sabato 25 settembre 2010

L'udienza ( I )

L’udienza (1971) regia di Marco Ferreri. Scritto da Rafael Azcona, Marco Ferreri, Dante Matelli. Fotografia di Mario Vulpiani. Musiche originali di Teo Usuelli; molte canzoni. Interpreti: Enzo Jannacci, Claudia Cardinale, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny, e molti altri. Durata: 112’
- Mi sembra una situazione kafkiana – dice Enzo Jannacci, all’inizio; e la frase viene ripetuta altre volte nel film (nel finale, non più da Jannacci ma da un altro visitatore): molto più che un indizio, si direbbe. Si direbbe anzi che Ferreri ci stia dicendo: “andate a leggervi Kafka, zucconi!”, e va a finire che è proprio così.
“Situazione kafkiana” è una frase che viene spesso ripetuta a vanvera, che oggi è passata un po’ di moda ma che è stata usatissima. “Situazione kafkiana” lo dicevano soprattutto quelli che non avevano idea di cosa volesse significare, ma erano forse affascinati dal suono della parola; Ferreri sembra sapere questo dettaglio e usarlo per prendere in giro gli sprovveduti, che abbondano non solo tra gli spettatori (scusabili) ma anche tra i critici di professione (non scusabili).

“Situazione kafkiana”, ma che vorrà mai dire? Eppure è davvero una storia kafkiana quella che si racconta in L’udienza: per sapere come mai e quanto sia kafkiana, basta aver letto “Il Castello”, o magari “Il Processo”, due libri di Franz Kafka. Nel film non c’è il villaggio coperto di neve, e non c’è un vero e proprio processo, ma il Vaticano diventa davvero il Castello del libro di Kafka, impenetrabile, con molte guardie e portinai, con funzionari solerti e assurdi, principi, e cardinali. Ed è un dialogo da Kafka quello che si svolge al convento, ma anche molte delle frasi di Tognazzi nella sceneggiatura, e tutti i personaggi sono facilmente riconoscibili e collocabili, soprattutto nel “Castello”. E nel “Castello”, per chi ancora non lo sapesse, ci sono scene di sesso molto esplicite: proprio come in “L’udienza”.

Porto qui qualche esempio preso “a campione”, senza pretesa di esaurire l’argomento: chi si trovi a vedere il film potrà facilmente trovare le corrispondenze. E sono, come abbiamo visto, corrispondenze dichiarate, dichiaratissime.
Voialtre cameriere siete avvezze a spiare dal buco della serratura, e a ragionare in conseguenza: da qualche inezia che vedete, traete conclusioni tanto vaste quanto sbagliate.
(Franz Kafka, Il Castello)
(...) ti adorni come, secondo te, sono adornati gli angeli - in realtà sono molto diversi - (...)
(Franz Kafka, Il Castello)
- Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente. E' un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi.
(Franz Kafka, Il Castello)
Che cosa avrebbe potuto attirarmi, in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?
(Franz Kafka, Il Castello )

- Che cosa vuoi sapere ancora? - chiede il guardiano. - Sei insaziabile.
L'uomo risponde:
- Tutti tendono verso la Legge. Come mai in tutti questi anni nessun altro ha mai chiesto di entrare ?
Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno diventando insensibili, grida:
- Nessun altro poteva entrare di qui, perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.
(Franz Kafka, Il Processo)

- Non vuoi più nulla da me ? - domandò K.
- No. - rispose il prete.
- Prima sei stato così gentile con me, e mi hai spiegato tutto; adesso invece mi mandi via come se di me non t'importasse nulla.
- Ma non te ne devi andare ?
- Sì, certo, cerca di capirmi.
- Cerca tu, prima, di capire chi sono. - obiettò il sacerdote.
- Tu sei il cappellano delle carceri - rispose K. andandogli vicino. Il suo immediato ritorno alla banca non era necessario come aveva fatto credere, egli poteva benissimo rimanere ancora lì.
- Io dunque faccio parte del Tribunale. - spiegò il sacerdote. - Perché dovrei volere qualcosa da te ? Il Tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai.
( Franz Kafka, Il Processo)


Quale è la colpa del personaggio interpretato da Enzo Jannacci, in questo film? Perché viene perseguitato dai funzionari del Castello (pardon, del Vaticano)? Semplice: ha espresso il desiderio di parlare con il Papa. Ha una cosa da dire al Papa, è forse proibito? Proibito no, non è affatto proibito: ma, la prego, “si accomodi qui un attimo che ne parliamo”.

L'udienza ( II )


L’udienza (1971) regia di Marco Ferreri. Scritto da Rafael Azcona, Marco Ferreri, Dante Matelli. Fotografia di Mario Vulpiani. Musiche originali di Teo Usuelli; molte canzoni. Interpreti: Enzo Jannacci, Claudia Cardinale, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny, e molti altri. Durata: 112’

Enzo Jannacci non ha quasi mai fatto l’attore, al cinema; ma qui se la cava benissimo, e anzi l’impressione è che il film sia stato pensato e costruito su di lui, sul suo fisico buffo, da burattino, e sulla sua faccia, la faccia di uno che sembra capitato lì per caso, come l’agrimensore K. quando si presenta al Castello.
Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello.
K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente. Poi andò a cercarsi un tetto; nell'osteria erano ancora svegli, l'oste non aveva stanze da appigionare, ma, molto sorpreso e sconcertato da quel cliente tardivo, gli propose di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. accettò.
Alcuni contadini erano ancora seduti davanti ai loro boccali di birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò lui stesso a prendersi il pagliericcio in solaio, e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, K. li guardò ancora per qualche minuto con gli occhi stanchi, poi s'addormentò. Ma poco dopo lo svegliarono. Un giovanotto in abito cittadino, con una faccia da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava al suo capezzale, insieme con l'oste. I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato le loro seggiole per vedere e udire meglio.

Il giovanotto si scusò molto cortesemente di averlo svegliato, si presentò come figlio del portinaio del Castello, poi disse: « Questo villaggio appartiene al Castello, chi vi abita o vi pernotta, abita e pernotta, in certo modo, nel Castello. Nessuno ne ha il diritto senza il permesso del Conte. E lei questo permesso non ce l'ha, o almeno non l'ha mostrato ».
K. s'era rizzato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due uomini di sotto in su, e disse: « In che villaggio mi sono smarrito? C'è un Castello qui? ».
« Ma certo » disse il giovanotto lentamente, mentre qualcuno dei contadini crollava il capo, « il Castello del signor Conte Westwest. »
« E ci vuole un permesso per passare la notte? » chiese K., come per convincersi di non aver sognato le comunicazioni precedenti.
« Ci vuole un permesso » fu la risposta, e il giovanotto, come per farsi beffe di K., chiese all'oste e ai clienti, stendendo il braccio: « Se ne può fare a meno? »
« Allora bisognerà che me lo procuri » disse K. sbadigliando. Spinse via la coperta e fece per alzarsi.
« To'! e come? » chiese il giovanotto.
« Dal signor Conte » disse K., « non c'è altro da fare. »
« Adesso? A mezzanotte, andare a chiedere il permesso al signor Conte? » esclamò il giovanotto facendo un passo indietro.
« Non si può? » domandò K. tranquillamente. « E allora perché mi ha svegliato? »
Il giovanotto questa volta uscì dai gangheri.
« Che modi da vagabondo! » esclamò. « Esigo rispetto per le autorità comitali! L'ho svegliata per comunicarle che deve uscire immediatamente dai territori del signor Conte. »

« Basta con questa commedia » disse K. con voce stranamente bassa, ricoricandosi e tirando su le coperte. «Lei, giovanotto, esagera un poco e domani riparleremo del suo modo di fare. L'oste e questi signori mi faranno da testimoni, se testimoni occorreranno. Frattanto sappia che io sono l'agrimensore fatto venire dal signor Conte. I miei aiutanti arriveranno domani in carrozza, con gli strumenti. Io non ho voluto privarmi di una passeggiata nella neve, ma disgraziatamente ho sbagliato strada parecchie volte, e perciò sono arrivato così tardi. Sapevo benissimo che non era più l'ora di presentarsi al Castello, senza che lei me lo insegnasse. Ecco perché mi sono accontentato di questo asilo, dove lei ha avuto la scortesia -- per non dir peggio - di venirmi a disturbare. Non ho altro da dirle. Buona notte, signori. » E K. si voltò verso la stufa.
«Agrimensore? » chiese ancora dietro la sua schiena una voce esitante; poi cadde un silenzio. Ma il giovanotto non tardò a riprendersi, e disse all'oste, in tono abbastanza basso da passar per un riguardo al sonno di K., ma abbastanza alto per poter essere udito da lui: « Chiederò istruzioni per telefono ». (...) Poi incominciò la conversazione telefonica. Il portinaio dormiva, ma venne all'apparecchio un sottoportinaio, uno dei sottoportinai, un certo signor Fritz.
Il giovanotto, dopo essersi presentato col nome di Schwarzer, narrò come avesse trovato K., un uomo sui trent'anni assai male in arnese, tranquillamente addormentato su un pagliericcio con un piccolissimo sacco da montagna per cuscino e un nodoso bastone a portata di mano. Naturalmente gli era parso sospetto, e giacché era chiaro che l’oste aveva trascurato il suo dovere, era toccato a lui, Schwarzer, di adempiere il suo, andando in fondo alla cosa. Il risveglio, l'interrogatorio, la minaccia - che era di rigore - di espulsione dalla contea avevano mosso a sdegno K.; e forse a ragione, poiché egli affermava í essere un agrimensore chiamato al Castello dal Conte. Naturalmente era doveroso, almeno per la forma, esaminare la veracità di tale affermazione, quindi Schwarzer pregava il signor Fritz di chiedere all'ufficio centrale se davvero era atteso un agrimensore, e di telefonare subito la risposta. Poi si fece il silenzio, laggiù Fritz era andato a informarsi, e qui si aspettava il risultato. K. rimase com'era, non si voltò neppure; non pareva affatto incuriosito, e guardava nel vuoto davanti a sé. Il rapporto di Schwarzer, nel suo miscuglio di malignità e di prudenza, gli dava una idea delle risorse diplomatiche di cui disponevano al Castello anche i subalterni. E lavoravano con zelo, se l'ufficio centrale aveva persino un turno di notte. Le informazioni poi giungevano molto rapidamente, perché Fritz richiamava già. La risposta però fu assai breve, e Schwarzer riattaccò il ricevitore, furibondo. « L'avevo detto » (...)
(Franz Kafka, Il Castello, pagine iniziali, traduzione di Anita Rho, ed. Oscar Mondadori, 1976)



Il film, che va visto più che commentato, risente molto del clima seguente alla morte di papa Giovanni XXIII, al Concilio Vaticano II, e al papa che era venuto dopo, Paolo VI.
Papa Roncalli, Giovanni XXIII, eletto nel 1958, aveva aperto un’epoca di speranza. A tutti erano subito piaciuti quel suo modo di parlare diretto, la sua faccia da contadino bergamasco, e anche la decisione che si nascondeva dietro la sua bonomia. Papa Roncalli era piaciuto anche a chi non era cattolico e nemmeno religioso; la sua era la faccia di una persona con cui – finalmente – si poteva parlare, rivolgersi a viso aperto. Magari anche litigare, ma sempre con rispetto reciproco. Una persona di cui ci si poteva fidare, dunque; qualcuno su cui fare affidamento, ben diverso dai papi precedenti, chiusi e arroccati, distanti.
Papa Giovanni non riuscì a concludere il suo lavoro. Quando fu eletto, nel 1958, era già molto anziano e malato; sarebbe morto nel 1963, dopo solo cinque anni di pontificato. Il Concilio Vaticano II sarebbe stato concluso da altri, ed è più che probabile che sotto la sua guida, sotto la guida di papa Roncalli, tanti errori si sarebbero evitati. L’errore più grande, da parte della Chiesa, è stato quello di lasciare le cose a metà, di tornare a chiudersi.
Ecco dunque apparire, nel film di Ferreri, quest’omino insignificante che vuol parlare col Papa. Cosa mai vorrà, perché insiste, cosa avrà mai da dire di così importante?
E’ molto più di una parabola, questa di Ferreri; una parabola serissima e inquietante, ma anche divertita e divertente, stralunata come il suo protagonista (Enzo Jannacci, perfetto) e con molte battute e situazioni comiche ben riuscite.
Papa Giovanni appare davvero nel film, con immagini di repertorio, all’inizio; così come appare Paolo VI, sempre brevemente. A metà film Ferreri invece ci fa una piccola sorpresa, a sottolineare l’importanza del Papa, e del Concilio: alla mensa dei frati, nel refettorio, vediamo Jannacci che mangia accanto a un signore che si chiama Giovanni, e che assomiglia moltissimo a papa Roncalli. I due diventeranno amici, al sosia di papa Giovanni spettano alcune scene importanti anche se (apparentemente) non essenziali ai fini della narrazione.


Attorno a Jannacci, vediamo muoversi grandissimi attori: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Alain Cuny, Michel Piccoli, Claudia Cardinale. Ferreri non era un regista da grandi numeri, e nell’ambiente del cinema, soprattutto fra i produttori, si guardava a lui con una certa diffidenza; ma gli attori amavano molto Ferreri perché dava sempre parti bellissime e inusuali, fuori dal comune, che erano impossibili per chi non sa recitare e che ne mettevano in risalto la bravura. Ugo Tognazzi, per esempio, parlava sempre con molto affetto di Ferreri: senza i film di Ferreri, diceva, sarei rimasto confinato in Italia, un comico come tanti altri. Invece Ferreri gli diede l’opportunità di essere conosciuto anche in Francia, di lavorare con registi francesi, di far vedere i suoi film in tutto il mondo. E’ una sorte che è capitata solo a lui, a Tognazzi: né Sordi né Gassman né Manfredi hanno mai superato i confini italiani. Gassman ci provò da giovane, senza molta fortuna; era molto stimato e lavorò anche con Altman, ma la sua era una fama “da addetti ai lavori”. Invece con Ferreri la magia funzionava, ed anche questo è un piccolo miracolo, perché i film di Ferreri sono spesso divertenti, ma non sono mai facili.
(continua)

venerdì 24 settembre 2010

L'udienza ( III )

L’udienza (1971) regia di Marco Ferreri. Scritto da Rafael Azcona, Marco Ferreri, Dante Matelli. Fotografia di Mario Vulpiani. Musiche originali di Teo Usuelli; molte canzoni. Interpreti: Enzo Jannacci, Claudia Cardinale, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Michel Piccoli, Alain Cuny, e molti altri. Durata: 112’

- Non mi occupo di politica, sono in preda a un profondo travaglio spirituale.
dice Jannacci, a un certo punto del film. E’ una battuta delle sue, la dice con una faccia serissima e impagabile, alla Buster Keaton, e non mi meraviglierei se l’avesse inventata proprio lui. Ogni tanto, riascoltando “Aveva un taxi nero” o “Il primo furto non si scorda mai” mi viene da pensare che dev’essere stato bello vivere nella Milano dei primi anni ’60, con Jannacci c’erano in pianta stabile Giorgio Gaber, Dario Fo, e tanti altri simpatici matti.
Un’altra battuta tipica di Jannacci, da dire con faccia serissima:
- Lei non balla?
- Solo il foxtrot.

Tutto questo succede mentre Gassman balla il fado con la Cardinale, e Jannacci sta seduto sul sofà con un militare salazariano portoghese.
- Ma si può ballare il fado? – chiede la Cardinale al principe Gassman.
- Tutta la musica si può ballare.


Ferreri aveva un modo molto particolare di usare le canzoni di musica leggera; anche se non sempre mi piacciono o mi evocano dei ricordi, quando saltano fuori sembrano sempre incredibilmente appropriate, non solo qui ma anche in “Dillinger è morto”, in “La donna scimmia” o “L’ape regina”. Una specie di sesto senso, suppongo: lo faceva anche Kubrick, ma con il Danubio blu e con Aram Khachaturian.
La musica originale del film è firmata da Teo Usuelli, ottimo musicista e collaboratore abituale di Ferreri. Si inizia con il motivo conduttore del film, una musica di Usuelli modellata sul tema medievale del Dies irae, molto bella e molto appropriata. Un’altra musica di Usuelli, più leggera, appare per la prima scena della Cardinale, nel negozio di vestiti. Più avanti c’è un valzer che non riconosco, forse La vedova allegra; un disco della grande cantante portoghese Amalia Rodrigues per Gassman, nella scena del fado e della danza con Claudia Cardinale; e due canzoni inglesi che ricordo anch’io, “Me and my life” (di chi è?), e “Yellow river” dei Christie, a 1h14.


Alcuni appunti sparsi: 1) l’abbraccio a Jannacci di Alain Cuny rimanda ai Fratelli Karamazov, ma anche al “peccato segreto” di Gigi Proietti nel Brancaleone, quello che fa crollare la volta della caverna (il Brancaleone di Monicelli è anteriore di qualche anno, ma questa gag, sempre divertente, esiste fin dai tempi di Achille Campanile) 2) al minuto 48 il cardinale napoletano nomina apertamente il modernismo: per “modernismo” la corrente vaticana anti-Concilio intende tutto quello che è uscito dal Concilio. Alcuni di questi “tradizionalisti” (le virgolette sono d’obbligo, la tradizione vera è quella del Vangelo e non quella del Concilio di Trento) sono usciti apertamente dalla Chiesa, al seguito del cardinal Lefebvre; il cardinale napoletano è rimasto in Vaticano ma non approva i cambiamenti. 3) il numero di telefono di Claudia Cardinale: 455033   4) il ritratto di Garibaldi e di altri eroi del Risorgimento nel ristorante al minuto 40, la cena con Alain Cuny 5) Gassman paramilitare e possibile golpista nel finale, con medaglie d’oro e croci cristiane mescolate insieme. 6) Mao e i celerini; Tognazzi costretto a portare il casco (“poi si perdono i capelli”) e contuso negli scontri di piazza 7) Il ritratto di Mao anche nel convento francescano. 8) “La chiesa distrutta dalla fede” è il plastico di San Pietro realizzato da Giovanni, a 1h27 9) Jannacci nella valigia ha una copia di Playboy (“comperato a Bologna”) e un film in superotto su papa Giovanni; lo rilasciano perché “è un ufficiale in congedo”. 10) Al minuto 14 e nel finale, un 33giri con la voce di Papa Giovanni (la suora è cinese)
- Se ne vendono molti? (la suora fa cenno di no)

Ferreri passava, a detta dei suoi direttori della fotografia, come uno che non badava molto alla tecnica. Diceva più o meno “ecco fai tu” dando istruzioni piuttosto sbrigative sulle luci, eccetera. Dal risultato finale, se questo racconto è vero (e penso proprio di sì) si capisce che Ferreri, prima, aveva già preparato tutto meticolosamente, interni arredati a perfezione, movimenti degli attori, eccetera. Restavano solo da regolare le luci e gli obiettivi, per questo era importante scegliersi un direttore della fotografia molto bravo, così poi non c’era da preoccuparsi: Ferreri ce l’aveva, si chiama Mario Vulpiani. La luce dei film di Ferreri, e i colori, sono sempre di una perfezione assoluta. (le immagini che metto qui sono purtroppo prese dalla tv: non sono riuscito a recuperare il dvd ufficiale, peccato).

E’ la lezione dei grandi artigiani del cinema, fin dai tempi di Chaplin, di René Clair, e in Italia dei De Sica, dei Mastrocinque e dei Mattoli: studiare l’inquadratura giusta e gli arredi giusti, tenere ferma la camera e lasciar muovere gli attori. Alla parte tecnica ci penseranno, per l’appunto, i tecnici: se il direttore della fotografia è bravo, il risultato sarà quello voluto. Questo è anche il motivo per cui Ferreri lavorava quasi sempre con i grandi attori, non tanto con le star ma con quelli capaci veramente di recitare: è la lezione del grande teatro, gli attori di teatro – quelli bravi – sanno come muoversi e sanno anche prendere applausi stando fermi e in silenzio, come faceva Eduardo de Filippo.
Un’altra grande lezione dimenticata.


lunedì 20 settembre 2010

La ragazza di Boemia

The bohemian girl (La ragazza di Boemia, 1936) Produzione di Hal Roach. Dall’opera omonima di Michael W. Balfe (1830). Regia di James W. Horne e Charles Rogers. Fotografia di Art Lloyd e Francis Corby. Musica di Michael W. Balfe; la canzone “Heart of a gypsy” è di N. Shilkret & R. Shayon. Interpreti: Stan Laurel, Oliver Hardy, Thelma Todd, Mae Busch, James Finlayson, Antonio Moreno, Darla Hood, Jacqueline Wells, William P. Carleton, Zeffie Tilbury, Mitchell Lewis, Felix Knight, Yogi the myna talking bird. Durata: 71 minuti

«Ho sognato di abitare un castello ricco di marmi, con servitori e cameriere al mio servizio; e io ero l’onore di quel castello, la sua speranza...». Così racconta la giovane zingara, in “The bohemian girl”, a un paterno Oliver Hardy, che rimane estasiato ad ammirarla per tutta la durata del racconto. Nel frattempo, Stan Laurel si mangia tutta la colazione che era stata preparata per due; e quando alla fine Ollie se ne accorge, la risposta è: “Te ne avrei lasciato, ma avevo paura che si raffreddasse.”
Una delle scene più belle del cinema di Stanlio e Ollio deriva, come già “Fra Diavolo” (dello stesso anno) da un’opera lirica dell’Ottocento. Se il Fra Diavolo del francese Auber era datato 1830, qui siamo qualche anno dopo, nel 1843; l’autore di “The bohemian girl” è l’irlandese Michael William Balfe, nato a Dublino nel 1808, che visse a lungo in Italia dove studiò da baritono con i grandi cantanti rossiniani; in seguito, intraprese la carriera di cantante e di direttore d’orchestra. Tornato in patria, divenne uno dei punti di riferimento della vita musicale inglese; fu Balfe, per citare solo un solo episodio, a dirigere la prima rappresentazione londinese del Nabucco, opera di un giovane compositore italiano (allora sconosciuto) che si chiamava Giuseppe Verdi.

L’opera “The bohemian girl” viene generalmente tradotta con “La ragazza di Boemia”, e così è successo anche con il film; ma la traduzione corretta sarebbe “La zingarella” o “La giovane zingara”, dato che nell’Ottocento si pensava che gli zingari venissero dalla Boemia. Anche la Carmen di Bizet, molti anni dopo, canterà “l’amour est enfant du Bohème”, non nel senso di un amore cecoslovacco, ma nel senso di zingaro, libero, non soggetto a vincoli. Era questa la visione degli zingari nei secoli passati, quando ancora non si era costruito dappertutto e dovunque in Europa c’erano ampi spazi liberi in cui muoversi liberamente. La vita del nomade era povera e magari disprezzata, ma faceva invidia per la sua libertà; ed è questo anche il soggetto del coro che vediamo all’inizio del film, le parole che si cantano sono un inno alla vita libera e nomade degli zingari, che non hanno le nostre quotidiane vessazioni.

Il soggetto dell’opera di Balfe viene dal racconto di Cervantes intitolato “La gitanilla”; il libretto originale inglese è di Alfred Bunn, la prima rappresentazione dell’opera avvenne il 27 ottobre 1843, al teatro Drury Lane di Londra. Non mi ricordo di rappresentazioni italiane di quest’opera, ma potrei sbagliarmi; nei Paesi di lingua inglese è molto famosa soprattutto per una sua aria, che è appunto quella che ho citato all’inizio e che nell’originale inizia con questi versi: «I dreamt that I dwelt in marble halls, With vassals and serfs at my side...». E’ un’aria molto eseguita anche da sola, in concerto, perché è scritta bene, ha una bella melodia e permette alle cantanti di fare un’ottima figura; l’esecuzione che ascoltiamo nel film è corretta ma non è una gran cosa. Io la conosco nella versione di Joan Sutherland, grandissima cantante operistica che si può ascoltare al fianco di Luciano Pavarotti nei suoi anni migliori; ma la ricordo anche ascoltata in strada, a Milano, da un gruppo di ragazzi molto giovani che la eseguirono molto bene. E’ citata anche da James Joyce nell’Ulysses, e a parte tutto questo è una melodia non di primissimo ascolto, ma a cui ci si affeziona subito quando si impara a riconoscerla.

A differenza di quanto avviene nel Fra Diavolo, dove i personaggi di Stanlio e Ollio sono un’estensione di personaggi già presenti nel libretto originale e dove la storia originale è seguita molto fedelmente, in “The bohemian girl” il libretto originale serve solo da traccia.
Non conosco l’opera di Balfe per intero, ma su internet c’è il libretto; gli ho dato un’occhiata e ho trovato che la giovane zingara, che non sa di essere figlia di un Conte, vi si innamora di un giovane zingaro, che sa di essere di nobile nascita ma lo deve tenere nascosto. Insomma, una trama molto convenzionale che nel film viene felicemente ribaltata: non sto qui a raccontare come, ma la bambina, rapita per vendetta (il Conte ha fatto frustare uno dei capi degli zingari) finisce poi per essere adottata da Stanlio e Ollio, due zii molto affettuosi e premurosi.
Non sto neanche qui a perdere tempo a raccontare tutte le gags, che sono infinite e memorabili; il film non è un capolavoro e anche le musiche non sono bellissime, ma l’intervento di Stan Laurel e di Oliver Hardy è, come al solito, una benedizione divina.

Qualche notizia su Balfe, da wikipedia:
« Michael William Balfe (Dublino, 15 maggio 1808 - Rowney Abbey Hertfordshiare, 20 ottobre 1870) è stato un musicista, compositore, cantante direttore d'orchestra irlandese, rimasto famoso soprattutto come autore dell'opera The Bohemian Girl. Figlio di un maestro di ballo, dal quale ricevette anche i primi insegnamenti musicali, Balfe, tra il 1814 e il 1815, iniziò a suonare il violino per le classi di danza del padre e, all'età di sette anni, compose la sua prima polacca. Alla morte del genitore nel 1823, l'adolescente Balfe si spostò a Londra dove fu ingaggiato come violinista nell'orchestra del Drury Lane della quale alla fine assunse un ruolo di guida e si esibì anche saltuariamente come direttore. Contemporaneamente, Balfe, che aveva una aggraziata voce di baritono, iniziò ad esibirsi anche come cantante lirico nei teatri di provincia, debuttando senza molta fortuna a Norwich ne Il franco cacciatore di Weber. Nel 1825 si trasferì a Roma dove studiò irregolarmente con Paër e poi a Milano dove approfondì i suoi studi di canto con il grande basso rossiniano Filippo Galli. In Italia scrisse il suo primo componimento drammatico, il balletto La Perouse. Balfe fu quindi scritturato per tre anni da Rossini al Théâtre des Italiens a Parigi dove debuttò, alla fine del 1827, come Figaro nel Barbiere di Siviglia. Balfe ritornò però presto in Italia dove, nei seguenti nove anni, cantò in molti teatri ed iniziò anche la composizione di opere liriche. Durante questo periodo sposò Luisa Roser, una cantante ungherese che aveva conosciuto a Bergamo.

Balfe tornò a Londra nel 1833 ed intensificò l'attività di compositore iniziata in Italia, pur continuando anche la propria carriera di cantante (nel 1838 fu il primo Papageno inglese). Nel 1836, incoraggiato dal successo del precedente Siege of Rochelle, al Drury Lane, egli diede alle scene, l'opera The Maid of Artois, il cui successo fu garantito dalla partecipazione di una stella di prima grandezza come Maria Malibran Dal 1846 al 1852 Balfe ricevette l'incarico di primo direttore per l'opera italiana all'Her Majesty's Theatre [Italian Opera House (1837-1847)], ma continuò a viaggiare per tutta l'Europa curando la rappresentazione dei suoi lavori. In effetti, egli si rivelò un compositore davvero prolifico, come è dimostrato anche dal semplice elenco delle sue opere inglesi. (...) Balfe scrisse anche tre opere in francese (...) e diresse la prima londinese del Nabucco, quando Verdi era ancora molto giovane e sconosciuto. (...) Balfe si ritirò nel 1864 nell'Hertfordshire, dove affittò una tenuta di campagna e morì nel 1870.
Curiosando nel catalogo delle opere di Balfe, molto ricco di titoli, ho trovato anche un Falstaff, anno 1838, cinquantacinque anni prima di Giuseppe Verdi. Il primo interprete del Falstaff di Balfe fu il basso Luigi Lablache, napoletano, grande interprete rossiniano.


Arline: Where have I been wandering in my sleep? and what curious noise awoke me from its pleasant dream? Ah, Thaddeus, would you not like to know my dream? Well, I will tell it you.
I dreamt that I dwelt in marble halls,
With vassals and serfs at my side,
And of all who assembled within those walls,
That I was the hope and the pride.
I had riches too great to count, could boast
Of a high ancestral name;
But I also dreamt, which pleas'd me most,
That you lov'd me still the same,
that you lov'd me, you lov'd me still the same...
I dreamt that suitors sought my hand,
That knights upon bended knee,
And with vows no maiden heart could withstand,
They pledg'd their faith to me.
And I dreamt that one of that noble host
Came forth my hand to claim;
But I also dreamt, which charm'd me most,
That you lov'd me still the same,
that you lov'd me, you lov'd me still the same...
(At the end of the romance, Thaddeus presses Arline to his heart.)
Arline: And do you love me still?
Thaddeus: More than life itself.



domenica 19 settembre 2010

Croce di consacrazione

- NATTVARDSGÄSTERNA (t.l. I comunicandi; titolo del distributore italiano: Luci d'inverno, 1962) . Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Scenografia: P. A. Lundgren. Montaggio: Ulla Ryghe. Montaggio sonoro: Stig Slodin e Brian Wiseström, Interpreti: Gunnar Björnstrand (Tomas Ericsson), Ingrid Thulin (Marta Lundberg), Max Von Sydow (Jonas Persson), Gunnel Lindblom (Karin Persson), Allan Edwall (Algot Provik), Kolbjörn Knudtsen, Olof Thurnberg, Elsa Ebbesen, Tor Borong, Betha Sannell, Helena Palmgren. Durata: 81 minuti.
- NOSTALGHIA (1983). Regia di Andrej Tarkovskij; soggetto e sceneggiatura: Andrej Tarkovskij, Tonino Guerra; fotografia: Giuseppe Lanci; musica: Giuseppe Verdi (messa di Requiem) , Ludwig van Beethoven (finale nona sinfonia), musica tradizionale russa, musica antica cinese. Scenografia: Andrea Crisanti; costumi: Lina Nerli Taviani. Interpreti: Oleg Jankovskij (Andrej Gorchakov), Erland Josephson [voce di Sergio Fiorentini] (Domenico), Domiziana Giordano [voce di Lia Tanzi] (Eugenia), Patrizia Terreno (moglie di Gorchakov), Milena Vukotic (donna nella piscina di Bagno Vignoni), Laura De Marchi, Delia Boccardo (moglie di Domenico), Raffaele Di Mario, Rate Furlan, Livio Galassi, Elena Magoia, Piero Vida. durata: 130'.

Nella chiesa di “Luci d’inverno”, che Bergman ci mostra con grande attenzione e che è nel centro della Svezia, a Dalarnas Län (cioè Contea di Dalarna ) mi ha molto colpito ritrovare un simbolo della Croce identico a quello della chiesa allagata di Rieti, in “Nostalghia” di Tarkovskij (la chiesa di San Vittorino, vicino a Cittaducale, sulla strada per Ascoli Piceno). Di conseguenza ho fatto una piccola ricerca, e ho scoperto che non si tratta di qualcosa di voluto e di cercato, ma di un dettaglio comune a quasi tutte le chiese, e che io non avevo mai notato.

Si tratta di una “Croce di consacrazione”: ne esistono dodici per ogni chiesa, possono essere dipinte o anche appese al muro. In assenza di queste croci, dalla forma particolare, la chiesa è solo benedetta e non consacrata: ma don Mauro, che mi spiega questi dettagli importanti, aggiunge che spesso si dà troppa importanza, nel discorrere comune, alla consacrazione e alla benedizione delle chiese. Si tratta di rituali importanti, ma secondari rispetto alla sostanza delle cose, cioè del rito in sè e della liturgia. Una chiesa si può sconsacrare e riconsacrare, così come gli oggetti e i paramenti usati; ma l’importante è il rito in sè, la fede, e non l’edificio in cui si officia il rito o i suoi accessori.
Sulla Croce di consacrazione, ho trovato questa definizione: «Ciascuna delle dodici immagini con il simbolo della croce poste o spesso dipinte, incise o scolpite direttamente sulle pareti interne di una chiesa, sulle colonne o sui pilastri, sulle quali il vescovo compie le unzioni per la consacrazione dell'edificio.»

Dal sito www.simmetria.org prendo in prestito queste righe:
Riti e ritmica di consacrazione di una chiesa cristiana (di C.Lanzi, da "Ritmi e Riti", pag 123)
«(...) Dentro la chiesa vengono dipinte, nel giorno di vigilia, 12 croci. Tre croci per ognuno dei quattro punti cardinali (naturalmente si parla di chiesa orientata).Sotto ogni croce vengono poste delle Candele. (...) Nella notte di vigilia la chiesa viene lasciata in custodia ad un diacono vestito di bianco che veglia fino al mattino, quando il Vescovo arriva davanti alla porta e, accompagnato dal collegio sacerdotale, recita i salmi penitenziali. E' fondamentale comprendere che nel rituale viene sempre premessa la fase di purificazione a qualsiasi altra. (...) Dopo una serie di riti che tralasciamo, il Vescovo bussa alla porta della chiesa e pronuncia la splendida frase: "Attollite portas, principes, vestras, et elevamini, portae aeternales, et introibit Rex Gloriae" (Salmo 23,7)" Segue poi una fitta serie di invocazioni, preghiere e canti che accompagnano altre due richieste di apertura. La terza volta sia il vescovo che gli astanti dicono in coro: "Aperite, aperite, aperite" (...) »
Il rituale è molto lungo, mi fermo qui e penso che per questo post basti e avanzi.

Da wikipedia prendo invece due illustrazioni di altre Croci di consacrazione, facendo presente che basta andare su un motore di ricerca per trovare molte altre immagini simili. La seconda di queste è una “croce patente a cerchio”: Croce patente a cerchio (fr: croix pattée alisée, en: cross pattée alisée) croce patente inscritta in un cerchio. Assume il nome di croce della consacrazione quando il cerchio circoscritto è dello stesso smalto.



Concludo il post con una panoramica degli arredi e affreschi della chiesa, che è molto bella e merita da sola la visione del film; don Mauro aggiunge che probabilmente è una chiesa molto antica, risalente a prima dello scisma luterano.
L'immagine sopra l’altare rappresenta la Trinità, il Padre che sorregge il figlio: ecco un’altra cosa a cui da solo non sarei mai arrivato.