sabato 31 luglio 2010

Dino Buzzati al cinema

Non è stato molto fortunato, al cinema, Dino Buzzati. E’ un peccato, perché di storie belle ne ha scritte tante, e molte sarebbero l’ideale per un film, ancora oggi.
Faccio una rapida ricerca su imdb, e trovo poco, i film interessanti li elenco qui sotto:
- Il fischio al naso, 1967, regia e interpretazione di Ugo Tognazzi, dal racconto “Un caso clinico”;
- Il deserto dei Tartari, 1976, regia di Valerio Zurlini;
- Il segreto del bosco vecchio (1993) e Bàrnabo delle montagne (1994), di Ermanno Olmi e di Mario Brenta (ma prodotto da Olmi).
E prima di tutti questi c’era stato “Un amore”, del 1965, regia di Gianni Vernuccio: ma questo film merita un cenno particolare, e ne parlerò per ultimo.
Dino Buzzati è uno dei “miei” autori, e quindi quando uscì il film di Zurlini andai a guardarlo con una certa apprensione. E’ un buon film, girato in Iran in una location memorabile (purtroppo danneggiata dal recente terremoto), ed è anche molto fedele al libro: ma non è che “Il deserto dei Tartari” sia reso al meglio. C’è qualcosa di rigido, di legnoso, in questo film così accurato: avrebbe tutto per essere perfetto, ma non lo è. E, alla fine, devo ammetterlo, sono rimasto deluso.
Molto deludente, sotto tutti i punti di vista, è invece il film di Tognazzi: che non rende nulla della sottile angoscia del racconto, cerca di virare al comico o al grottesco inventandosi un “fischio al naso” che in Buzzati non c’è, e allunga troppo un racconto che ha nella concisione narrativa il suo punto di forza. Il film di Tognazzi, di per sè, è interessante e ben fatto: ma chi conosce Buzzati ne resterà per forza di cose deluso.
Sono invece molto belli i due film di Olmi e di Brenta, che hanno saputo cogliere bene lo spirito di Buzzati. Non sono film facili, e non sono nemmeno film per tutti i giorni e tutti i momenti; ma quando si trova lo spirito giusto, vale davvero la pena di cercarli.
Quando uscì “Un amore”, nei primi anni ’60, per i lettori di Buzzati fu uno shock. Buzzati stesso racconta lo stupore, e anche gli insulti, che gli piovvero addosso: perché l’aereo Buzzati questa volta si era immerso per bene nella realtà, raccontando dell’amore di un uomo della sua età per una giovane prostituta, conosciuta in una casa di appuntamenti. Il libro è sincero, di una sincerità disarmante che ha dei precedenti illustri: e vorrei ricordare soprattutto “Senilità” e anche “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, nei suoi capitoli centrali. Ma Svevo non è così esplicito, pur essendo altrettanto sincero, e maschera abilmente la realtà della relazione; Buzzati invece ne parla apertamente, e da un signore come lui questo non se lo aspettava nessuno.
Sarebbe un argomento molto complesso, qui mi limiterò a dire che il film del 1965 l’ho solo guardato di sbieco, tanti anni fa; e che il libro di Buzzati ho cominciato ad amarlo da poco: fin qui gliene avevo preferiti altri, soprattutto i racconti. Ci sono tante cose che mi tengono lontano dal film, e che non mi fanno venire voglia di rivederlo; e la prima è la lista degli attori. I protagonisti sono Rossano Brazzi, un attore molto legnoso e poco adatto alle sfumature necessarie per il personaggio, e la sorella di Catherine Spaak, Agnes, allora diciottenne.
Guardo le foto di Agnes Spaak, molto somigliante alla sorella: le confronto con i mille disegni di Buzzati che ben conosco, e non trovo nulla che la renda adatta all’interpretazione di Laide, la protagonista di “Un amore”. Se devo pensare ad un’attrice adatta per il ruolo, mi viene in mente quasi soltanto Ottavia Piccolo (poco utilizzata dal cinema, eppure bravissima); e per la parte maschile, forse Mastroianni – che però all’epoca era troppo giovane. O magari, spostandoci in America, Wynona Ryder e Dustin Hoffmann...

Ma di Laide abbiamo due ritratti: uno disegnato da Buzzati stesso, e l’altro è la descrizione che troviamo al loro primo incontro, all’inizio del capitolo terzo; ed è con questa descrizione che chiudo il mio ragionamento, non senza aver fatto notare il riferimento a Breughel: tutt’altro che casuale. (il disegno alla fine del post viene da "Poema a fumetti" di Dino Buzzati, pubblicato anche negli Oscar Mondadori).
(...) Nel salotto, per così dire, c'era un divano ad angolo, un tavolo rotondo, un altro divano lungo, un armadietto, un armadio a muro. Mobili cosiddetti moderni, tipo Svezia, abbastanza semplici, un vago senso di pulizia. Stupiva la presenza, sui muri, di due grandi riproduzioni di Breughel il vecchio: le famose scene di contadini. Chissà come erano capitate là, o erano state scelte.
Era là, seduta sul divano lungo. Lui ne ebbe al primo sguardo un'impressione gradevole però niente di straordinario. Un faccino pallido, reso arguto dal naso dritto e prominente, dalla bocca piccola, dagli occhi tondi e attoniti. C'era qualcosa di fresco, di popolaresco, ma non volgare. Guardò, cercando di misurare il piacere che ne sarebbe presto seguito. Si accorse che l'ovale del volto era bellissimo, puro, benché non avesse niente di classico. Ma soprattutto colpivano i capelli neri, lunghi, sciolti giù per le spalle. La bocca formava, muovendosi, delle graziose pieghe. Una bambina.
La bocca aveva labbra sottili ma rilevate non apertamente sensuali, però maliziose. Il labbro inferiore, relativamente, sporgeva un poco, tanto più che il mento era piccolo, stretto e di profilo rientrante. Non aveva rossetto. La bocca era ferma e tesa, molto piccola in proporzione alla faccia, ma importante. Tutta la faccia era compatta per la tensione estrema della giovinezza. Era una faccia decisa, spiritosa, ingenua, furba, pulita, provocante. Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino. In questi approcci Dorigo era sempre imbarazzato. Il giudizio segreto di lei lo atterriva. Sapeva di non essere bello. Anzi. La sua faccia gli aveva sempre procurato dispiacere. Ancora da ragazzino, passando davanti alle vetrine dei negozi, gli capitava di guardarsi, trovando sul vetro la propria immagine. Ogni volta era una umiliazione. Che faccia odiosa, che faccia da cretino, a che donna sarebbe mai potuto piacere? (...)
(Dino Buzzati, Un amore, inizio capitolo terzo)

venerdì 30 luglio 2010

Munchhausen di Terry Gilliam

Il barone di Munchhausen (The Adventures of Baron Munchausen, 1988) Regia di Terry Gilliam. Dai libri di Rudolph Erich Raspe e Gottfried August Burger, Sceneggiatura di Charles McKeown e Terry Gilliam. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Scene di Dante Ferretti. Costumi di Gabriella Pescucci. Musica: Eric Idle, Michael Kamen. Con John Neville, Eric Idle, Sarah Polley, Oliver Reed, Charles McKeown, Winston Dennis, Jack Purvis, Valentina Cortese, Jonathan Pryce, Uma Thurman, Robin Williams, Sting (126 minuti)

Ecco un altro film esemplare: in teoria c’è tutto per far nascere un capolavoro, in pratica il film non decolla mai. Ci ho pensato a lungo, e non sono riuscito a stabilire bene il perché di questo fallimento. Ci sono dei difetti evidenti, ma molti film belli e di successo (a partire da Via col vento e da Casablanca) sono pieni di difetti, eppure non ci si fa caso. Ci sono dei meriti strepitosi, per esempio le scene e i costumi – opera di Dante Ferretti e di Gabriella Pescucci – sono di quelli da stropicciarsi gli occhi, meravigliosi e di grande giustezza e fantasia. C’è la storia, la vecchia storia del Barone fanfarone e dei suoi magnifici servitori. C’è il teatro nel teatro (il film comincia sul palcoscenico), che a me piace sempre moltissimo; e ci sono scene divertenti e memorabili, come la nascita di Venere dalla conchiglia, come in Botticelli: Venere è Uma Thurman a diciott’anni, il gelosissimo Vulcano è un grande Oliver Reed. E Robin Williams è il re della Luna (per motivi burocratici recita sotto il nome Ray D. Tutto), con Valentina Cortese a fargli da regina: le loro teste si staccano dal corpo per elevarsi e dedicarsi ai pensieri spirituali, ma il corpo le reclama sempre con insistenza per tutte le altre cose.
Non so: di certo il film appare troppo lungo, molto slegato, quasi che fosse montato controvoglia, di fretta, dopo che la produzione si è lamentata per i troppi soldi spesi: e forse è andata proprio così. Rivedendolo, mi ha ricordato un po’ “Eyes wide shut” di Kubrick (uscito diversi anni dopo): anche qui tutto bello, ma qualcosa manca – e quel qualcosa era il tocco finale di Kubrick, che non ha potuto finire il suo lavoro. O forse è la storia che imprigiona un po’ troppo Gilliam: il regista inglese aveva alle spalle due capolavori di fantasia come “Brazil” e “I banditi del tempo”, ma in questi due film aveva una libertà d’invenzione che qui non ha, ed è come se fosse un po’ in gabbia. Di sicuro, so che molti attori sono sbagliati: a partire dal protagonista John Neville, che è certamente un ottimo attore di teatro ma che qui pare sempre spaesato e coperto sotto quintali di trucco. Ma anche i servitori sono un po’ pallidi, e le musiche firmate da Michael Kamen sono un po’ troppo di seconda mano: cose già sentite da altre parti, e anche in arrangiamenti migliori.
Il pensiero corre a cosa ne avrebbe tratto Fellini (ma non credo che gli interessasse il soggetto), a Méliès nel 1911 (un anno triste per il vecchio mago, inventore degli effetti speciali: ma il film ha molte buone trovate) e soprattutto al vecchio film tedesco del 1942, regia di Joseph von Baky: anche quello non era un capolavoro, ma la scena del Barone sulla Luna era notevole. E’ un peccato non averlo sottomano...

giovedì 29 luglio 2010

L'invasione degli ultracorpi

L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the body snatchers, 1956). Regia di Don Siegel. Tratto da un racconto di Jack Finney (1954). Sceneggiatura di Daniel Mainwaring e Richard Collins. Fotografia di Ellsworth Fredericks Musiche di Carmen Dragon. Con Kevin McCarthy, Dana Wynter (Becky), King Donovan (Jack), Carolyn Jones (Theodora), Larry Gates (dr. Kaufmann) Sam Peckinpah (uomo del gas) Durata: 80 minuti

Un film avvincente, che si guarda dall’inizio alla fine senza mai annoiarsi: un piccolo capolavoro che andrebbe proiettato obbligatoriamente ancora oggi nelle scuole di cinema. Un esempio di come si scrive una sceneggiatura, al di là del soggetto; un prodigio di ritmo e di tenuta stilistica; attori tutti in parte e perfetti anche nelle parti più piccole; esterni ben scelti, interni accuratissimi, luci perfette, posizionamento delle cineprese da manuale.
Cos’altro aggiungere? Che, sì, è un film in bianco e nero degli anni ‘50: spero che non disturbi, faccio presente che il film è vecchio anche per me (nel 1956 non ero ancora nato) e che privarsi della visione dei film più belli solo per un criterio di colore o di data d’uscita significa veramente volersi male. Oltretutto, negli anni ’40 e ’50 sono usciti alcuni tra i più bei film d’azione di tutti i tempi, veri modelli per tutte le generazioni seguenti.
Il fatto che la riuscita di “L’invasione degli ultracorpi” sia merito di Don Siegel e dei suoi collaboratori, e non della storia in sè, è dimostrato dai numerosi remakes più o meno dichiarati o mascherati, nessuno dei quali è entrato nella storia del cinema. Molte storie di per sè bellissime sono state rovinate da cineasti scadenti, molte storie di per sè poco significative hanno dato origine a capolavori grazie al lavoro di bravi artigiani e grandi artisti: nulla di nuovo sotto il sole, basterà sottolineare (ancora una volta) che ci sono ciofeche recentissime e capolavori di cent’anni fa, e anche viceversa – ma le ciofeche di cent’anni fa non le guarda più nessuno e nessuno ha interesse a raccontarvi che dovete spendere dei soldi per vederle.
Don Siegel ha al suo attivo molti altri film d’azione: sono famosi quelli con Clint Eastwood, ma se ne trovate uno con la sua firma su qualche palinsesto tv vale sempre la pena di vederlo.
“L’invasione degli ultracorpi” è un film che mi ricordavo attimo per attimo, anche dopo vent’anni che non lo vedevo per intero. Molte sequenze sono infatti indimenticabili, come quella del corpo informe disteso sul biliardo, in primissimo piano, che d’improvviso prende vita e apre gli occhi: girata da maestro, senza trucchi e con grandissimo mestiere.
Un particolare che avevo dimenticato, forse l’unico, è che il protagonista è un medico generico, medico di famiglia. Questo dettaglio mi ha fatto molto pensare. Considerazioni amare, perché sul fatto che sia un medico di famiglia, e che per questo motivo conosca tutti e da tutti sia conosciuto, è il dettaglio sul quale si basa gran parte del film, soprattutto all’inizio.
Paesi come Santa Mira, il luogo dove si svolge l’azione del film, una volta erano comunissimi. Fino a tutti gli anni ’70, anche da noi era così: un mondo a misura d’uomo, dove ci si conosce tutti (nel bene come nel male) e non c’è bisogno di mostrare pass, tesserini, smart card; dove vigili e poliziotti svolgono egregiamente il loro compito senza dare multe e senza togliere punti dalla patente, semplicemente usando il buon senso. Così è stato, ma poi è finita: ed è storia recente, recentissima. Forse i ragazzi di vent’anni non lo sanno, e se glielo si racconta non ci credono; e se provi a raccontarlo in giro, anche alle persone di cinquant’anni, neanche loro se lo ricordano più e ti danno del nostalgico. Eppure un altro mondo è possibile, e anzi questo mondo c’era, ma è stato spazzato via in meno di quindici anni.
Oggi nessuno più vuole fare il medico di famiglia, medicina generale è “roba da sfigati”: lo dicono le statistiche sulle iscrizioni all’Università. Tutti oncologi, tutti endoscopisti, tutti chirurghi plastici. Dei medici generici, quelli che ci sono lo fanno quasi sempre per ripiego e di malavoglia; e mai e poi mai verrebbero di casa in casa, come fa il dottore protagonista del film: eppure era cosa normale fino a pochissimi anni fa. Il medico di famiglia, medico di base, correva e dava le prime cure: metteva i punti sulle ferite, per esempio, senza bisogno di andare a intasare il Pronto Soccorso, che serviva solo per le cose gravi. Non so se lo faccia ancora qualcuno, oggi vale la regola che per farsi visitare dal medico di famiglia bisogna prenotare, e che se una mamma telefona dicendo “mio figlio ha la pelle coperta di pustole e la febbre a 40” la risposta d’obbligo è “me lo porti qui in ambulatorio” (con il rischio di far prendere la rosolia o il morbillo a tutti i presenti? ma sì, certo). Mi hanno raccontato cosa succede nelle grandi città: se si ha in casa un malato che necessita di cure, è molto probabile che il vostro medico di base vi scarichi. Il motivo? Muoversi nel traffico, fatica per parcheggiare, eccetera. Il che porta a considerare non solo i medici, ma tutta l’organizzazione della nostra società: la politica, insomma.
Guardandosi in giro, viene spesso da pensare che nel frattempo gli alieni si siano fatti furbi, e usino mezzi più sottili e perfezionati rispetto ai baccelloni e agli ultracorpi. La politica di successo, in questi ultimi 10-15 anni, è stata quella che ha puntato ai nostri istinti più tirchi e più gretti, facendo leva sulle persone senza sentimento, intente solo a badare a se stesse, indifferenti anche di fronte al naufragio di una nave con più di cento persone a bordo (“ma sì, erano tutti negri e marocchini”).
Però forse sto andando troppo in là per un piccolo film come questo – o forse il film non è così piccolo come si pensa?
Ottimi tutti gli attori, anche nelle piccole parti; non un granché la musica, ma funziona e non è mai invadente. La protagonista femminile è Dana Wynter, bella ed elegante, forse l’unica vera star del film; Kevin Mc Carthy è il protagonista, King Donovan è l’amico Jack, e il (futuro) grande regista Sam Peckinpah ha una piccola parte come attore, l’uomo del gas.
A questo proposito, va ricordato che è molto bella anche l’intervista a Kevin Mc Carthy sul dvd ufficiale: ne esce un ritratto diverso da quello che ci si aspettava, Kevin si rivela persona fine e intelligente, e dice cose molto sensate. Ho appreso così che Kevin McCarthy ha fatto quasi soltanto teatro, che è la sua vera passione; in effetti la sua filmografia è piuttosto scarsa, e di mio ricordo soltanto che recitò con John Huston in “The misfits” (Gli spostati, 1958), una piccola parte accanto a Marilyn Monroe, Clark Gable, Montgomery Clift ed Eli Wallach.
Il romanzo da cui fu tratto il film, scritto da Jack Finney, è del 1954: dunque fu subito preso e portato sugli schermi. In Italia è uscito da Urania (collana di fantascienza) anche con il titolo “Gli invasati”, E’ in effetti un buon romanzo di fantascienza, non un capolavoro; la differenza con il film è che nel libro non c’è il flashback, si parte con il ritorno a casa del protagonista e con la scoperta man mano di quello che succede. Pare che l’impostazione finale del film sia stata voluta dalla produzione, che riteneva la versione originale poco comprensibile; per questa ragione furono aggiunte la voce narrante e le scene iniziali, girate a riprese già concluse. Nel dvd, si racconta che Siegel e il suo staff erano contrari all’idea, ma che poi acconsentirono per poter avere il controllo finale su tutto il film, che altrimenti sarebbe passato in altre mani; e direi che è stata una buona idea, il film è ottimo anche così.
Una nota finale sul titolo originale: “The body snatchers, “ladri di corpi”, ma “to snatch” ha il senso di “afferrare, strappare a viva forza”. Uno scippo, verrebbe da dire.
Il titolo è lo stesso di un famoso racconto di Robert Louis Stevenson (fine ‘800) che parlava di trafugatori di cadaveri per le scuole di anatomia, parente stretto quindi del Frankenstein di Mary Shelley. Con il titolo “The body snatcher”, tratto da Stevenson, esiste un film del 1945 con Boris Karloff e Bela Lugosi, regia di Robert Wise: il titolo italiano è “La iena”.

mercoledì 28 luglio 2010

Rosencrantz e Guildenstern sono morti

Rosencrantz e Guildenstern sono morti (Rosencrantz and Guildenstern are dead, 1990)Scritto e diretto da Tom Stoppard. Liberamente tratto dall'Amleto di William Shakespeare. Fotografia: Peter Biziou. Musica: Stanley Myers, Pink Floyd. Girato nel Castello di Brezice, in Slovenia. Con Tim Roth, Gary Oldman, Richard Dreyfuss, Iain Glen, Joanna Roth, Joanna Miles (117 minuti)

Nell’Amleto di Shakespeare ci sono tanti personaggi: Amleto, Laerte, Ofelia, Polonio, il Re, la Regina, lo Spettro del Re, i due becchini, Fortebraccio... Tutti importanti. E poi ci sono Rosencrantz e Guildenstern, i due amici di Amleto, suoi ex compagni di studi, chiamati a corte dalla Regina per capire cosa succede a questo benedetto figliolo. Ecco, se non avete letto l’Amleto, o se lo avete letto e non ve lo ricordate, questo film vi riuscirà incomprensibile: ed è il suo principale limite. Ma è un film del quale vale la pena parlare, per molti motivi.
Rosencrantz e Guildenstern, nell’Amleto, sono presenti in moltissime scene; ma non sono personaggi importanti. Shakespeare li usa, sempre rigorosamente in coppia, per fare da spalla ad Amleto; e, alla fine, li fa morire in modo goffo e quasi comico. E li fa morire lontani, fuori dal palcoscenico: della loro morte giunge appena la notizia, e quasi non ci si fa caso, visto tutto quello che capita e che sta per capitare. A Rosencrantz e Guildenstern non spetta nemmeno una morte degna di nota, niente applausi e niente di particolare da ricordare.
Un destino da comprimari, da personaggi incompiuti e appena abbozzati, che il drammaturgo inglese Tom Stoppard ha voluto provare a riscattare. Prima con una pièce teatrale, che ha avuto grande successo nei paesi anglosassoni, e infine con questo film del 1990, scritto e diretto dallo stesso Stoppard.
Stoppard racconta di aver voluto prendere i due e farli diventare una specie di coppia comica, quasi un duo sul tipo di Stanlio e Ollio; li vuole stralunati e un po’ goffi, turisti sperduti in questa tragedia dove sono stati chiamati, ma che non capiscono e della quale saranno vittime. Ne esce un esercizio di stile molto intelligente e divertente, dove non si sa mai bene chi è Rosencrantz e chi è Guildenstern (anche loro due faticano a ricordarselo), dove Rosencrantz (o era Guildenstern?) raccoglie una moneta d’oro, la getta in aria e viene testa; ci riprova, e viene ancora testa; ci riprova ancora, e ancora. In tutto, più di centosessanta volte esce testa: che il Tempo si sia fermato? che ci sia sotto qualche sortilegio, forse una di quelle cose “che ce ne sono molte di più in cielo e in terra di quante se ne citino nella tua filosofia, caro Orazio”. Una riflessione tutt’altro che banale sulla Verità, sulla Fortuna, sul Destino, sul Tempo...
E poi ci sono gli Attori, che sono il vero cuore del dramma messo in scena da Stoppard: gli Attori, che arrivano al castello di Amleto insieme ai due protagonisti. Il capocomico, quello che reciterà per Amleto “la morte di Gonzago”, è Richard Dreyfuss; i due studenti amici di Amleto sono Gary Oldman e Tim Roth, Amleto è Iain Glen, vestito come Laurence Olivier; e – forse non lo sapete ancora, è uno scoop – sono proprio Rosencrantz e Guildenstern, con la loro goffaggine, a provocare la morte di Polonio per mano di Amleto.
Una goffaggine che richiama i personaggi di Beckett e che, a posteriori, avrebbe forse meritato un Mr. Bean; ma che Stoppard risolve con eleganza, con ottimi attori, belle scene e bei costumi, e facendo rifare a Guildenstern (o era Rosencrantz?) storici esercizi di fisica, da Galileo e Archimede fino all’invenzione dell’aeroplanino di carta, che si concludono sempre con piccole e sorridenti catastrofi.
Un Amleto visto da prospettive insolite, insomma, di lato o di fianco, da una botola o da un corridoio, con i famosi monologhi interrotti sul più bello dal chiudersi di una porta; e che ha un altro protagonista nel castello di Brezice, in Slovenia, dove è stato girato il film – un luogo del cinema che si meriterebbe un post a parte.
Ci sono tante scene dell’Amleto in cui compaiono Rosencrantz e Guildenstern, e Stoppard le cita quasi tutte. Ma ce ne è una che a me piace molto, e che stranamente Stoppard elimina dal film. Me ne sto ancora chiedendo la ragione; comunque sia provo a rimediare pubblicandola qui.
William Shakespeare, Hamlet
atto terzo, scena seconda.
(traduzione di Alessandro Serpieri, ed. Feltrinelli)
Entrano gli Attori con i flauti.
Amleto: Oh, i flauti, fatemene vedere uno. Venite, appartiamoci - perché vi date da fare per venirmi sopravvento, come se voleste cacciarmi in una rete?
Guildenstern: Oh, mio signore; se la mia devozione è troppo ardita, il mio affetto è troppo indiscreto.
Amleto: Questo non lo capisco bene. Vuoi suonare questo flauto?
Guildenstern: Non ne sono capace, mio signore.
Amleto: Ti prego.
Guildenstern: Credetemi, non ne sono capace.
Amleto: Ti supplico.
Guildenstern: Non ne conosco nemmeno una nota, mio signore.
Amleto: E’ facile come mentire. Controlla questi fori con le dita e il pollice, dagli fiato con la bocca, e ti discorrerà la musica più eloquente. Guarda, queste sono le note.
Guildenstern: Ma non so comandarle a nessuna espressione d’armonia; non ne conosco l’arte.
Amleto: E allora vedete adesso, che cosa meschina fate di me. Vorreste suonare su di me, vorreste mostrare di conoscere le mie note, vorreste cogliere il cuore del mio mistero, suonarmi dalla mia nota più bassa fino alla più alta del mio registro; e c’è molta musica, voce eccellente, in questo piccolo organo, eppure non sapete farlo parlare. Credete che io sia più facile a suonare di un flauto? Chiamatemi lo strumento che volete, per quanto mi stuzzichiate per accordarmi, non potrete suonare su di me. (...)
(William Shakespeare, Amleto, atto III scena II)

Sera di un saltimbanco (Una vampata d'amore)

Gycklarnas Afton (Sera di un saltimbanco (Una vampata d’amore) 1953). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist e Hilding Bladh. Musica: Karl Birger Blomdahl. Scenografia: Bibi Lindström. Costumi: Mago. Montaggio: Carl Olov Skeppstedt. Interpreti: Ake Grönberg (Albert, direttore del circo), Harriet Andersson (Anna), Annika Tretow (Agda, moglie di Albert), Hasse Ekman (Frans, l'attor giovane), Gunnar Björnstrand (il direttore del teatro), Anders Ek (il clown Frost), Gudrun Brost (Alma, la moglie del clown) Erik Strandmark (Jensa), Curt Lowgren (il cocchiere), Kiki (il nano), Ake Fridell (un artigliere). Durata: 93 minuti
- Chi sono quegli ineducati che disturbano le prove?
- Un signore e una signora per il direttore...
- Mandali nel più profondo dell’inferno. No...anzi...Portameli.
- Veramente non era una cosa importante...torniamo un’altra volta.
(l’incontro fra il direttore del teatro e il direttore del circo, in teatro, a mezz’ora circa dall’inizio)
Una donna fa il bagno nuda, in mare, in mezzo ai soldati. Altri soldati, a riva, guardano e ridono: è in corso un’esercitazione militare, ma il tempo per divertirsi lo si trova sempre. Gli ufficiali guardano e ridono anche loro; e per migliorare la beffa si manda ad avvertire il marito di quella donna: che è un clown, di un piccolo circo accampato lì vicino.
Il clown, volto bianco, ancora in abito di scena, va a riprendersi la moglie; ma non è facile, avanza lentamente nell’acqua, tra i sassi. La donna, a questo punto, si vergogna: ma è tardi. I soldati, per divertimento, nascondono gli abiti dei due; il marito, per nascondere il corpo della donna, la carica su di sè. Ma la strada è lunga e scoscesa, non ce la fa, cade più volte. Intorno a lui, la gente guarda e ride.

La rappresentazione di questa scena è uno dei punti più alti nel cinema di Bergman: che la gira (ad alcuni sembrerebbe comica) stando dalla parte di chi soffre, del clown e di sua moglie. E’ una marcia al Calvario, una via crucis ritmata dai timpani che imitano gli spari dei cannoni, una deposizione dalla Croce che termina con un’immagine degna della Pietà rappresentata da un grande pittore, un Caravaggio o magari un pittore nordico. Intorno, i curiosi fanno ressa e si danno di gomito.
La scena tra Frost e Alma è successa sette anni prima; adesso il circo sta tornando in quei posti e l’uomo che guida il carro se ne ricorda e la racconta ad Albert, che non la conosceva.

Il clown Frost, pur avendo una parte notevole, non è il protagonista di “Gycklarnas Afton”: ma a lui è dedicata la sequenza iniziale, maestosa e bellissima, ripresa direttamente dal cinema muto, o forse addirittura dal Teatro Nô giapponese, straordinaria per profondità e potenza espressiva. Il protagonista del film è il direttore del circo, e con lui la sua compagna di vita: che è molto bella e molto più giovane di lui, che appare ingrassato e molto male in arnese. Ciò non ostante, la ragazza sembra volergli bene; più avanti nel film sapremo che ha una moglie da cui è separato, e vedremo i suoi due figli.
E’ difficile indicare una data per il tempo in cui si svolge l’azione: potremmo essere in un tempo indefinito fra ‘700 e ‘800, ma da un accenno alle automobili da parte di Albert si capisce che siamo a inizio ‘900 (ma di automobili nel film non se ne vedono)
Il film presenta anche l’incontro fra il mondo del circo e il mondo del teatro. Il direttore del circo, che si chiama Albert ma che ha italianizzato il suo nome in “Alberti” (si sa che i circhi portano quasi sempre nomi italiani) è interpretato da un attore bravissimo che si chiama Ake Grönberg; il direttore del teatro è invece Gunnar Björnstrand, fedele compagno di strada di Bergman.
Il direttore del teatro si chiama Sjüberg: Albert gli ha chiesto in prestito dei costumi di scena (i suoi li ha dovuti impegnare, il circo è rimasto senza soldi) e Sjüberg risponde beffardo che teme la sporcizia del circo, le pulci e le cimici; ma poi, alla fine , concederà il prestito. Si capisce fin dall’inizio che non ha niente in contrario, ma che vuole soltanto divertirsi un po’ alle spalle dell’uomo del circo.
- Perché mi insulta in questo modo?
- Perché? (pausa) Perché, direttore Alberti, lei è della stessa razza: la stessa miserabile e cenciosa razza nostra. No, non mi dia un pugno. (Albert non ci pensa neanche, e non viene inquadrato: questo è un monologo da recitare, e Björnstrand lo fa con grande stile). Noi vi disprezziamo perché vivete in carrozzoni invece che in luride locande; noi siamo attori, voi giocolieri. Il più umile e sciocco dei nostri può sputare sul migliore dei vostri, e sa il perché? Perchè voi mettete in palio la vita, noi la vanità. (...)

Con quei costumi (molto belli) Albert si inventa una sfilata del circo per la città, come si fa in America con Barnum; la trovata avrà buon esito nell’incasso serale, ma viene interrotta dall’intervento dei poliziotti: Albert non ha i necessari permessi. E’ una scena buffa e leggermente drammatica che mi ha ricordato Kafka (i funzionari del “Castello”), ma anche la Lulu di Alban Berg, o i Pagliacci di Leoncavallo: la differenza con Leoncavallo è che qui la commedia continua, si va avanti. Ho trovato invece più differenze che somiglianze con un film importante dello stesso periodo, “La strada” di Federico Fellini: l’ambientazione è simile e alcune sequenze potrebbero passare da un film all’altro, ma i personaggi sono molto diversi.
Mi sono divertito a prendere nota dei possibili rimandi che mi sono venuti in mente durante la visione del film: ovviamente la Commedia dell’Arte è al primo posto, e Carlo Goldoni ha scritto trame molto simili a questa. Troviamo giochi di coppie e d’amore come in Mozart e in Beaumarchais, echi dell’Amleto e dell’Otello (soprattutto nelle scene in cui Albert ha in mano la pistola e minaccia Frost). Ci si muove tra il comico e il tragico, fra la commedia e la vita quotidiana: come in Berg, Cechov, Strindberg, Ibsen.
Nella parte visiva ci sono molti richiami all’espressionismo tedesco e al cinema di Victor Sjöström, maestro riconosciuto di Bergman; ma c’è anche una possibile ispirazione per il cinema di Jim Jarmusch (Dead man, Mystery train, Down by law...). Le maschere di cartapesta e gli specchi, le prove dei costumi e tutta l’atmosfera delle scene in teatro (minuto 48) fanno venire in mente qualcosa di “Eyes wide shut”, l’ultimo film di Stanley Kubrick. Restando a Bergman, c’è un chiaro anticipo del “Settimo Sigillo” nelle scene iniziali controluce, e nella marcia del carro attraverso campi e boschi. E poi c'è questo disegno di Picasso, "Le repas frugal", che a me piace molto accostare a questo film.
Altri appunti presi al volo: Agda, la moglie di Albert, è elegantissima; nel suo negozio tutto è pulito e ordinato. Il figlio maggiore di Albert è vestito come Bergman nelle sue foto da bambino; Albert non ha la camicia, solo i polsini e il colletto (quasi come Eduardo de Filippo in una sua famosa recita). Il braccio di ferro è al minuto 51; al minuto 56 vediamo l’organetto e le scimmie; lo spettacolo del circo è al minuto 70, con la cavallerizza spagnola e il cavallo andaluso.
Non sono riuscito a capire che cosa stanno mettendo in scena gli attori in teatro: ne ascoltiamo delle parti piuttosto lunghe, e Bergman ci mostra perfino la locandina che però è in svedese. L’unico richiamo possibile è il nome “Badrincourt de Chamballe” quando l’attor giovane (nelle prove) simula il suicidio con il pugnale di scena: ma cercando su google ho trovato solo i rimandi a questo film.

Al minuto 60, Albert dice che gli piace la gente, che non odia nessuno, che vuole solo smettere con il circo, diventare un cittadino coi soldi, rispettato (tra le smorfie di paura del clown, con la pistola in mano, davanti ad Harriet Andersson). “Apri la porta all’aria fresca!” dice infine Frost; e fuori c’è gente che balla e che fa festa (Strindberg, Ibsen...)
Nel finale, Frost racconta un suo sogno ad Albert: inizia dicendogli “Hai bisogno di riposo, come un bambino mai nato”; e il sogno parla del desiderio di rientrare nell’utero. (Parole ed atmosfere simili si trovano nel Woyzeck di Georg Büchner).
Il film, che non è solo drammatico e ha molti movimenti piacevoli, racconta di persone costrette a continuare, ad andare avanti, a stare insieme nonostante tutto. Anche quando vorrebbero chiudere e cambiare devono tirare avanti: tirare avanti come prima, non sono concessi cambiamenti. Questo è forse l’inferno, forse il purgatorio: Bergman lo ha descritto in quasi tutti i suoi film, ed è il tema della drammaturgia di Beckett, che ebbe grande successo proprio negli stessi anni. Alla fine del film, sarà soltanto l’orso a farne le spese: del tutto innocente, come si conviene ad un capro espiatorio.
Notevole la musica di Karl Birger Blomdahl, che ricorda molto Berg e impiega in modo straniante un organetto da circo. All’inizio del film il carrettiere (quello che poi racconterà la storia di Frost e di Alma) ha un canto che al primo ascolto può apparire sgradevole, ma che ha radici profonde nel folklore nordico.
Ed è da antologia, da scuola di cinema, l’uso del sonoro da parte di Bergman, un vero montaggio musicale.

Il titolo che fu scelto dal distributore italiano è “Una vampata d’amore”. Ho però scelto di mettere “Sera di un saltimbanco” (la traduzione del titolo originale, secondo la versione di Tino Ranieri, Il Castoro Cinema) per evitare confusione con altri titoli simili di film di Bergman, e anche perché il titolo italiano – a dirla tutta – non significa nulla. Cercando notizie su internet, ho scoperto che il film in inglese si chiama “Sawdust and tinsel”, più o meno “Segatura e lustrini”: forse si potrebbe rendere l’idea con “Il crepuscolo del saltimbanco”, pescando un po’ da Wagner e un po’ da Carducci. In fin dei conti, non avendo un titolo davvero soddisfacente, “Sera di un saltimbanco” non suona molto bene ma dovendo scegliere mi sembra di gran lunga il male minore.
Ingmar Bergman, da "Immagini" (ed. Garzanti)
Su “Gycklarnas afton” non c'è molto da dire. Si può affermare che il film è un tumulto, ma un tumulto ben organizzato. Lo scrissi in un piccolo hotel nei pressi di piazza Mosebacke, nello stesso edificio del Södra Teater. La camera era stretta, con una vista di chilometri sulla città e sulla rada. Dall'hotel si scendeva al teatro attraverso una scala a chiocciola segreta. La sera si udiva la musica che veniva dal palcoscenico della rivista. Di notte, nella sala da pranzo dell'hotel, gli attori e i loro bizzarri ospiti facevano festa. In quell'ambiente, in meno di tre settimane, nacque “Gycklarnas afton”. I dèmoni della gelosia retrospettiva furono imbrigliati e attaccati al carro. Furono costretti a un'attività produttiva. Scrissi il film difilato, dal principio alla fine, senza pensarci o fare delle aggiunte. Il dramma aveva la sua origine in un sogno, che io raffiguravo con uno sguardo retrospettivo su Frost e Alma. E’ facilmente interpretabile. Qualche anno prima ero stato sconsideratamente innamorato. Con il pretesto dell'interesse professionale, spinsi la mia amata a raccontarmi nei dettagli le sue sfaccettate esperienze erotiche. La specifica eccitazione della gelosia retrospettiva mi logorò, graffiandomi nelle viscere e nel sesso. I rituali più primitivi dell'umiliazione formarono con la gelosia una lega indissolubile. Questa miscela per poco non fece esplodere chi l'aveva prodotta. Se si vuole adoperare una terminologia musicale, si può dire che l'episodio di Frost e Alma è il motivo conduttore. Poi seguono, in una cornice temporale unitaria, una serie di variazioni: erotismo e umiliazione in combinazioni variabili. “Gycklarnas afton” è un film relativamente sincero e svergognatamente personale... (...) Ci soffermammo abbastanza a lungo sugli esterni e rimanevamo fuori con il buono e il cattivo tempo. A poco a poco ci trovammo uniti in una simbiosi più alta, fortemente fragrante, con le persone del circo e gli animali. Era un periodo di incoscienza sotto tutti i punti di vista. (...) Quando terminammo di girare il film, Harriet Andersson e io andammo in vacanza ad Arild. Non mi ero ancora messo a lavorare al montaggio del materiale, ma ero contento di ciò che avevo fatto. In piena felicità scrissi una commedia nella camera della torre della pensione, mentre Harriet prendeva il sole sulla spiaggia là sotto. La storia fu battezzata “Una lezione d'amore”. (...) "Gycklarnas afton" ricevette un'accoglienza di cui il minimo che si potesse dire era che si trattava di una mistura di giudizi differenti. Uno stimato critico di Stoccolma scrisse di «rifiutarsi di valutare ocularmente l'ultima opera del signor Bergman». L'espressione è abbastanza significativa per l'astio che incontravo da molte parti. Purtroppo, anche a costo di essere noioso, non posso affermare che non ne fui influenzato.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti)

martedì 27 luglio 2010

Sorrisi di una notte d'estate

SOMMARNATTENS LEENDE (Sorrisi di una notte d'estate, 1955). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer e Ake Nilsson. Musica: Erik Nordgren. Scenografia: P.A. Lundgren. Montaggio: Oscar Rosander. Costumi: Mago. Interpreti: Eva Dahlbeck (Désirée), Gunnar Björnstrand (avvocato Egerman), Harriet Andersson (Marta), Ulla Jacobsson (moglie di Egerman), Björn Bjelvenstam (figlio di Egerman), Jarl Kulle (conte Malcolm), Margit Carlqvist (moglie di Malcolm), Ake Fridell (Fritz), Gul Natorp (Malla), Naima Wifstrand (madre di Désirée), Bibi Andersson (attrice), Birgitta Valberg (altra attrice), Anders Wulff (il piccolo Fredrik), Juliane Kindahl (la cuoca), Gunnar Nielsen (Niklas). Durata: 108 minuti
Fredrik (davanti allo specchio): Come faccia una donna ad amare un uomo, proprio non lo capisco.
Desirée (sorridendo): La donna non giudica secondo l’estetica. E, nel peggiore dei casi, spegne la luce.
Me lo sono sempre chiesto anch’io: cosa ci troveranno mai le donne, nei maschi? Come spiegherà bene anche la moglie di Malcolm, più avanti, noi siamo più brutti delle donne, e anche pelosi. Ma il sorriso di Eva Dahlbeck in questa scena (un sorriso molto divertito, ma anche serissimo) toglie ogni dubbio: del resto, ormai dovrei saperlo – ma ogni volta la cosa mi coglie di sorpresa.

Come fanno le donne ad amare gli uomini? Se lo chiede anche Ingmar Bergman, ed è una domanda (ancora una volta) divertita ma serissima. In fin dei conti, rimane un mistero – un bel mistero, a dirla tutta. Sta di fatto che da quando ho rivisto “Sorrisi di una notte d’estate”, un film che ho sempre amato moltissimo ma che non vedevo da un’infinità di tempo, non riesco a togliermi dalla testa Eva Dahlbeck: che qui appare non solo come grande attrice, ma anche come donna bellissima e intelligente. Insomma, mi sono quasi innamorato: cosa strana, ma la spiegazione c’è. Questa era infatti la prima volta che vedevo il film in edizione originale, cioè integrale e non doppiata; nella versione italiana Eva Dahlbeck era doppiata in maniera eccellente, ma l’attrice che le dava la voce era la stessa che doppiava, in quegli anni, tutte (ma proprio tutte) le dive di Hollywood, e perfino quelle di casa nostra; così che si finiva per pensare che nei film tutte le parti femminili (ma proprio tutte) fossero interpretate da un’unica attrice.

Vedere e ascoltare con la sua vera voce un’attrice così brava è un’esperienza piacevolissima; e il fatto di non conoscere lo svedese diventa del tutto secondario, se si conosce la storia. Tra l’altro, lo svedese è una lingua dal suono molto simile all’italiano, basata sulle vocali; non assomiglia né al tedesco né all’inglese, come si potrebbe pensare senza averla mai ascoltata. Ci sono infatti cantanti d’opera importanti, come il tenore Jussi Björling, che hanno una pronuncia italiana perfetta e naturalissima; da quando so com’è il suono della lingua svedese so anche perché.
Insomma, giunto a questo punto confesso che sto solo perdendo tempo e tirando un po’ in lungo, al solo scopo di inserire qualche immagine in più: “Sorrisi di una notte d’estate” è un film bellissimo e divertente, come presentazione ci si potrebbe anche fermare qui e non aggiungere altro; ma qualcosa finirò pure per dirla.

Al punto in questione, cioè a mezz’ora dall’inizio, l’avvocato Fredrik è caduto in una pozzanghera: la sua amante gli aveva appena detto “attento alla pozzanghera” e lui ci è cascato dentro, bagnandosi senza speranza e provocando una meravigliosa risata della donna.
E’ una pozzanghera d’acqua limpida, in cui ci si specchia: Bergman ne approfitta per girare una sequenza molto bella, da antologia. Nella versione italiana “Sorrisi di una notte d’estate” fu molto tagliato e censurato, al punto da rendere molti passaggi quasi incomprensibili; ma va anche detto che eravamo nei primissimi anni ’50, e che questo film ha uno dei soggetti più scabrosi che mi sia mai capitato di incontrare. Tutto è trattato con grazia e con grande finezza, ma anche con una franchezza e una precisione nei dettagli che è raro incontrare ancora oggi: per non rovinare il piacere della visione e dell’ascolto dei dialoghi ne porto un solo esempio, cioè quando Harriet Andersson (la cameriera) e Ulla Jacobsson (la moglie del padrone) discutono della verginità e dei dettagli della vita amorosa, e se sia possibile riconoscere la verginità “dalla luminosità degli occhi e della pelle”.

Nella commedia, Ingmar Bergman è divertente e leggero come pochi altri; però passa per cupo ed angoscioso, e in effetti di film cupi e angosciosi (e anche molto belli) ne ha girati parecchi. Il sorriso di Bergman mi ha stupito molto la prima volta che l’ho visto, in un’intervista in cui era ormai molto anziano; ed è il sorriso di una persona gentile e intelligente, proprio l’immagine che ci si farebbe pensando all’autore di commedie come questa. In cerca di notizie, sono andato a prendere “Immagini” (ed. Garzanti) il libro in cui il regista svedese passa in rassegna tutti i suoi film, uno per uno: ma alla voce che dovrebbe corrispondere a “Sorrisi di una notte d’estate” c’è pochissimo. Ci sono molte pagine, ma Bergman parla d’altro; più che altro, spiega di aver girato delle commedie per “motivi alimentari”: le commedie venivano pagate bene e facevano buoni incassi. Insomma, una sagoma d’uomo: gira dei capolavori e lo sa benissimo, ma poi li liquida dicendo che sono cosette da poco (farà la stessa cosa parlando di “Il settimo sigillo”: “un piccolo film a cui sono molto affezionato”).

Siamo agli inizi del Novecento, e non nell’Ottocento come potrebbe sembrare, perché ad un certo punto compare un’automobile: il suo fortunato possessore se ne fa vanto spiegando che va addirittura a 25 all’ora, veloce come il vento. E’ un film dove quattro coppie si intrecciano, si fanno e si disfano, e ricorda molto le grandi commedie mozartiane, soprattutto il “Così fan tutte”; e c’è un anticipo del Papageno del "Flauto Magico" nel vetturino di cui si innamora Harriet. C’è un lieto fine per tutti, come ci si poteva aspettare; ma – come spiegava bene Orson Welles - il lieto fine dipende soltanto dal momento in cui si fa finire la storia; e i “sorrisi della notte d’estate” di cui parla il titolo sono tre, come spiega il cocchiere Fritz (Ake Fridell) alla bella Marta (Harriet Andersson), tre momenti diversi che scandiscono una notte d’amore. L’ultimo sorriso arriva all’alba; e questi sorrisi, gli attimi in cui la Natura mostra tutto il suo splendore, sono per la servetta e per il suo innamorato, molto semplici e diretti, e non per gli aristocratici e per i borghesi che confondono l'amore nei loro giochi di potere.
Personalmente, trovo molto bello anche l’aver colto e filmato un momento emozionante del teatro, il sipario che cala e la fine degli applausi, e l’attrice che avrebbe voluto continuare, ma ormai il momento di gioia è passato. Il teatro è uno dei temi fondamentali nel cinema di Bergman, appare con grande verità un po’ in tutti i suoi film, e non poteva essere diversamente dato che Bergman è stato per tutta la sua vita, prima ancora che di cinema, un grande regista di teatro.
« (...)La pienezza dell’ispirazione risulta così sorvegliata che il racconto fluisce limpido sino alla fine. E di nuovo si può ammirare, insieme all'esercitata scaltrezza, quella che diremmo la verginità espressiva del Bergman di allora, che racconta e mostra come se i suoi film fossero gli unici a circolare in questo monda. Una telefonata, una corsa in treno, un giro tra i baracconi di un parco dei divertimenti. Quante volte li abbiamo incontrati, al cinema? Bergman si conduce come se li considerasse nuovi, e realmente li rifà nuovi, con una specie di freschissima eccitazione che ignora i paragoni e crea le norme.

Per la sua brevità e bellezza l'estate scandinava è celebrata non come una stagione ma come un'apparizione mitica verso la quale rifluiscono i desideri, le superstizioni, le fantasie degli uomini. Si carica nel suo viaggio di molteplici significati, ed è logico che si trasformi a un certo punto, insensibilmente, in una entità fatale e distributrice, destinata a muovere senza errori i fili della vita e a passare sorridendo, dopo avere amministrato una graziosa giustizia che resterà tale almeno fino alla ventura estate. Una giustizia semiseria, fondata su un solo, canzonatorio segreto: quello di velare il nostro presente capriccio di una luce di magia, quindi di possibile eternità. È solo un travisamento del tempo e della luce, uno scherzo complice. Quanto basta agli alibi degli amanti. Unicamente un ulteriore invito a un impulso già facile: di credere sempre a quello che ci fa bene. È l'ultima delle lezioni «estive» di Bergman, probabilmente la piú bella: “Sorrisi di una notte d'estate”. Che cosa avverrà quando la lattea notte del nord avrà fine? Quanta vera felicità sarà serbata alle quattro coppie del film? Nulla vieta che esse rientrino nel meccanismo dell'orologio a figure ruotanti, e che si accodino ai rudimentali simboli: la principessa, la morte, il villano gobbo. La “ronde” può riaprirsi indefinitamente, sotto uno qualsiasi dei segni. Le scomposizioni non sembrano concluse. Ecco perché il film è una specie di tragico marivaudage in cui il gusto delle possibilità contrarie, del rifiuto alla convenzione nel momento in cui il sorriso è piú indifeso, dell'ironia che corregge e sopraffà perfino il cinismo, trova una virtuosistica illustrazione. Di modo che il soggetto è visibile a tratti nella bislacca prospettiva di una tragedia mancata.
«È una commedia o un dramma? - chiede Anny (Ulla Jacobsson ) al marito che l'ha invitata a teatro- Metterò un vestito bianco. Il bianco va bene per piangere e per ridere ».
Questa la risposta indiretta di Bergman al proprio film. Dramma o commedia, non si sa: ma in ogni caso un intreccio che « porta » il bianco, come una veste adatta a tutte le insidie. E il bianco è la misteriosa notte svedese, questo finto e breve passaggio della sorte. (...) »
(Tino Ranieri, dal volume su Ingmar Bergman del “Castoro Cinema” ed. La Nuova Italia)


lunedì 26 luglio 2010

Monica e il desiderio

SOMMAREN MED MONNIKA (MONICA E IL DESIDERIO, 1952). Regia: Ingmar Bergman. Soggetto: dal romanzo di Per Anders Fogelström. Sceneggiatura: Per Anders Fogelström e Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer. Musica: Erik Nordgren. Scenografia: P. A. Lundgren e Nils Svenwall. Interpreti: Lars Ekborg (Harry), Harriet Andersson (Monnika), Dagmar Ebbesen (la zia di Harry), Ake Fridell (il padre di Monnika), Renée Björling (la padrona della villa), John Harryson (Lelle), Georg Funqvist (il magazziniere), Ake Grönberg (l'operaio della tornitura), Bengt Eklund, Sigge Fürst, Naemi Briese. Produzione: Helge Hagerman per la Svenskfilmindustri.

“L’estate con Monika”, il vero titolo del film, rende benissimo il senso di quello che vi succede: due ragazzi sotto i vent’anni, la loro prima esperienza d’amore vero, un’estate meravigliosa. Durerà poco: l’estate in Svezia non è molto lunga, e quando si è felici i giorni sembrano correre più veloci, ed è tutto così bello non si fa nemmeno in tempo a rendersi conto di cosa succede. Il titolo che fu dato al film dal distributore italiano non è brutto, ma è evidente che si è cercato di mettere qualcosa di morboso (di pornografico?) in un film che di morboso ha ben poco, essendo piuttosto concentrato sulla vita quotidiana, sul lavoro, sull’amore. Un film molto bello, uno dei più belli di Bergman, che ci racconta in maniera esemplare una storia comune, la stessa storia che viene raccontata e replicata ad ogni momento: non dal cinema o dai libri, ma dalla vita stessa.

Dunque si tratta di neorealismo? Dipende da che parte lo si vede, quale è il punto di osservazione. Ragionando sul neorealismo, e anche per smontare i luoghi comuni e le frasi ripetute “a pappagallo” (un ottimo esercizio), mi è capitato di notare che la maggior parte della critica è di origine borghese o medio impiegatizia, non ha vissuto sulla sua pelle queste situazioni, “Ladri di biciclette” gli sembra un film esotico, come se si parlasse degli usi e costumi degli eskimesi, idem “Umberto D” o “La terra trema”: ma questo capitava vent’anni fa. Oggi va ancora peggio, sembra che parlare del mondo vero, degli operai ma anche degli handicappati, sia stata solo una moda; e certo è più figo occuparsi delle top models e delle vacanze a Sharm el Sheikh. In “Monika” di Bergman la parte dedicata al mondo del lavoro l’ho trovata del tutto uguale al mondo dove ho vissuto io; quello che ho trovato di diverso è tutta la parte girata in mare (qui in Lombardia il mare non c’è).

Queste persone io le ho conosciute veramente, ancora negli anni ’80 era facile trovarne di molto simili, anche da noi. Per esempio, mi ha toccato molto il ragazzo che fa tardi sul lavoro perché suo padre è all’ospedale e (proprio nello stesso giorno) si è ritrovato a passare la notte con la ragazza che ama: per questo ritardo (la prima notte d’amore con la ragazza della sua vita!) verrà licenziato e il suo collega si arrabbia con lui perché adesso gli toccherà fare anche il suo lavoro. Ma in fabbrica bastava (e basta) molto meno per diventare antipatici: per esempio entrare per la prima volta in reparto, e guardarsi in giro. Tutti quei tubi, quel vapore, le macchine, le vasche...chi li ha mai visti, a sedici o diciassette anni? “Quello lì non capisce niente e non ha voglia di lavorare”, ti dicono subito; e sei bollato così, e ci vuole tempo per rimediare. In altri posti, se si è fortunati, ci sono invece colleghi migliori, magari quelli che quando ti vedono spaesato sorridono e ti dicono “siediti lì e aspetta che poi ti chiamo io quando mi serve aiuto”: è quello che succede al protagonista di “Monica e il desiderio” nella parte finale del film, quando ha trovato un nuovo lavoro come tornitore. (detto en passant, è così che si combattono gli infortuni: altro che casco e guanti).
«Vai a casa, adesso qui gireresti a vuoto e rischieresti di tagliarti un dito.Torna domani, e cerca di essere sobrio» gli dice sorridendo il collega più anziano, quando viene a sapere che al giovane operaio è appena nata una bambina. Questo attore ha una faccia particolarmente simpatica: si chiama Ake Grönberg e Bergman gli affiderà la parte del protagonista nel suo film successivo. Con un bel paio di baffoni, e forse ancora più in carne, Grönberg diventerà il padrone del circo di “Sera di un saltimbanco” (Una vampata d’amore) con Harriet Andersson al suo fianco.

La critica a proposito di questo film parla quasi sempre di un Bergman non ancora pienamente maturo, ancora alla ricerca di una sua tematica: io direi piuttosto di un Bergman già pienamente conscio dei suoi mezzi e delle sue possibilità, ma ancora molto giovane. Non è più un ragazzo, ha 32 anni e due divorzi alle spalle, è un autore compiuto e come tale va trattato. Caso mai, si può parlare di cambio di stile per i film successivi, che sono opera di un uomo di 40 anni, con una visione di vita completamente diversa. Al tempo di “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole” e “Luci d’inverno”, Ingmar Bergman ha già varcato la “linea d’ombra” di cui parla Joseph Conrad; ma nel 1952 era ancora molto giovane, e io direi che è un dato di cui tener conto.
Guardando “Monika” a distanza di tanti anni, viene alla mente “Aurora” di Murnau, si vedono già i luoghi e le atmosfere di “L’ora del lupo” (la scena in cui Harriet va a rubare da mangiare e viene presa e portata nella villa); si vedono treni e ponti come in Ozu e in Wenders, ed è molto presente il tema dell’alcolismo, molto frequente nei paesi nordici (come per la scrittrice Selma Lagerlöf, uno dei punti di riferimento di Bergman).

Tornando per un attimo al neorealismo italiano, mi sono anche venuti in mente (per contrasto) tutti quei film e telefilm americani dove si vedono persone che fanno colazione alle nove, quieti e sereni, pulitini, felici, la famiglia intera padre madre e bambini e cane. La realtà della maggioranza delle persone è stata invece quella che ci mostra qui Bergman: il lavoro a turni, la sveglia alle cinque sperando di sentirla, la bambina piccola che piange... Quando si sposano, lui ha 19 anni e lei quasi 18; è la zia a dirlo al prete, ed il ruolo della zia, molto bello, fa pensare a molte care persone che non ci sono più, sempre disposte a dare una mano a chi ne aveva bisogno, e senza pretendere nulla in cambio.
Harriet Andersson, qui molto giovane, non sembra un’attrice svedese e ricorda spesso per temperamento Anna Magnani (la scena dello specchio, nel finale), e si concede anche un nudo integrale che ai suoi tempi avrà fatto sicuramente scandalo. Viene da sorridere, oggi, pensando alla censura italiana del tempo, al mito delle svedesi, ai film di Alberto Sordi...tutte cose che hanno fatto epoca e riempito i pensieri degli italiani per decenni. La fortuna italiana di un autore difficile come Bergman nasce anche (soprattutto?) da queste cose, girare una sequenza con una donna nuda era una cosa proibita, peccaminosa. Ancora negli anni ’70 si favoleggiava dei “film dell’Est con le donne nude che non si capiva mai perché ma c’erano sempre” come dice ogni tanto ancora qualche critico frescone. Ma qui Bergman, nel finale, spiega benissimo perché si vede Monika nuda: è il ricordo principale di un amore, di una prima volta. La stessa cosa fa per esempio Kieslowski, per citare un “autore dell’est con le donne nude”, come direbbe qualche disk jockey promosso presentatore tv o qualche critico molto superficiale, troppo abituato ai film di Pierino e dei Vanzina.
E’ una cosa che può sembrare strana, ma tutti i film di Bergman, anche i più duri e i più difficili, furono distribuiti regolarmente. Io tendo a pensare che sia per questo motivo, per le donne nude: lo stesso equivoco accadde per Fellini, furono le “donne nude” dentro “La dolce vita” che lo resero popolare; per lo stesso motivo, perché entrambi attiravano spettatori che pensavano a ben altro, credo che sia nato l’equivoco su “Fellini e Bergman che non ci si capisce niente”. Tutto questo ormai è storia e fa parte del passato, ma ne faccio cenno qui perché vedo che sono luoghi comuni duri a morire. Eppure, in tv e sui giornali c’è gente che ha studiato, che ha fatto il Dams e le scuole di sceneggiatura...ma la nostra pigrizia mentale è un ostacolo duro da superare, e ai luoghi comuni, si sa, ci si affeziona; e provare a smontarli è quasi sempre una fatica inutile.

(...)La mia idea era di fare un film a basso costo, in condizioni improntate a una rigorosa semplicità, lontano dagli studi, e riducendo al massimo il personale. “Monica e il desiderio” ebbe il segnale di via libera come mio secondo film ai tempi del mio contratto “da schiavo”. Il provino con Harriet Andersson e Lars Ekborg fu realizzato in uno degli ambienti preparati per “Donne in attesa”. Di nuovo, passavo da un film all'altro.
Non ho mai fatto un film meno complicato di “Monica e il desiderio”. Tiravamo semplicemente avanti e si girava. Ci rallegravamo della nostra libertà. Il successo di pubblico fu considerevole.
Era istruttivo portare avanti un talento originale come Harriet Andersson e osservare come si comportava davanti alla macchina da presa. Lei aveva fatto teatro e rivista, e aveva avuto piccole parti in film come Anderssonskans Kalle e Biffen och Bananen. Sgomitando, ottenne la parte della ragazza nel film di Gustaf Molander “Trots” (Sfida). Quando dovetti fare “Monica e il desiderio”, presso la direzione della produzione l'incertezza era grande. Domandai a Gustaf Molander di Harriet. Lui mi guardò e, strizzando l'occhio, disse: «Se tu credi di poter ricavare qualcosa da lei, è divertente». Soltanto più tardi capii il sottinteso gentile e scabroso che si celava nella raccomandazione del mio collega più anziano.
Harriet Andersson è uno dei geni della cinematografia. Se ne incontrano soltanto alcuni rari esemplari durante il cammino tortuoso attraverso la giungla di questo mestiere. Ecco un esempio. L'estate è finita. Harry non è in casa e Monica esce con Lelle. Al caffè lui fa suonare il juke box. Nel fracasso dello swing la cinepresa si volta verso Harriet. Lei sposta lo sguardo dal suo partner direttamente sull'obiettivo. Così veniva stabilito, all'improvviso e per la prima volta nella storia del cinema, un impudico contatto diretto con lo spettatore.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti, pag.255-256)