazione “alta” risale forse all’Ottocento, ma basta leggere l’Amleto o l’Otello per rendersi conto della moltitudine di giochi di parole poco raffinati che vi si trovano.
Detto questo, del film di Polanski mi sento di parlare soltanto in bene. Certo, ci vuole un po’ di pazienza; ma il film è tutt’altro che pesante o difficile da seguire, ed è un gran merito. Secondo me, una cosa che gli nuoce è l’aver avuto Hugh Hefner, l’editore di Playboy, come produttore: Hefner sembra essere in cerca di nobiltà, forse vuole dimostrare di saper anche “fare cultura”, cosa che lega un po’ il regista.
Ma Polanski è uno che sa il fatto suo, il film è tutt’altro che patinato e flou. Si muove da subito in ambienti rurali, tra pietre antiche; il cielo è livido, gli attori sembrano spesso aver freddo (com’è giusto, del resto), c’è molto fango, e molto sangue; e all’inizio del film Macbeth e la sua Lady sono una coppia molto giovane, marito e moglie molto innamorati.
A merito di Polanski metto il fatto di aver lasciato la scena del portinaio, oggetto costante di tagli in tutte le messe in scena, Verdi compreso. Il portinaio è quel signore (Shakespeare lo mette fra i suoi clowns) che, subito dopo l’uccisione del Re, nel pieno del sonno, viene svegliato da un violento battere alla porta: si tratta di Macduff e Lennox (a loro si unirà poi Banquo), che tornano al castello. Come è ovvio, essendo stato svegliato in quel modo, sacramenta e borbotta a ruota libera; è la sua unica scena, e serve per scaricare l’enorme tensione accumulata dopo la notte degli orrori. A questa scena fa seguito un’altra scena molto forte, quella della scoperta del cadavere del Re.
ATTO SECONDO, SCENA TERZA
(...) MACDUFF: Doveva essere proprio tardi, amico, quando sei andato a letto, visto che ci sei rimasto fino a quest’ora avanzata!
PORTIERE: In verità, signore, abbiamo brindato fino al secondo canto del gallo. Ed è ben noto, signore, che il bere provoca tre cose.
MACDUFF: E quali sono queste tre cose?
PORTIERE: Marry, Sir, il naso rosso, il sonno, e l’urinare. Quanto alla lussuria, signore, il bere la provoca e non la provoca. Provoca, bensì, il desiderio; ma ne impedisce l'esecuzione. E quindi si potrebbe pur dire che l'eccesso del bere cerchi di far degl'imbrogli con la lussuria. La fa e la disfa, la spinge innanzi e poi la ritrae, la eccita e la scoraggia, la fa drizzare, ma poi non sa mantenerla ben dritta. E in breve, a forza d'imbrogli, l'immerge in un sonno profondo, e dopo averlo ingannato, l'abbandona.
MACDUFF: M'hai l'aria d'esser stato ingannato anche tu, dal gran bere che hai fatto stanotte.
PORTIERE Proprio così, signore: mi ha ingannato per la gola, eppure ho ribattuto dicendo tutto quel che meritava; ed essendo, com'io credo, troppo più forte di lui, pur se il bere m'abbia a un tratto quasi tolto l'uso delle gambe, ho finito col gettarlo a terra.
MACDUFF È già levato, il tuo padrone? (Entra Macbeth.) I nostri colpi alla porta l'han fatto svegliare: eccolo che giunge. (...)
(William Shakespeare, Macbeth. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)

Come tutti sanno, le streghe ingannano Macbeth dicendogli la verità: gli predicono che sarà sire di Cawdor, poi Re di Scozia; poi che non sarà mai ucciso da un uomo nato di donna, e che non sarà mai sconfitto fino a quando non vedrà la foresta di Birnam muovergli incontro. Tutte queste profezie, per quanto incredibile, sono vere; e tutto queste profezie contengono un inganno. Ma l’inganno, il doppio senso, il gioco di parole, è destinato ad essere scoperto quando sarà troppo tardi.
A tratti, Polanski sembra intimidito da Shakespeare, molto legato, meno libero del solito. Gli manca il colpo d’ala, tutto è molto curato e molto preciso, ma alla fine c’è poco che rimane in memoria. Direi che è un film fatto con molto impegno, ma senza una vera motivazione interna. Va anche detto che fare un film da Shakespeare è un’impresa difficile, che è riuscita bene a pochi; direi quasi solo a Orson Welles e a Kurosawa (“Il trono di sangue”), oltre che a Polanski. Forse Stanley Kubrick avrebbe fatto il Macbeth perfetto, ma non credo che ci abbia mai pensato.
Va detto ancora che Polanski ha delle idee molto belle e altre piuttosto discutibili, e alcune me le sono segnate: Macbeth che per essere fatto re sale sulla grande pietra dove c’è scavata l’impronta dei piedi, e viene poi alzato sullo scudo (come il Re in Asterix). Dopo aver fatto uccidere l’amico Banquo, Macbeth sogna il bambino suo figlio incoronato, come nella profezia delle streghe, che ride di lui, e sogna anche Banquo; poi si sveglia e con lui c’è la moglie. Nella loro seconda apparizione, dentro la caverna, le streghe non sono solo vecchie o brutte, ma anche nude; ed è una rappresentazione molto di maniera, che comunque funziona. Molto bella la scena finale, quando fuggono tutti e Macbeth rimane solo nella stanza del trono; lì viene trovato dai suoi avversari, e combatte valorosamente da solo fino a che Macduff non gli svela il suo segreto: ma Macbeth aveva già sconfitto anche Macduff, mettendogli la spada alla gola. Polanski ha anche la finezza di far sembrare molto goffi i duelli, come probabilmente erano in realtà perché i guerrieri erano molto appesantiti dalle armature: è un dettaglio che troveremo anche nel “Lancelot du Lac” di Robert Bresson.
La musica è affidata al gruppo inglese “Third Ear Band”, molto presenti e molto attenti. In Inghilterra, in quegli anni, non c’erano solo i Beatles e i Rolling Stones: c’erano, ben presenti e molto seguiti, gruppi di ventenni che avevano ripreso in mano le canzoni folk e le antiche musiche e ballate britanniche. Un lavoro che da noi avrebbe fatto solo, con altre intenzioni e altri esiti, la Nuova Compagnia di Canto Popolare; e che in Inghilterra fu portato avanti da molti e soprattutto dai Pentangle, dai Fairport Convention, dagli Steeleye Span, tutti gruppi e persone tuttora attivi. Di questa corrente fa parte anche la Third Ear Band.
(continua)

venerdì 16 aprile 2010

Macbeth di Polanski ( II )

The tragedy of Macbeth (in USA “Macbeth”,1971). Dal dramma di William Shakespeare. Regia di Roman Polanski. Sceneggiatura di Kenneth Tynan e Roman Polanski. Fotografia: Gil Taylor. Musica: Third Ear Band. Interpreti: Jon Finch, Francesca Annis, Martin Shaw (Banquo), Terence Bayler (Macduff) John Stride (Ross) Nicholas Selby (Duncan) Stephen Chase (Malcolm) Maisie Mac Farquhar, Elsie Taylor, Noelle Rimmington (tre streghe), e altri. Durata: 140 minuti.

E’ poi impossibile non accennare ai luoghi scelti da Polanski per girare il “Macbeth”, veramente spettacolari.
Non sono mai stato da quelle parti, ma sono riuscito a sapere che siamo nel Northumberland, al confine tra Inghilterra e Scozia, lato est. Si tratta del castello e della spiaggia di Bamburgh, del castello di Lindisfarne e St Aidan’s Church (sempre sull’isola di Lindisfarne), e di North Charlton Moors, presso Alnwick, dove è ambientata la scena dell’uccisione della moglie e del figlio di Macduff. Metto qui sotto tre foto relative a questi luoghi; l'unica tratta dal film è la terza, Lindisfarne. Le altre due immagini sono prese da internet: il castello di Bamburgh e la spiaggia dove inizia il film, e poi North Charlton Moors.

Per finire, metto qui di seguito alcuni brani dal Macbeth di Shakespeare, presi tra quelli che più mi hanno colpito mentre rivedevo il film. Ovviamente, il Macbeth è talmente pieno di scene grandi e famose che non si tratta di una vera e propria selezione, ma solo di un mio personale campionamento.
Per esempio, i due momenti in cui, nella versione italiana, si dice “A che punto è la notte?” (“How goes the night?”)ATTO SECONDO, SCENA PRIMA
Il castello. Entrano Banquo e suo figlio Fleance, che lo precede con una torcia.
BANQUO: A che punto è la notte, ragazzo?
FLEANCE La luna è tramontata. Non ho sentito l'orologio.
BANQUO Tramonta a mezzanotte.
FLEANCE Secondo me è più tardi, signor padre.
BANQUO Tieni, prendi la mia spada! Fanno economia, in cielo: hanno spento tutte le candele. Prendi anche questo. [Gli porge lo scudo, il mantello, ecc.] Un grande richiamo al sonno grava su me come se fosse piombo, eppure non ho voglia di dormire. O misericordiose potenze! Trattenete in me i maledetti pensieri cui la natura s'abbandona nell'ora del riposo. Dammi la spada! (Entrano Macbeth e un Servo con una torcia.) Chi va là?
MACBETH Un amico.
BANQUO Come? non sei ancora a riposare? Il re è andato a letto: s'è svagato in modo non comune, e ha fatto avere delle generose regalie ai tuoi servi. Con questo diamante, poi, manda a salutare tua moglie, chiamandola ospite gentilissima. E ha concluso la serata con sua infinita soddisfazione. (...)

La seconda volta (l’originale dice “What is the night?”) è dopo l’apparizione dello spettro di Banquo, al banchetto. Macbeth ha fatto uccidere l’amico dai sicari, al banchetto è stato terrorizzato dalla sua apparizione, e ha fatto brutta figura davanti a tutti gli invitati; ma adesso è tornato in sè e ha ripreso coraggio.
ATTO TERZO, SCENA QUARTA
(...) LADY MACBETH La buona notte, di cuore, a vuoi tutti!
(Exeunt i Signori e le Persone del seguito)
MACBETH: Tutto questo vuole aver sangue. Dicono che il sangue chiama sangue. Si è saputo che le pietre possono muoversi, e gli alberi possono parlare. E àuguri e contrassegni che mostravano la connessione delle cause con gli effetti, han parlato con la voce di piche, di corvi e di cornacchie, e han denunziato e scovato fin l'assassino meglio nascosto. A che punto è la notte?
LADY MACBETH: Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga.
MACBETH: Che hai da dire sul fatto che Macduff s'è rifiutato di accettare il nostro grande invito? LADY MACBETH Gli hai mandato un messaggio?
MACBETH L'ho saputo per caso, ma gli manderò qualcuno. Non c'è nessuno di loro nella cui casa io non mantenga un mio fido servo prezzolato. Domani voglio recarmi per tempo dalle fatidiche sorelle. Mi diranno dell'altro. Perché adesso son pronto anche a sapere il peggio e con i mezzi peggiori. Davanti al mio interesse, dovranno cedere tutte l'altre ragioni. Ho avanzato nel sangue a un punto tale che, anche se non procedessi, il tornare indietro sarebbe penoso quanto l'andare innanzi. Ho in mente di strani disegni che reclamano l'opera della mia mano, e che devono essere eseguiti prim'ancora d'esser troppo meditati. (...)
Questa frase, che nella traduzione italiana diviene identica, ho imparato ad associarla alla Seconda Sinfonia (“Lobgesang”) di Mendelssohn: il contesto è diverso, ma è davvero impressionante. E’ una citazione biblica, dal libro del profeta Isaia:
- Hüter, ist die Nacht bald hin?
- Sentinella, quanto resta della notte?

(Isaia 21,11)
Quando il Re arriva al castello di Macbeth, è la moglie di Macbeth che spinge per l’omicidio. Dapprima Macbeth si dice d’accordo, poi vorrebbe tirarsi indietro:
ATTO PRIMO, SCENA SETTIMA
MACBETH Non procederemo oltre in quest'impresa. Fino a un momento fa, il Re mi ha colmato d'onori. E mi sono acquistato una reputazione preziosa come l'oro presso ogni sorta di gente, la quale dovrebb'esser piuttosto indossata ora, che splende del suo più nuovo lustro, anziché riposta cosi presto in un canto.
LADY MACBETH Era forse ubriaca la speranza di cui t'eri rivestito? Ha forse dormito tutto questo tempo? Ed ora si risveglia per riguardare così verde, smunta e pallida a quel che dianzi aveva divisato tanto facilmente? D'ora in poi terrò il tuo amore nello stesso conto. Hai paura, forse, d'essere, nelle azioni e nel coraggio di compierle, pari ai tuoi stessi desideri? Vorresti forse aver quel che stimi come il più splendido ornamento della vita, e vivere da vigliacco nella stima di te stesso permettendo che il « non oso » stia al servizio dell'« io vorrei », come il povero gattino dell'adagio?
MACBETH Taci, te ne prego. Mi basta il coraggio di far tutto quello che si conviene a un uomo: chi osa far di più, non è tale.
LADY MACBETH E qual bestia, allora, fu quella che t'indusse a confidarmi quest'impresa? Quando avevi tutt'intero il coraggio di compierla, allora sì che eri un uomo; e se fossi più di quel che eri, tanto più saresti ora un uomo. (...)
ATTO SECONDO, SCENA SECONDA
(...) MACBETH M'è sembrato di udire una voce che gridava: «Non dormirai più! Macbeth uccide il sonno»... il sonno innocente... il sonno che pèttina e ravvia il filaticcio di seta arruffato delle cure di quaggiù, morte della vita d'ogni giorno, bagno ristoratore del faticoso affanno, balsamo alla dolente anima stanca, piatto forte alla mensa della grande Natura, nutrimento principale nel banchetto della vita.
LADY MACBETH Che vuoi dire?
MACBETH E continuava a gridare: « Non dormirai più! » a tutta la casa: « Glamis ha ucciso il sonno, e quindi Cawdor non dormirà mai più; Macbeth non dormirà più! ».
LADY MACBETH Ma chi gridava così? Orsù, valoroso signore, tu vieni sfibrando la tua nobile forza se persisti a pensare a tutto questo in modo tanto dissennato. (...)

ATTO QUINTO, SCENA TERZA
(...) SERVO L'esercito inglese, se così vi piace.
MACBETH Porta via da qui quella tua faccia. (...) Ho vissuto abbastanza. Il cammino della mia vita è giunto al punto in cui la foglia si fa secca e gialla. Tutto quel che dovrebbe accompagnarsi alla vecchiaia, come l'onore, l'amore, l'obbedienza e uno stuolo d'amici, non posso in alcun modo sperarlo: e in luogo di queste cose, debbo aspettarmi maledizioni mute ma profonde, e omaggi pronunziati a denti stretti, fiato che il povero cuore vorrebbe pur rifiutarmi, ma che non osa tacere. (...)

ATTO QUINTO, SCENA QUINTA
Rientra SEYTON. MACBETH: Perché quelle grida?
SEYTON La regina, mio signore, è morta.
MACBETH Sarebbe pur morta, un giorno o l'altro. Il tempo per quella parola sarebbe pur dovuto venire... domani, e domani e domani. Striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei pazzi il cammino verso la polverosa morte. Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strèpito e di furore, e senza alcun significato.(...)
(William Shakespeare, Macbeth. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)