sabato 30 luglio 2011

La marcia su Roma

LA MARCIA SU ROMA (1963) Regia di Dino Risi. Scritto da Sandro Continenza, Ghigo De Chiara, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola. Fotografia di Musica originale di Marcello Giombini. Interpreti: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Roger Hanin, Giampiero Albertini, Angela Luce, Mario Brega, Gérard Landry. Durata: 90 minuti

Gli slogan fascisti non sono poi così male. “Dio Patria e Famiglia”, per esempio, è più che condivisibile: Gesù nel Vangelo, la lingua e la cultura italiana, mio padre e mia madre. E anche l’altro slogan famoso: “Credere obbedire combattere”. Credere in quel che si fa, obbedire a un capo giusto e capace, combattere per i propri ideali: cosa c’è di male in tutto questo? E’ l’equivoco in cui cadono le persone oneste che – ancora oggi! – pensano bene di Mussolini. Se bastassero le belle parole, saremmo pieni di Grandi Statisti; invece la storia d’Italia non manca di cialtroni che mandano gli alpini a morire in Russia con gli stivali dalla suola di cartone...

La marcia su Roma, nel film di Risi, è quella vera, proprio quella lì: la fanno, insieme agli altri, anche Vittorio Gassmann e Ugo Tognazzi. Siamo a Milano nel 1919, è appena finita la Grande Guerra e Gassmann è un giovanotto romano un po’ pieno di sè, della razza di quelli che una volta in Lombardia (quando ancora si parlava il dialetto) venivano definiti “fanigottoni”, e che esistono ancora però oggi fanno fortuna in tv e nelle immobiliari; il povero Tognazzi è invece un contadino cremonese vessato dal cognato.
E’ il cittadino che porta il verbo al campagnolo: lo fa sotto forma di un volantino che porta il programma ambizioso del fascismo, cioè rivoltare l’Italia come un calzino. Tognazzi lo legge, commenta “Ostrega!” , lo piega e se lo mette in tasca. Da ora in poi, se questo qui è il fascismo, ne sarà il seguace convinto; abbandona il cognato e le sue vacche (o forse è il contrario?) e parte anche lui per Roma.
Il volantino è autentico, ed è datato 23 marzo 1919, Milano sala di San Sepolcro: l’atto di nascita del fascismo. Ecco che cosa dice: - Proclamazione della Repubblica Italiana; Sovranità del Popolo con suffragio universale; Disarmo generale; Abolizione della coscrizione obbligatoria; Abolizione di tutti i titoli nobiliari e cavallereschi; Giornata lavorativa di otto ore; Terra ai contadini, in coltivazione associata, e non più agli agrari; Confisca delle rendite improduttive...
Il programma del fascismo continua, ma io mi fermo a quello che viene sottolineato nel film, e che basta e avanza a convincere Gavazza Umberto a seguire quell’altro matto di Rocchetti Domenico nella sua avventura.
Tognazzi lo tirerà fuori di tasca spesso, quel volantino: è il vero e proprio tormentone del film. Ogni volta che lo tira fuori, di fronte ai fatti e non alle parole, prende la matita e ne cancella una riga. Lo butterà via dopo l’ultima avventura, quando i due, ormai in camicia nera, attardati, sequestreranno l’automobile ad un ricco signore per giungere in tempo al quartier generale, prendendolo anche a calci in culo perché “i titoli nobiliari sono stati a-bo-lit-ti!!”. Li aspetta una sorpresa: il quartier generale è proprio nella casa del ricco e nobile e signore, che quando li vede arrivare sulla sua auto si mette a strillare: “Sono quelli lì!!! Sono stati loro!!”. (I due sciagurati avevano preso a calci in culo uno dei principali finanziatori dell’Impresa...).
E, poco prima di arrivare a Roma, i nostri due eroi vedranno finalmente con i loro occhi la violenza, gli omicidi e la sopraffazione, e si tireranno indietro. Per quanto balordi, i due protagonisti del film avevano visto la verità con i loro occhi, quello che c’era dietro agli slogan e ai discorsi, quello che si nascondeva dietro a quel volantino così allettante... Purtroppo, capita anche oggi che – finché non si tocca con mano – anche delle brave persone si facciano irretire dai discorsi degli arruffoni e dei cialtroni.
Ma questa è storia recente, ancora tutta da scrivere (“ che tu possa vivere in tempi interessanti” è una maledizione che si mandano dietro i cinesi, o forse gli ebrei: perché quando si vive in pace siamo anche tanto noiosi). E quindi chiudo il discorso su questo film (che è molto divertente, ma forse non c’è bisogno di dirlo: quasi come “Il dottor Stranamore” di Kubrick) con l’ultimo slogan: “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi”. “Fatto!”, ha commentato qualche spiritoso: a volte (non sempre) la Storia ha delle strane ironie...
PS: In rete non esistono immagini di questo film, che è quasi scomparso dalla circolazione: è un film molto divertente e pieno di battute favolose, da collezione; ma se ne parla pochissimo. E’ ben strano, considerando il fatto che di Tognazzi e Gassman in rete c’è molto, moltissimo, quasi tutto. Abbiamo trovato qualcosa solo digitando “La marche sur Rome”, il titolo francese del film; ma la qualità delle immagini non è buona, e – a questo punto – abbiamo deciso di cambiare strada. Le immagini che vedete non hanno quindi nulla a che fare con il film di Dino Risi, c’entrano molto invece con la marcia su Roma, quella vera. Le immagini rappresentano: Giacomo Matteotti; la Ritirata di Russia; la sconfitta di El Alamein; la sconfitta in Grecia e in Albania; l’esodo dei Fiumani; la perdita dell’Istria e della Dalmazia; le leggi razziali. Forse ho dimenticato qualcosa, dei molti “successi” di Mussolini, ma la lista sarebbe lunghissima e in fin dei conti questo è solo un piccolo blog con pochi lettori. (L'ultima immagine qui sotto, la vittoria della Repubblica al referendum del 1946, serve a ricordare che il lieto fine c'è stato, e se tutti fossero stati attenti come Gavazza Umberto e Rocchetti Domenico forse sarebbe arrivato prima...)
PPS: queste parole le scrivevo nel 2007, alla prima pubblicazione di questo post. Nel frattempo, qualche immagine l'ho rimediata.

mercoledì 20 luglio 2011

Un mondo di marionette ( I )

UN MONDO DI MARIONETTE (1979/80) Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman Titolo originale svedese: Ur marionetternas liv (t.l. Dalla vita delle marionette). Titolo originale tedesco: Aus dem leben der Marionetten. Produzione: Personafilm (München) - Distribuzione: Sandrews Produttori: Horst Wendlandt, Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist (bianco e nero/colori), Musiche: Rolf Wilhelm - Scenografia: Rolf Zehetbauer - Montaggio: Petra von Oelffen - Prima: 24/1/1981 Grand - Con: Robert Aztorn (Peter Egerman), Christine Buchegger (Katarina Egerman, sua moglie), Martin Benrath (Mogens Jensen, lo psicoanalista), Rita Russek (Katarina Krafft, la prostituta), Lola Muethel (Cordelia Egerman, madre di Peter), Walter Schmidinger (Tim, lo stilista omosessuale), Heinz Bennent (Arthur Brenner), Ruth Olafs (l'infermiera), Karl Heinz Pelser (l'ufficiale che dirige l'interrogatorio), Gaby Dohm (la segretaria), Toni Berger (l'usciere). Durata: 104 minuti

« Gli uomini deboli seguono vie stravaganti.»
(da “Un mondo di marionette” di Ingmar Bergman, minuto 56 )
Nel 1990, dopo aver visto per la prima volta “Un mondo di marionette”, ne scrivevo così: «...un film notevole, che si apparenta a “Il rito”. Purtroppo anche qui ci sono le gravi cadute di tono (verbosità) dell’ultimo Bergman: ma la rigorosità della narrazione non scade mai, contrariamente ad altri film (vedi Sonata d’autunno, L’uovo del serpente...) (ottobre 1990) »
Un giudizio che mi sento di confermare, aggiungendo che si tratta di un film molto sgradevole e molto lontano dai miei interessi personali, e che quindi (adesso come vent’anni fa) ho fatto una gran fatica ad arrivare fino in fondo. Ed è difficile capire che si tratta di un film di Ingmar Bergman, soprattutto all’inizio sembra tutt’altra cosa, magari un telefilm tipo quelli tedeschi (Derrick, Wolf, Un caso per due...) che sono sempre ben fatti e ben girati, o magari – andando più avanti – il film di un imitatore di Bergman. Insomma, non avevo voglia di rivederlo e l’ho ripescato solo per completezza, perché sto guardando tutti i film di Bergman e anche “Dalla vita delle marionette” (il titolo originale si traduce così) merita il suo posto. Oltretutto, Bergman dice che è molto affezionato a questo film e che lo riconosce come suo, anche se non perfettamente riuscito, molto più di altri suoi film magari più belli (la citazione completa è in fondo al post). Non è comunque il solito film di Bergman di quel periodo “in esilio”, gli anni in cui Bergman andò a lavorare fuori dalla Svezia a causa soprattutto dei suoi problemi con gli accertamenti del fisco, poi risoltisi felicemente. Insomma, “Un mondo di marionette” non è “L’adultera” né “L’uovo del serpente”, e nel complesso è migliore di quanto io non ricordassi.
- (...) Noi accettiamo le regole del gioco senza saper giocare come dovremmo, e subiamo l’imbroglio. Sai cosa mi spaventa più di ogni altra cosa? Quando non posso andare a lavorare, quando non posso leggere il giornale, quando non posso mangiare a orari regolari... Soffrire d’insonnia, soffrir di stitichezza, avere la macchina in avaria, essere ammalato, avere mal di denti... So che ogni disordine mette in pericolo il mio sistema di sicurezza che ho con tanta cura escogitato.
- Se è come dici, dovresti fare a meno di bere.
- Devo prendere il coraggio di mettere fuori uso il mio sistema.
- Cosa ci guadagni a questo modo?
- Mi faccio saltare in aria a brandelli (...)
(dialogo tra Peter e la moglie Katherine, a metà film)
“Un mondo di marionette” è la storia di un uomo normale e benestante che ha però delle fantasie omicide, anche nei riguardi di persone a lui care, e che finirà per commettere veramente un omicidio. L’omicidio lo vediamo anzi fin da subito, in flashback, nelle sequenze iniziali: e a colori, mentre il resto del film è quasi tutto in bianco e nero. Al centro del film c’è subito uno psicoanalista, che raccoglie la testimonianza di questo caso clinico molto particolare e che è oltretutto molto amico sia dell’omicida che della moglie di lui.
Non è casuale che al centro del film ci sia questo personaggio di psicoanalista, perché Bergman sembra fare in questo film una sua completa autoanalisi: nei suoi libri autobiografici, usciti da noi una decina d’anni dopo questo film, il regista svedese è infatti molto esplicito su queste fantasie e sui suoi ricordi infantili e adolescenziali.
Di questo aspetto della personalità di Bergman si è occupata una famosa psicoanalista infantile in un libro molto leggibile ma per specialisti, “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sè” di Alice Miller, editore Bollati Boringhieri. E’ un libro che non avrei mai letto se una gentilissima signora, che si occupa a livello professionale di questi temi, non me lo avesse messo tra le mani qualche anno fa. Sono temi delicati, come tutti quelli connessi alla psicanalisi (soprattutto a quella infantile), e mi disturba molto quando, soprattutto in tv, se ne parla con grande leggerezza; e quindi ho un po’ di titubanza nel portare qui questa pagina; lo faccio solo perché mi sembra che siamo tra persone mature e responsabili, e che quindi eventuali commenti saranno ben ponderati. C’è comunque una pagina dedicata a Bergman, e la trascrivo perché è interessante; aggiungo solo che Bergman stesso, in interviste recenti, ha raccontato del rapporto con suo padre ormai anziano, e di come tutto si sia appianato nel corso della loro vita. Il più delle volte ragioniamo sulle cose del mondo guardando alla nostra vita di persone normali, ed è difficile rendersi conto di quanto difficile possa essere stata la vita degli altri, anche delle persone famose e stimate (il padre di Ingmar era, per l’appunto, un rispettabilissimo pastore protestante; e di certo era sicuro di agire nell’interesse dei figli, per il loro bene). 
«(...) Molto diverso appare l'atteggiamento di Ingmar Bergman, che in una trasmissione televisiva ha parlato in modo molto consapevole della sua infanzia, con maggiore comprensione (sia pure solo intellettuale) di certi nessi. L'infanzia di Bergman era stata, secondo le sue parole, una storia di umiliazioni: l'umiliazione era stata il mezzo pedagogico fondamentale. Quando si bagnava i calzoncini, per esempio, doveva portare per tutto il giorno un vestito rosso, in modo che tutti lo potessero vedere ed egli si vergognasse di fronte a tutti. Bergman era il figlio minore di un pastore protestante. In quella intervista rievocava una scena che doveva essersi ripetuta spesso nella sua infanzia: il fratello maggiore viene frustato sulla schiena dal padre, mentre la madre tampona col cotone il sangue delle ferite e lui sta a guardare, seduto in disparte. Bergman descrive questa scena senza scomporsi, con un tono assai freddo. È facile immaginarselo bambino mentre se ne sta seduto tranquillo a guardare; non sarà certo fuggito, non avrà chiuso gli occhi, né urlato. Si ha l'impressione che questa scena, certo realmente accaduta, sia però un ricordo di copertura per ciò che è capitato proprio a lui. E’ infatti estremamente improbabile che il padre picchiasse solo suo fratello.
Molti pazienti sono da tempo convinti che solo i loro fratelli abbiano subìto delle umiliazioni. Ci vuole lo smascheramento operato dalla terapia, perché riescano a ricordare e a vivere con sentimenti di collera e di impotenza, nonché di rabbia e di sdegno, quanto si fossero sentiti essi stessi umiliati e abbandonati, quando erano stati riempiti di botte dal loro amato padre. Nell'accostarsi alla sua sofferenza, comunque, Bergman è riuscito a trovare un'alternativa allo spostamento e alla negazione: girando dei film, ha delegato i suoi spettatori a vivere quei sentimenti che aveva respinto. Potremmo immaginare che noi spettatori riceviamo il compito di percepire i sentimenti che il figlio di quel padre non aveva potuto vivere apertamente, ma che ha sempre custodito nell'animo. Seduti davanti allo schermo, come un tempo il ragazzino dinanzi alla scena descritta in precedenza, siamo messi a confronto con la crudeltà che “nostro fratello” patisce e non ci sentiamo capaci o disposti a recepire tanta brutalità con sentimenti sinceri. La respingiamo. Quando poi Bergman si rammarica di non aver capito prima del 1945 che cos'era il nazismo, malgrado i suoi frequenti viaggi in Germania nel periodo hitleriano, questa mi pare una conseguenza di quell'infanzia. La crudeltà aveva per lui un'aria familiare, l'aria che aveva respirato sin da piccolo. Come avrebbe potuto balzargli agli occhi? (...)»
( Alice Miller “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sè”, editore Bollati Boringhieri., pag.86)
L’infanzia di Bergman è descritta da Bergman stesso nei suoi libri, come “Lanterna magica”, ed. Garzanti, dove l’episodio descritto è da pagina 12 in avanti. Si tratta del resto di una materia che gli appassionati di Bergman ben conoscono: il personaggio del vescovo Vergerus in “Fanny e Alexander” ne è una descrizione perfetta. E’ la prima volta, con “Un mondo di marionette” che Bergman parla di queste cose in modo così esplicito: nei film precedenti si coglievano solo accenni velati, o nascosti dietro un’invenzione artistica. “L’ora del lupo” e “Il rito” erano comunque già molto espliciti in proposito. Ed è difficile non pensare che, in “Un mondo di marionette”, quando l’omosessuale Tim si guarda allo specchio e ragiona sul passare del tempo sia probabilmente Bergman stesso che ragiona su di sè, usando questo mascheramento; ed è a mia memoria l’unico omosessuale di tutti i film di Bergman, certamente l’unico che ha tutto questo spazio, un lungo monologo proprio al centro del film seguito dall’altrettanto lunga scena con il poliziotto che lo interroga. Il personaggio, interpretato dall’attore Walter Schmidinger, è quello di uno stilista che lavora con la moglie del protagonista del film, che si occupa di alta moda.
Anche la descrizione che la madre (“una famosa attrice”) fa del protagonista la si può trovare identica in “Lanterna magica”, quando Bergman descrive se stesso da bambino: e non è dunque azzardato pensare che in queste sequenze sia stata messa in scena la madre stessa di Bergman.
Altri miei appunti sparsi: 1) molto brutte e poco originali le musiche, roba da locale di strip, firmate del tedesco Rolf Wilhelm. 2) l’attore che interpreta lo psicoanalista somiglia moltissimo all’onorevole berlusconiano Paniz, in questi mesi onnipresente sugli schermi tv, e diventa quindi molto difficile oggi prenderlo sul serio, sia come medico che come amante della moglie del protagonista. 3) Katharina è il nome della moglie ma anche della prostituta che verrà uccisa 4) attrice magnifica Christine Buchegger, con un volto intenso e interessante; a lei Nykvyst dedica giustamente molti primissimi piani 5) nella seconda metà del film, un lungo sogno in forma di lettera non spedita, una lunga sequenza onirica dove Peter esplica la fantasia di tagliare la gola alla moglie: non una brutta sequenza, ma è proprio qui che è più forte l’impressione di trovarsi di fronte a un imitatore di Bergman, e non a Bergman stesso. 6) in ogni caso, un film troppo parlato; e la mia completa estraneità a questi temi e a questi ambienti me lo ha reso molto pesante. 7) nel finale, Peter ha con sè un vecchio e logoro orso di pezza, come accadrà per il bambino di “Fanny e Alexander” 8) i dialoghi con l’investigatore sono molto simili a quelli del “Rito”, ma qui l’investigatore è gentilissimo anche davanti allo stilista omosessuale, che è molto maleducato e inutilmente ironico 9) si parla apertamente di sodomia e di omosessualità, e anche molti altri particolari dei dialoghi sono inutilmente espliciti sul piano sessuale: un difetto che fin qui Bergman era riuscito ad evitare, che tornerà anche in “L’infedele”.
10) Sulla copertina di “Immagini” c’è proprio una foto presa sul set di “Un mondo di marionette”, dato che non si tratta di una foto immediatamente leggibile penso che il fatto non sia casuale, e che Bergman stesso abbia dato indicazioni in proposito: si tratta di un’immagine in cui Bergman viene riflesso in uno specchio.
11) In definitiva, un film sgradevolissimo, come molte pagine dei suoi libri autobiografici; ma comunque interessante, ben fatto e ben recitato.

Un mondo di marionette ( II )

UN MONDO DI MARIONETTE (1979/80) Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman Titolo originale svedese: Ur marionetternas liv (t.l. Dalla vita delle marionette). Titolo originale tedesco: Aus dem leben der Marionetten. Produzione: Personafilm (München) - Distribuzione: Sandrews Produttori: Horst Wendlandt, Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist (bianco e nero/colori), Musiche: Rolf Wilhelm - Scenografia: Rolf Zehetbauer - Montaggio: Petra von Oelffen - Prima: 24/1/1981 Grand - Con: Robert Aztorn (Peter Egerman), Christine Buchegger (Katarina Egerman, sua moglie), Martin Benrath (Mogens Jensen, lo psicoanalista), Rita Russek (Katarina Krafft, la prostituta), Lola Muethel (Cordelia Egerman, madre di Peter), Walter Schmidinger (Tim, lo stilista omosessuale), Heinz Bennent (Arthur Brenner), Ruth Olafs (l'infermiera), Karl Heinz Pelser (l'ufficiale che dirige l'interrogatorio), Gaby Dohm (la segretaria), Toni Berger (l'usciere). Durata: 104 minuti

Ingmar Bergman, da “Immagini”:
In Lanterna magica racconto di un film che ho cominciato a scrivere nell'estate 1985 a Farö. Doveva trattare di «un vecchio cineasta del cinema muto, i cui film semicancellati vengono trovati in un numero incalcolabile di cassette di latta giacenti sotto una casa di villeggiatura, che deve essere restaurata. Tra le immagini c'è un nesso non chiaramente intuibile; un esperto del cinema muto cerca di leggere le battute sulle labbra degli attori e di interpretarle. Vengono sperimentate diverse successioni nell'ordine e si hanno risultati diversi. Il progetto impegna sempre più persone, cresce e prospera, costa sempre di più. Diventa sempre più difficile da gestire. Alla fine, un giorno, tutto prende fuoco, con gli originali al nitrato e le copie all'acetato, e un'intera casamatta va in fumo. Il sollievo è generale ».
Avevo accantonato quasi immediatamente questo inizio di sceneggiatura dopo che il corpo mi aveva ricordato la promessa fatta di astinenza, che l'anima aveva dimenticato. Ma l'idea di un film che uno cerca di comporre sulla base di frammenti, senza avere accesso a una sceneggiatura, mi stimolava. Essa mi aveva inoltre già funestato una volta in precedenza.
Quando mi trovavo al mio secondo anno di Monaco, cominciai a metter giù una storia che chiamai “Amore senza amanti”. Era enorme e formalmente spezzettata, e rispecchiava un'angustia che sicuramente aveva a che fare con l'esilio. Si svolgeva a Monaco e dintorni e trattava, proprio come il mio sogno di cinema muto, di un grande materiale filmato che viene abbandonato dal suo regista.
La sceneggiatura di Amore senza amanti fu terminata nel marzo 1978 (...) Nessuno in Svezia voleva puntare un soldo su Amore senza amanti, nonostante fossi disposto a metterci dei soldi io stesso. Parlai con Horst Wendlandt, che era stato il coproduttore tedesco dell'Uovo del serpente, ma quell'esperienza lo aveva bruciato. Anche Dino De Laurentiis disse di no, così fu ben presto chiaro che questo grande e prezioso progetto non si sarebbe mai realizzato. Non si era più d'accordo sul fatto di farlo. Io ero d'accordo prima e sapevo che quanto più ci si dedica a un'avventura costosa, tanto maggiori sono le possibilità di essere rifiutati. Seppellii il progetto senza amarezza e non ci pensai più. Più tardi cominciai a riflettere che sarebbe stato bello, per il senso d'ensemble che c'era al Residenztheater, se noi avessimo fatto per la TV un testo teatrale insieme. Fu allora che dal sepolto “Amore senza amanti” ricavai la storia di Peter e Katarina.
Della corposa sceneggiatura rimangono soltanto alcune scene, ma in complesso “Dalla vita delle marionette” [uscito in Italia con il titolo Il mondo delle marionette], è una sua riscrittura. Essa si basa su reminiscenze concrete. Il tema di due persone, che sono unite in modo indissolubile e doloroso e nello stesso tempo si consumano nel loro carcere, mi ha seguito a lungo.
Peter e Katarina fecero la loro prima entrata in “Scene da un matrimonio”. Là fecero da contrappunto a Johan e Marianne nella prima sequenza. Peter e Katarina non possono vivere insieme, ma non possono fare a meno l'uno dell'altra. Vi sono tra loro continue, crudeli ripicche che soltanto persone nella loro situazione possono inventare. La loro convivenza è una sofisticata danza di morte, una progressiva disumanizzazione. I loro bisticci durante il pranzo sono il primo attacco contro il mondo coniugale di Johan e Marianne, fatto di apparenze; per loro è il purgatorio del quotidiano. (...) “Dalla vita delle marionette” è anch'esso un film per la TV. Il principale finanziamento venne da Zweites Deutsches Fernsehen. Ma al di fuori della Germania, disgraziatamente, fu presentato come film per il cinema. Inoltre non fu affatto un film divertente da realizzare. In “Amore senza amanti” Peter è un disperato che spara a Franz Josef Strauss. Quando scrissi “Dalla vita delle marionette”, giunsi subito all'idea che non era Strauss quello a cui avrebbe dovuto sparare.
Peter dice che tutte le strade sono chiuse. Non ha nessuna possibilità di uscirne. Alcool, droga, sesso offrono vie di uscita illusorie. La storia pone la seguente domanda: perché Peter, in apparenza senza motivo, spegne la vita di un altro uomo? Io presento diversi modelli di spiegazione, nessuno dei quali è intenzionalmente solido. Quando rivedo il film, ho la sensazione che l'omosessuale Tim si avvicini maggiormente alla verità allorché lascia intendere che Peter è bisessuale. Per lui, il riconoscimento della sua doppia sessualità sarebbe stato probabilmente una liberazione. Ciò si intravede anche nell'analisi finale del dottore, ma l'analisi è un modo cosciente di barare: una cinica codificazione di un dramma sanguinoso in lubrici termini psichiatrici. Il medico vede ciò che sta per accadere. Ma lui permette che questo si compia, perché accampa pretese private su Katarina.
“Dalla vita delle marionette” è il mio unico film tedesco. Anche “L'uovo del serpente”, a prima vista, può sembrare un film tedesco. Ma è stato concepito in Svezia e lo scrissi nel presagio della mia catastrofe personale. L'uovo del serpente è visto con la disperata curiosità di chi sta al di fuori.
Quando feci Dalla vita delle marionette avevo tutto sommato accettato la mia nuova realtà tedesca. La lingua non mi creava più difficoltà. Lavoravo già da tempo in teatro e in linea di massima potevo capire se quel che si diceva era giusto o sbagliato. Mi sembrava di conoscere l'ambiente tedesco e i tedeschi. Avevo quindi scritto Amore senza amanti con l'ambizioso intento di compiere una profonda immersione nella mia esistenza tedesca. La redazione di Dalla vita delle marionette è molto rigorosa. Dopo aver scritto la sceneggiatura, cancellai più del venti per cento del dialogo. Quando poi girammo, se ne andò un altro dieci per cento. Il film perciò ha avuto una forma molto compressa: corte sequenze con interventi didascalici alla Brecht, che illustrano lo sviluppo dell'azione fino alla catastrofe finale.
Ho fatto brutti film che tuttavia mi stanno a cuore. Ne ho fatti di buoni che però, obiettivamente, mi lasciano indifferente. Altri ancora sono comicamente sottoposti ai miei mutamenti di atteggiamento nei loro riguardi. Talvolta capita che qualcuno dica che a me piace il tal film e non il tal altro. Allora mi rallegro subito e anche a me piace quel film. In ogni caso, sono abbastanza orgoglioso del mio Dalla vita delle marionette. E un film che regge. La sola critica che posso accettare è quella che riguarda la forma, duramente annodata. Nella mia giovinezza misi in scena a Helsingborg Rabbia di Olle Hedberg. Era stato ricavato dal blocco finale di una serie di romanzi. Là il protagonista, Bo Stensson Svenningsson, nella sua apologia finale, dice, appunto, che noi soggiorniamo in una stanza buia senza porte né finestre. Ma aggiunge: da qualche parte, però, ci dev'essere una fessura invisibile che ci dà l'idea dell'aria fresca. In Dalla vita delle marionette le persone soggiornano in una stanza ermeticamente chiusa senza alcuna fessura. A posteriori, posso ritenere che questa sia una debolezza.
Un difetto di bellezza può anche essere la lettera che Peter scrive, ma non spedisce. Dal punto di vista psicologico non quadra. Peter è in grado di esprimersi solo quando detta lettere d'affari. Sia il senso che la formulazione sono inconcepibili. Ma in questo caso non ho seguito il vecchio e buon messaggio di William Faulkner: Kill your darlings. Oggi avrei preso una grossa forbice e avrei accorciato il film di altri dieci minuti, migliorandolo ancora.
L'immagine di Peter all'ospedale, ossia l'immagine di un uomo che ha reciso ogni legame con il mondo esterno, è ripresa dal periodo che ho trascorso in una clinica psichiatrica dopo la storia delle tasse. Non posso ricordare di essere stato tormentato. Al mattino mi alzavo alle cinque e mezza per poter essere in bagno prima di tutti gli altri, e tenevo in gran cura la mia condizione fisica. La giornata era perfettamente organizzata. Prendevo dieci Valium da dieci milligrammi, più uno extra quando ce n'era bisogno. Peter si trova profondamente immerso in questo tipo di esistenza. Dorme con il morbido e logoro orsacchiotto di quand'era bambino. Gioca a scacchi con un calcolatore elettronico. Se ne sta sdraiato a letto mezz'ora ogni mattina. Katarina vive ancora con lui, ma da lontano. Dice alla suocera di vivere la sua solita vita: «Ma dentro di me piango tutto il tempo».
Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”:
Alcuni anni fa scrissi un soggetto non del tutto riuscito che s'intitolava “Amore senza amanti”. Era diventato un panorama della vita nella Germania occidentale, credo fosse pervaso dalla rabbia impotente del prigioniero, la cosa certa è che non era giusto. Da questo gigante morto di morte naturale tagliai una fetta di carne che divenne un film per la televisione con il titolo “Un mondo di marionette”. Non piacque, ma è uno dei miei film migliori, opinione questa condivisa da pochi.

lunedì 18 luglio 2011

Sogni di donna

SOGNI DI DONNA (KVINNODRÖM, 1955). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Hilding Bladh. Scenografia: Gittan Gustafsson. Montaggio: Olle Jacobsson Interpreti Eva Dahlbeck (Susanne), Harriet Andersson (Doris), Ulf Palme (Henrik Lobelius), Gunnar Björnstrand (il console), Inge Landgré (Marta Lobelius), Kerstin Hedeby (Marianne, la figlia del console), Sven Lindberg (Palle), Bengt Ake Bengtsson (il signor Magnus), Naima Wifstrand (Madame Arén), Ludde Gentzel (Sundstrom, il fotografo), Git Gay (la commessa), Axel Düberg (il fotografo giovane). Durata: 84’

“Sogni di donna” viene subito dopo i primi film importanti di Bergman (Donne in attesa, Gycklarnas afton-Una vampata d’amore, Monica e il desiderio, Una lezione d’amore), e precede i film che gli diedero grande fama. Dopo “Sogni di donna” parte una sequenza impressionante: “Sorrisi di una notte d’estate” è dello stesso anno, 1955; poi vengono Il settimo sigillo (1956), Il posto delle fragole (1957), eccetera.
Insomma, ci si aspetterebbe qualcosa che si inserisca in questa sequenza, invece “Sogni di donna” è un piccolo passo indietro, un ritorno ai temi dei primissimi film di Ingmar Bergman.
Non è un brutto film, e anzi lo si vede molto volentieri; però fa un’impressione curiosa, sapendo il punto in cui è situato nella filmografia del regista svedese. Un’impressione che assume aspetti di vera curiosità quando vi si vede Gunnar Björnstrand che interpreta la parte di un vecchio signore cagionevole di salute (l’anno dopo sarebbe stato il vigoroso scudiero del “Settimo sigillo”), e che la modella elegantissima dell’alta moda, quasi una Audrey Hepburn di “Vacanze romane”, è interpretata da un’attrice somigliantissima ad Harriet Andersson – e poi si scopre che è veramente lei, la stessa Harriet Andersson che fin qui, e anche in seguito, aveva fatto tutt’altre parti. Del resto, è questo il mestiere dell’attore: bravissimi tutti e due, e anche gli altri.
Ma, andando con ordine, “Sogni di donna” si può anche definire come un film in due episodi, con prologo ed epilogo ad unirli; protagoniste principali due donne, una fotografa di alta moda interpretata da Eva Dahlbeck e una delle sue modelle, molto giovane, interpretata da Harriet Andersson.
L’inizio di “Sogni di donna” sembra un film di Antonioni, che girava film come questo proprio negli stessi anni, ma a Milano. Il fotografo in azione, con le modelle e le truccatrici, può anche suscitare un curioso confronto con “Blow up”: la differenza principale, oltre al colore e agli undici anni di differenza, è che qui il capo è una donna, interpretata da Eva Dahlbeck. Un’autentica perla le immagini iniziali: penso che nessuno assocerebbe il nome di Ingmar Bergman a una fotografia in primissimo piano di due labbra femminili, e invece eccola qui, proprio sui titoli di testa e con il nome del regista a scorrervi sopra.
E’ una sequenza lunga una decina di minuti, quasi senza parole, piuttosto divertente, dove tutti i presenti sembrano essere annoiati a morte e non vedere l’ora che il lavoro finisca per fare qualcosa di più divertente. Cosa che succederà di lì a poco: si lascia Stoccolma e si va a fare un servizio in esterni, all’aperto, a Göteborg. Dopo un breve viaggio e una notte in albergo, è l’inizio di una “folle journée” che toccherà tutte e due le donne nel profondo; ma poi si continuerà come prima, come se nulla fosse successo – ma anche questa è solo apparenza.
La prima avventura tocca alla giovane modella, interpretata da Harriet Andersson: che viene corteggiata da un ricco ed elegante signore che potrebbe essere suo padre, ne accetta i regali, e finirà con l’essere testimone di una lite in famiglia. Un finale mesto e decisamente triste, che avvicina questo film più ai film di Max Ophüls (magari “Il piacere”, con l’uomo anziano che finge di essere giovane ma non ha più la forma fisica necessaria per reggere balli e divertimenti) che alle commedie vere e proprie o ad altri film di Bergman. Gunnar Björnstrand, truccato un po’ troppo pesantemente (nei primi piani si vede), è come al solito molto bravo in un ruolo che sarebbe stato perfetto per Vittorio De Sica; Harriet Andersson è altrettanto brava, ma forse la migliore di tutti in questo episodio è Kerstin Hedeby, un’attrice che non conoscevo e che qui interpreta la figlia di Björnstrand.
Di seguito, vediamo Eva Dahlbeck che, dopo aver licenziato su due piedi la ragazza che a causa di questo corteggiamento si era presentata in clamoroso ritardo sul posto di lavoro (ma nel finale tutto tornerà a posto, come prevedibile), si ritrova perduta nel più classico dei triangoli: è l’amante di un uomo sposato, e dovrà affrontarne la moglie in una sequenza che sembra tratta di peso da un film di Dreyer. Il richiamo a Dreyer ovviamente non è casuale, dato che si tratta di uno dei punti di riferimento per Bergman. I tre attori sono Eva Dahlbeck (l’amante), Ulf Palme (il marito), e Inga Landgré (la moglie).
Il finale vedrà le due donne ancora nello studio fotografico di Stoccolma, come all’inizio: tutto si sta riaggiustando e le loro vite stanno tornando alla normalità dopo questa giornata balorda, una giornata che sembrava promettere molto ma che invece è stata da dimenticare.
I due episodi, al di là delle evidenti differenze del soggetto, sono molto simili nella loro costruzione e nel loro svolgimento. Si tratta infatti di due triangoli, molto simili anche nelle diverse ambientazioni: a renderli simili è soprattutto l’interpretazione delle due attrici “terze”, entrambe gelide e aggressive, quelle che entrano e rompono l’incanto della coppia. Due donne fredde e consapevoli e due passionali, istintive: così si potrebbe riassumere, un po’ rozzamente, quello che succede in “Sogni di donna”. Si può ancora aggiungere qualcosa riguardo l’atteggiamento dei due uomini durante il confronto risolutivo: che riguarda solamente le due donne, perché in entrambi gli episodi i due uomini tacciono imbarazzati e si ritirano sul fondo dell’inquadratura. Sono le due donne a guardarsi negli occhi, faccia a faccia: una delle due è in posizione di vantaggio, la legge e la morale sono dalla sua parte; l’altra può solo subire e accettare suo malgrado delle decisioni che non sono sue.
Su “Sogni di donna” non c’è molto, è uno dei film di Bergman più dimenticati, e Bergman stesso si dimentica volentieri di citarlo nei suoi libri; eppure ci sono molti spunti interessanti e sequenze divertenti, da commedia. Si possono anche cogliere molti riferimenti a temi importanti nell’opera di Bergman, qui appena accennati o sottotraccia: per esempio a temi mitologici, come la citazione esplicita di Medea a 1h07’ quando Eva Dahlbeck dice a Ulf Palme che sarebbe disposta anche a sterminare la sua famiglia pur di stare con lui, oppure lo sguardo gelido e neutro da divinità nel volto perfetto di Inga Landgré, nello stesso episodio. L’attrice Inga Landgré, protagonista del primo film di Bergman da regista e presenza abituale in molti suoi film degli anni ’50, appare spesso gelida e quasi soprannaturale nello sguardo, uno sguardo inquietante che sembra guardare direttamente nell’aldilà e che avrebbe trovato la sua espressione e collocazione perfetta nel finale del “Settimo sigillo”. Anche la sequenza al luna park, di per sè poco significativa, ha però al suo interno una sequenza di scheletri e di fantasmi che torneremo a vedere spesso, e che non si giustificano del tutto con il contesto in cui appaiono.
E’ molto impressionante anche il riferimento alla testa di lupo, davanti al ritratto della ragazzina che si rivela poi essere la moglie del protagonista, in manicomio da un quarto di secolo. Era ancora l’epoca dei manicomi: ma anche l’ultimo film di Bergman (Sarabanda, 2002) si chiude proprio così, con la visita ad una donna rinchiusa nella struttura medica che ha preso il posto del manicomio, una casa di cura.
Tra gli attori, molti volti familiari: Naima Wifstrand, proprietaria della casa di mode da cui Björnstrand acquista il vestito, sarà la madre di Viktor Sjöström nel “Posto delle fragole” e l’anziana maga nella troupe di prestigiatori di “Il volto”; il fotografo che si intravede all’inizio è Axel Düberg, lo spietato assassino di “La fontana della vergine”. Non sono riuscito ad identificare tre attori molto simpatici, l’uomo enormemente grasso dell’inizio, il portiere dell’albergo, e il vecchio fotografo di Göteborg.
Avendo visto “Sogni di donna” quasi per ultimo, alla fine di questi due anni passati con i film di Bergman e di Tarkovskij (e di Fellini, e di tanti altri) è difficile per me togliermi dalla testa l’impressione di essere come l’omino di Georges Perec in “La vita istruzioni per l’uso”: con in mano l’ultimo pezzo del puzzle, e l’impressione che qualcosa non torni.
Ma in verità mi mancano ancora due o tre film di Bergman da rivedere, a parte i primissimi (quelli girati fra il 1945 e il 1951), quindi può ancora darsi che il disegno, prima o poi, mi esca completo in ogni dettaglio. Vedremo...