lunedì 26 settembre 2011

Un bacio appassionato

Ae fond kiss (Un bacio appassionato, 2004). Regia di Ken Loach. Scritto da Ken Loach e Paul Laverty. Fotografia di Barry Ackroyd Musiche originali di George Fenton Interpreti: Eva Birthistle, Atta Yacoub, David Wallace (il prete), Ghizala Avan, Ahmad Riaz, Shamsad Akhtar, Shabhana Akhtar Baksh, e molti altri Durata: 104 minuti

"Ae fond kiss", un bacio appassionato, è una canzone tradizionale su testo di Robert Burns (1759-1796), grande poeta scozzese, che viene eseguita nella scuola di musica dove insegna la protagonista. Si tratta di una scuola cattolica, e che sia cattolica è un particolare importante per la storia che viene narrata; ed è una storia di grande attualità che probabilmente, nelle sue molte varianti, viene replicata anche in questo momento e anche dalle nostre parti. Di "Un bacio appassionato" mi è comunque difficile parlare, innanzitutto perché ormai sono troppo vecchio per queste cose, ma poi anche perché i due protagonisti di questa storia d'amore non sono simpatici come in altri film di Loach. Insomma, diventa un po' difficile immedesimarsi, e penso che sia una cosa voluta. E' comunque un buon film, Loach ha sempre un'ottima mano e sa scegliere bene i temi che tratta; e nella sua seconda metà il film cresce comunque di spessore.
Nel film c'è un prete cattolico che ha una parte piccola ma importante, un po' come in "Piovono pietre": a lui si rivolge la giovane insegnante che per continuare ad avere il suo posto nella scuola dove insegna ha bisogno di un certificato che attesti la sua frequenza alla parrocchia (la scuola non è una scuola privata, ma così va il mondo). Il prete le risponde che la sua frequenza in parrocchia è ormai nulla, inesistente: come si fa a darle quel certificato così, in quel modo; lui non è mica un passacarte. Ed ha ovviamente molte ragioni dalla sua parte: ecco un'altra delle nostre molte contraddizioni che Loach sa metterci davanti con ostinata bravura. Non si tratta quindi solo della storia d'amore fra due giovani divisi dalla religione (entrambi nati e cresciuti in Scozia, ma lui musulmano e figlio di immigrati, lei biondissima irlandese ma residente a Glasgow), ma di qualcosa di molto più complesso e mai banale, qualcosa che dovrebbe toccare anche noi. Che cristiani siamo, se non andiamo più in chiesa? La nostra religione è ormai solo qualcosa di formale, di superficiale, non molto diversa dal “rispetto per la tradizione” che provoca problemi e dolore nella famiglia musulmana del protagonista maschile? Ci sarebbe quindi molto di cui parlare, e invece anche questo film di Loach, pur doppiato e distribuito, è passato quasi inosservato: ad esempio sarebbe abbastanza facile per i nostri registi farne una versione italiana, ma non è successo e credo che nessuno ci abbia mai nemmeno pensato per più di tre minuti, neanche fra gli addetti ai lavori.
Non mi piacciono i due protagonisti (i personaggi, intendo) perché sono molto egoisti e superficiali; li trovo inoltre poco credibili come coppia: non perché siano una bionda e un pakistano, ma proprio perché non si vede che cosa abbiano in comune, a parte la bellezza fisica (la mia impressione nel corso del film, per essere sinceri, è che a lui non interessino molto le donne in generale). Si finisce piuttosto per provare simpatia per i genitori di lui, onesti operai ancorati a un mondo che non c'è più, come erano molti dei nostri vecchi: ed è forse questo che voleva Loach, farci provare simpatia per i nostri vecchi e per l'amore che portano verso il prossimo, e mostrare l'edonismo superficiale dei due giovani. A spingermi verso questa interpretazione è anche la scelta dell’attore che interpreta il padre del ragazzo, un immigrato del Punjab che ricorda molto il John Tomlinson di Riff raff e dei primi film di Loach. (nell’originale il film è parlato in punjabi e in inglese)
Mi ha fatto provare un certo imbarazzo anche la figura della sorella minore del protagonista, che vorrebbe "fare la giornalista": fare la giornalista (mi si passi il termine) è evidentemente "più figo" che studiare medicina come vorrebbero i suoi genitori; e sicuramente anche meno impegnativo, visto il momento che passa il giornalismo (non solo qui da noi dove imperano i Fede e i Feltri, ma anche nella Gran Bretagna del Sun e del Times in mano a gente come Murdoch). Sono pensieri che a vent’anni probabilmente non mi sarebbero mai venuti, ma allora i giornalisti erano fatti in un altro modo, come Enzo Biagi e Walter Tobagi, per esempio. Mi è difficile dunque simpatizzare con personaggi come questi, ma Loach sa rappresentare la realtà come pochi altri, e la realtà è purtroppo questa, in molte parti dell'Occidente: edonismo e superficialità. Difetti che non nascono oggi, ma che sono antichi come Blair, come Reagan, come i due Bush, e come Margaret Thatcher: la grave crisi economica odierna nasce anche (e soprattutto) da questa mentalità.
Questa è la poesia di Robert Burns che dà il titolo al film:
Ae fond kiss, and then we sever;
Ae fareweel, and then for ever!
Deep in heart-wrung tears I'll pledge thee,
Warring sighs and groans I'll wage thee. -
Who shall say that Fortune grieves him,
While the star of hope she leaves him:
Me, nae chearful twinkle lights me;
Dark despair around benights me. -
I'll ne'er blame my partial fancy,
Naething could resist my Nancy:
But to see her, was to love her;
Love but her, and love for ever. -
Had we never lov'd sae kindly,
Had we never lov'd sae blindly!
Never met - or never parted,
We had ne'er been broken-hearted. -
Fare-thee-weel, thou first and fairest!
Fare-thee-weel, thou best and dearest!
Thine be ilka joy and treasure,
Peace, Enjoyment, Love and Pleasure! -
Ae fond kiss, and then we sever;
Ae fareweel, and then for ever!
Deep in heart-wrung tears I'll pledge thee,
Warring sighs and groans I'll wage thee. -
Fu scritta nel 1791, in una lettera a Agnes M'Lehose, detta anche 'Clarinda' e 'Nancy' dalle sue amiche ed amici. Nel dicembre 1791 Agnes lasciò Burns e la Scozia per raggiungere il marito in Giamaica. Il testo viene da http://www.lieder.net/  dove sono indicati i compositori che l’hanno messa in musica: non sono nomi celebri e nel film non è indicato l’autore della musica; riporto qui le indicazioni del sito http://www.lieder.net/  così come le ho trovate: by Robert Burns (1759-1796) , note: often sung to the tune of Rory Dall's port Musical settings (...) by Agathe Ursula Backer-Grøndahl (1847-1907) , "Ae fond kiss", op. 51 no. 11 (1902), published 1902 [voice and piano], from Tolv Folkeviser og Melodier fra fremmede Lande, no. 11. by Gordon Ware Binkerd (1916-2003) , "Ae fond kiss", published c1985, from Songs of love and affection, no. ? by William Mayer (1925-) , "Ae fond kiss" [SSATB chorus, flute, violoncello, and piano]
Nel film c’è anche un’altra poesia di Burns, "A Man's A Man For A' That" del 1795, il cui titolo originale (le notizie le ho prese da wikipedia) è "Is There for Honest Poverty", ed esprime le idee di egualitarismo dell’autore, un anticipo del liberalismo anglosassone e del socialismo ottocentesco.
Is there for honest poverty That hangs his head, an' a' that
The coward slave, we pass him by We dare be poor for a' that
For a' that, an' a' that Our toil's obscure and a' that
The rank is but the guinea's stamp The man's the gowd for a' that
What though on hamely fare we dine Wear hoddin grey, an' a' that
Gie fools their silks, and knaves their wine A man's a man, for a' that
For a' that, an' a' that Their tinsel show an' a' that
The honest man, though e'er sae poor Is king o' men for a' that
Ye see yon birkie ca'd a lord Wha struts an' stares an' a' that
Tho' hundreds worship at his word He's but a coof for a' that
For a' that, an' a' that His ribband, star and a' that
The man o' independent mind He looks an' laughs at a' that
A prince can mak' a belted knight A marquise, duke, an' a' that
But an honest man's aboon his might Gude faith, he maunna fa' that
For a' that an' a' that Their dignities an' a' that
The pith o' sense an' pride o' worth Are higher rank that a' that
Then let us pray that come it may (as come it will for a' that)
That Sense and Worth, o'er a' the earth Shall bear the gree an' a' that
For a' that an' a' that It's coming yet for a' that
That man to man, the world o'er Shall brithers be for a' that
Nella colonna sonora c’è anche "Ah, Vous Dirai-Je, Maman K265" di Mozart: si tratta di variazioni per pianoforte a partire da uno dei primi esercizi musicali per imparare il pianoforte, di quelli che fanno anche i bambini, sul cui tema Mozart ha composto alcune variazioni piuttosto complesse, che però nel film non si ascoltano: c’è solo il tema iniziale, o poco più, nelle scene in cui la protagonista svolge il suo mestiere di insegnante di musica.

Terra e libertà

Terra e libertà (Land and freedom, 1995) Regia di Ken Loach. Scritto da Ken Loach e Jim Allen. Fotografia di Barry Ackroyd. Musiche originali di George Fenton. Interpreti: Ian Hart, Rosana Pastor, Icìar Bollain, Tom Gilroy, Marc Martinez, Frederic Pierrot, Andres Aladren, Sergio Calleja, Raffaele Cantatore, e molti altri.  Durata: 109 minuti

E’ un film storico, sulla guerra di Spagna negli anni ’30, poco prima della seconda guerra mondiale. La guerra civile spagnola finì con la vittoria del dittatore Francisco Franco, che poi mantenne il potere fino al 1975, anno della sua morte. A sostenere la repubblica spagnola vennero giovani militanti da ogni parte d’Europa e del mondo: di questo parla Ken Loach, mostrando la partenza di giovani inglesi e irlandesi, arruolatisi come volontari. Loach va anche più in là, parlando delle gravi responsabilità staliniane nella sconfitta delle forze repubblicane spagnole: però qui vorrei limitarmi a parlare del film, che è molto bello e che mi era piaciuto molto al cinema. Il grande schermo è la sua destinazione naturale, e qui andrebbe visto per giudicarlo: come tutti i film con scene di massa e in campo aperto, la visione televisiva non può mai essere soddisfacente. Inoltre, le lingue parlate nel film sono molte, molti gli accenti diversi: è un film che andrebbe visto in edizione originale, cosa che io finora non ho potuto fare (provvederò).
Quando il film uscì mi ero segnato tra i miei appunti alcune interviste di Loach, che riporto qui sotto.
 - Perché ha voluto parlare proprio ora di quel periodo?
- Per tre ragioni: perché quella fu la prima grande guerra contro il fascismo, perché fu la prima grande dimostrazione di solidarietà internazionale fra lavoratori, e infine per far conoscere alle nuove generazioni una pagina di storia occultata spiegando come e perché era nata una rivoluzione vera, come e perchè fu uccisa. E’ una storia che merita di essere raccontata oggi, con i disoccupati in costante aumento e il fascismo di nuovo alle porte. (...) Io però sono più ottimista di George Orwell (che combattè in Catalogna): con venti milioni di disoccupati qualcosa “deve” cambiare. Ma è facile parlare di rivoluzione qui a Cannes. (...)
- Nonostante tutto, crede ancora al marxismo?
- Sì, più che mai. Non certo alle sue degenerazioni burocratiche e dittatoriali: credo nell’uguaglianza, nella solidarietà, nella libertà. Il socialismo, quello vero, è ancora tutto da costruire. Non resta che rimboccarci le maniche.
(Ken Loach, a Cannes per “Land and freedom”, Corriere della sera 23.05.1995)
 ...Sarebbe stato tropo facile ridurre tutta la storia ad un contrasto fra buoni e cattivi, repubblicani contro franchisti. Ho cercato invece di mettere a fuoco il fallimento di una rivoluzione, la rinuncia a un mondo nuovo, che la Spagna repubblicana visse nel 1935. La Rivoluzione Spagnola venne soffocata, e proprio quando stava per avere ragione dei  franchisti, dalle stesse truppe dell’Armata Popolare, rifornite di armi dall’URSS. (...) Avallare gli esperimenti di collettivizzazione delle terre, già ampiamente in atto in tutta la Spagna e particolarmente nel Nord, avrebbe finito con l’erodere il centralismo di Stalin. Un problema di egemonia che le potenze cosiddette democratiche di allora, Francia e Inghilterra innanzitutto, preferirono ignorare, confermando l’embargo delle armi ai repubblicani. Hitler e Mussolini ebbero così campo libero: per entrambi la Spagna diventò il banco di prova per ben più ambiziosi progetti di aggressione. Fu una sconfitta per il socialismo, prima ancora che per la Spagna. Ho sentito l’esigenza di raccontare questo quando la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, venne da tutti salutata come il crollo del sistema socialista. Sia a me che a Jim Allen, mio sceneggiatore anche per “L’agenda nascosta” e “Piovono pietre”, era sempre parso che il socialismo non fosse mai nemmeno cominciato. (...)
Ken Loach su “Land and freedom”, da L’Espresso 25.08.1995 (intervista di Daniele Bezzi)
 Queste sono invece riflessioni sul cinema in sè: l’accenno di Loach al “lavorare in sequenza” significa che il film è stato girato nell’ordine in cui lo vediamo sullo schermo, e non – come si fa quasi sempre al cinema – girando prima alcune scene e poi altre, per comodità e per economia, evitando di smontare e rimontare i set. Le cronache di quando uscì il film dicono che agli attori questo metodo piaceva molto: non conoscevano il copione per intero, e non sapevano fino all’ultimo momento cosa sarebbe successo al loro personaggio.
- Dicono che anche sul set lei cerca di vivere secondo questi ideali egualitari. Le cronache di lavorazione descrivono un’atmosfera idilliaca, con gli attori che non volevano “morire” per non doversi separare dal film...
- Non si lasci impressionare, anch’io ho le mie tecniche di manipolazione. Senza scherzi: credo che gran parte del merito vada ascritto proprio alla mia scelta di lavorare in sequenza temporale. Forse perché non sarei capace di fare altrimenti; e comunque perché ritengo che un film non sia altro che far crescere un brano di vita, che può crescere solo per logica conseguente delle situazioni, e senza troppe interferenze. Ed è così che, pur senza mai vedere il copione, i miei attori riescono a calarsi con tanta precisione nel personaggio. (...)
- La sua ansia più grande come regista?
- Le otto di mattina: il film sta per cominciare, e io non ho ancora deciso dove mettere la macchina. Ma anche la fine, quando penso a tutte le cose straordinarie che la lentezza della macchina da presa non mi ha permesso di catturare : certi sguardi, gesti, tensioni, che magari mi è capitato di registrare non proprio al centro della scena, unici, improvvisati, irripetibili. (...)
Ken Loach su “Land and freedom”, da L’Espresso 25.08.1995 (intervista di Daniele Bezzi)
 Queste infine sono le mie impressioni subito dopo aver visto il film, nel 1995:  «Innanzitutto, Loach è bravissimo: nell’inizio, quando deve per forza di cose essere più didascalico, mi sono un po’ perso ad ammirare la bellezza dell’inquadratura, i colori, la recitazione, gli attori che non erano in primo piano, le scene di massa; poi però mi sono fatto prendere dalla storia che veniva raccontata. Ed è evidente che Loach è un classico, per lo stile di narrazione: un grande creatore di affreschi, lineare e convincente, semplice e raffinato, attento al quadro e alla cornice. Non c’è un dettaglio fuori posto, anche quel po’ di retorica è ben controllata; gli attori non sono mai banali o manichini o inutili star, sono scelti con cura e con affetto, ruolo per ruolo, fin nelle parti più brevi. Per quanto riguarda la parte storica, non ne so abbastanza per mettermi a pontificare, e d’altra parte ho già trascritto e conservato molte parti delle interviste a Loach, nei mesi scorsi. »(settembre 1995)

giovedì 22 settembre 2011

L'ultima donna ( I )

L’ultima donna (1976) Regia di Marco Ferreri Scritto da Marco Ferreri, Rafael Azcona, Dante Matelli. Fotografia di Luciano Tovoli. Musiche originali di Philippe Sarde. Girato in esterni a Parigi. Interpreti: Gérard Depardieu (voce di Flavio Bucci), Ornella Muti (voce di Michaela Pignatelli), Michel Piccoli, Renato Salvatori, Giuliana Calandra (Benoite), Zouzou (Gabrielle), Daniela Silverio (l’amica di Piccoli), Solange Skyden (guardarobiera al night club), Guerrino Totis (il profugo cileno) , Benjamin Labonnelie (il bambino), Carole Perle (amica di Gabrielle). Durata: 112 minuti

“L’ultima donna” è un film che ebbe grande successo, che fu anche un successo di scandalo; all’uscita dai cinema ricordo che la gente diceva “non si è capito niente”, però gli uomini avevano tutti apprezzato Ornella Muti (et pour cause!), mentre le donne su Depardieu non si pronunciavano (non in mia presenza). Ovviamente, è anche un film su cui si è scritto e parlato moltissimo, con molte e svariate interpretazioni. Visto il tempo che è trascorso (quasi quarant’anni), e considerato il fatto che io l’ho visto per intero solo in questi giorni (quando uscì nei cinema avevo l’età, ma non andavo mai a vedere i film di cui si parlava troppo), direi che conviene fare quello che faccio di solito in questi casi, cioè fare piazza pulita di tutti i discorsi e le recensioni fatti su “L’ultima donna”, e magari recuperarli solo alla fine. Una bella manata sul tavolo, e via: come se il film fosse nuovo e appena uscito.
Il primo pensiero che mi viene in mente, a questo punto, è questo signore qui a sinistra: Andrea Doria nel ritratto del Bronzino. La pancia è la stessa di Depardieu, anche se il grande navigatore qui era più anziano; e la domanda che si fanno tutti davanti a questo quadro è la stessa che ci si pone davanti a Depardieu in questo film di Ferreri: perché mai dev’essere così vistosamente nudo, e per di più con la pancia di fuori? Bronzino deve dipingere il ritratto di un ammiraglio, di un condottiero, e lo dipinge nudo: un apparente controsenso, così come il nudo insistito di Depardieu in “L’ultima donna”, che non serve a molto per la narrazione di quello che succede (sarebbero bastati cinque minuti di nudo, per esporre le tesi femministe-maschiliste del film).
C’è un altro tema rinascimentale, presente in molti dipinti famosi, che mi è stato evocato dal film: il tema del rapporto fra Marte, Venere, ed Eros. Il dio della guerra, la dea dell’amore, Amore in persona sotto forma di un bambino, figlio di Marte e di Venere e frutto del loro amore. L’uomo è grande e grosso, la donna è forte ma delicata, e poi c’è il bambino. Guardate il bambino nel film (che non è figlio di Depardieu, come si potrebbe pensare, e ha nome e cognome in locandina): non è solo un bel bambino grande e grosso, e un po’ sovrappeso, ma è identico all’Eros di molti dipinti dell’epoca, in primo luogo quello del Guercino che riporto qui sotto.
Volendo fare un elenco dei bambini di quell’età che appaiono nei dipinti dell’epoca rinascimentale, e che assomigliano al bambino di “L’ultima donna”, ci sarebbe da perdersi. Viene quindi da pensare che il bambino sia stato scelto da Ferreri in modo preciso e scientifico, non un bel bambino qualsiasi, il primo che ti passa davanti (di solito al cinema si fa così), non un bambino alto e robusto che potesse passare per figlio di Depardieu, ma proprio l’Eros del Guercino, o qualcosa di simile. Questo qui sotto, per fare un solo esempio, è un Gesù bambino addormentato, dipinto da Guido Reni; e poi metto anche Giorgione, con "La tempesta", dipinto tra i più famosi di tutti i tempi.
Un'altra simbologia molto forte, che si rifà all'inizio del film (molto più politico e militante di quello che segue) è l'iconografia ottocentesca e di inizio '900 sul lavoro: ma siamo sempre dalle parti di Marte e di Venere, a guardar bene.
Su Marte e Venere, e su Eros, ci sarebbe moltissimo da dire; ma per oggi mi sembra di aver aperto abbastanza bene l’argomento, mi fermo qui e torno a parlare del film. (il dipinto qui sotto, famosissimo, è la Venere del Velazquez: a reggerle lo specchio c'è Eros, l'Amore).
(continua)

L'ultima donna ( II )

L’ultima donna (1976) Regia di Marco Ferreri Scritto da Marco Ferreri, Rafael Azcona, Dante Matelli. Fotografia di Luciano Tovoli. Musiche originali di Philippe Sarde. Girato in esterni a Parigi. Interpreti: Gérard Depardieu (voce di Flavio Bucci), Ornella Muti (voce di Michaela Pignatelli), Michel Piccoli, Renato Salvatori, Giuliana Calandra (Benoite), Zouzou (Gabrielle), Daniela Silverio (l’amica di Piccoli), Solange Skyden (guardarobiera al night club), Guerrino Totis (il profugo cileno) , Benjamin Labonnelie (il bambino), Carole Perle (amica di Gabrielle). Durata: 112 minuti

“L’ultima donna “ di Marco Ferreri, un film del 1976 che fin qui non avevo mai visto dall’inizio alla fine, mi lascia molto perplesso. Non so, forse bisognerebbe tornare indietro al tempo in cui uscì nei cinema, ma io nel 1976 non ero andato a vederlo, probabilmente non guardavo ancora i film di Ferreri, che dire? Lo guardo oggi come se fosse la prima volta, lo trovo un bel po’ noiosino e interminabile, capisco lo scandalo di allora (più che altro Depardieu, ancora oggi il nudo integrale maschile è rarissimo al cinema) ma cancello tutto quello che è stato detto e scritto e riparto da un dettaglio tutt’altro che trascurabile, e cioè Marte, Eros, Venere. Ci sono molte citazioni dirette di quadri famosi su questo soggetto: in primo luogo il Guercino e Velazquez; e anche il fatto che Depardieu se ne vada in giro a quel modo per quasi tutto il film, o magari armato col casco in testa (da motociclista: mica si voleva l’elmo e il cimiero?), il fatto che costruisca giochi di guerra per il bambino (e l’ex moglie, madre del bambino, glielo rimprovera) sono elementi messi così in bella mostra che mi meraviglia che quasi tutti, compresi i critici di professione, del film abbiano visto solo il pisello di Depardieu e le femministe “castranti”. Il bambino scelto da Ferreri, che si chiama Benjamin Labonnelie, non è solo “ciccione” e prosperoso (“ciccione” in senso affettuoso gli viene detto due o tre volte nel film) , ma è proprio ilo bambino dei quadri del ‘500, rubensiano, un putto o, appunto, l’Eros del Guercino.
Identificati Marte e Amore, rimane da chiedersi perché il personaggio di Venere sia diviso in due, due madri per un bambino: Atena, Minerva, Diana, o magari Maria e la Maddalena? Non mi inoltro più in là di questo punto, perché il terreno diventa troppo difficile per la mia (scarsa) preparazione mitologica e simbolica, però non posso trascurare un altro aspetto del personaggio di Ornella Muti, e cioè quello di Pandora, col cesto da non aprire: origine di tutti i mali, oppure il mistero e il segreto che si portano dentro le donne, come diceva Fellini? Una volta aperto il cesto, però, Depardieu non vi trova niente che sia degno di nota; nemmeno i ricordi, quasi nulla.
Ci si può interrogare anche sul personaggio affidato a Renato Salvatori, l’amico, un personaggio che verrà poi riscritto e ripensato per Mastroianni in “Ciao maschio”; anche questo personaggio è sdoppiato, la sua parte politica (l’aggancio alla realtà) è il profugo del Cile amico sia di Depardieu che di Salvatori. Per i più giovani o per i distratti, tre anni prima dell’uscita di “L’ultima donna”, l’undici settembre 1973, c’era stato il terribile colpo di Stato. L’inizio del film è decisamente politico, molto impegnato, e vede Salvatori discutere con Depardieu del loro posto di lavoro: dopo un inizio così ci si aspetterebbe tutt’altro film, ma è difficile capire se il soggetto sia sfuggito di mano agli autori (Ferreri, Azcona, Matelli) oppure se gli autori stessi abbiano lasciato andare la storia per il suo corso, cosa che mi sembra molto più probabile visti anche gli altri film di Ferreri.
E a questo punto devo dire che ogni volta che vedo o rivedo i suoi film mi viene da chiedere chi fosse veramente Ferreri. Cosa leggeva, cosa studiava. quali erano i suoi interessi? Chissà se qualcuno glielo ha mai chiesto, nelle interviste che ho trovato era sfuggente, minimizzava, ma magari in privato, di nascosto, chiacchierava con Zolla, con Baltrusaitis, con Kereny, con Roberto Longhi...Forse bisognerebbe sapere qualcosa anche su Rafael Azcona, scrittore e sceneggiatore di molti dei suoi film.
Altri appunti al volo: 1) l’evirazione invece della lenta scomparsa nel mare, come in altri film; 2) mi riconosco molto nel fisico di Depardieu, oggi non sono più ai suoi livelli (ci potrei arrivare) ma intorno ai trent’anni ero anch’io più o meno così, e chissà cosa ci trovano le donne, mah. 3) belle le musiche di Philippe Sarde, molto adatte al film, molto “misteriche” 4) Ornella Muti bellissima, come in poche altre occasioni; a lei Ferreri dedica immagini più da pinacoteca, Raffaello e Leonardo, o magari Courbet e Georges de la Tour, che da pin up. 5) Il mito di Eros e Psiche? qualcosa c’è, ma più che altro a livello di immagini e di suggestioni (“mai devi domandarmi...”). 6) l’altra donna, la madre vera del bambino: a tratti sembra che le due donne siano una sola, Ferreri ci dà di queste due donne anche un istante in cui sembrano fondersi insieme, un volto visto allo specchio. 7) il bambino si chiama Pietro, Pierino 8) il doppiatore “milanese” di Depardieu è Flavio Bucci; la Muti ha la voce perfetta di Michaela Pignatelli: si tratta di due grandi attori di teatro. 9) lui, Depardieu, è un ingegnere (difficile crederlo, ma nel film viene detto fin dall’inizio) che costruisce giochi di guerra in legno, ovviamente un cannone. 10) il ruolo di Michel Piccoli, un dio che si ritrae, un Giove assente, un po’ svagato e distratto, spensierato. Il vecchio dio abbandonato? Il conflitto fra le antiche religioni e quelle attuali? 11) i molti riferimenti a Marilyn Monroe, che io sto dando un po’ troppo per scontati; anche qui bisognerebbe scavare, almeno un po’. 12) Depardieu e la Muti, dopo l’apertura della cesta, si fabbricano falsi ricordi e foto finte del loro matrimonio, come si farà in “Green card” di Peter Weir. 13) l’espressione profondamente addolorata di Ornella Muti, quando Depardieu osserva e commenta ciò che ha trovato nella cesta.
14) i paesaggi di Parigi, la zona industriale, le speculazioni edilizie, i toroidi della centrale nucleare, zone urbane degradate dalle immobiliari, alberghi con piscina, niente di turistico o di riconoscibile, l’architettura anonima (ma “firmata”) che ha reso indistinguibile Parigi da Milano e da ogni altro luogo. 15) patriarcato e matriarcato, presenti nei dialoghi del film 16) il bambino è stato otto mesi da solo con il padre, poi arrivano “le due madri” a riprenderselo. Il bambino preferisce le donne al padre, ma all’inizio del film piange quando è da solo con la Muti e torna a sorridere quando è in braccio al padre. 17) Nathalie Baye è la ragazza che mangia le ciliegie con Depardieu. 18) Molte altre cose da dire e su cui pensare, ma me le riservo per una visione successiva del film, chissà quando.

domenica 18 settembre 2011

Ken Loach ( I )

Quando questo blog era disponibile a tutti, i post su Ken Loach erano tra i meno letti e commentati in assoluto; la stessa cosa era capitata sul blog precedente. Dato che Loach non è solo un grande regista, ma anche una persona molto attenta a quello che succede nel mondo ed è capace di raccontare come pochi una storia d’amore, di questo dato di fatto mi sono sempre molto dispiaciuto. Si trattava di due blog molto visitati, e molto commentati: “abbracci e pop corn” di Primo Casalini (tengo a precisare che il nome del blog non l'avevo scelto io) è arrivato a un milione di pagine viste in meno di due anni, e faceva settecento-ottocento visite al giorno; con “giulianocinema” ero già arrivato sulle cinquecento pagine viste al giorno, in meno di un anno.
Il disinteresse assoluto verso Loach è stato uno dei motivi che mi hanno spinto a chiudere questo blog, e anche uno dei motivi che mi hanno spinto a chiudere con Solimano (Primo Casalini). Infatti, è molto facile avere visite alte, parlando di cinema: basta mettere molte belle immagini (noi lo facevamo) e dedicarsi ai film più visti e più famosi, avendo comunque un orizzonte molto vasto – così si pescano un po’ tutti quelli che passano in rete. Devo dire che questo metodo, a parte i facili entusiasmi iniziali (“mi leggono! mi scrivono!”), mi ha sempre lasciato perplesso, per non dir di peggio.
Su Ken Loach, e penso a titoli come “Riff raff”, “Piovono pietre”, “The navigators”, era invece doveroso informarsi, discutere, parlare. In un Paese civile lo si sarebbe fatto: Loach è inglese, da lui certi problemi sono arrivati prima che da noi, bastava guardare i film di Loach per capire che cosa sarebbe successo, la strada che stavamo prendendo era quella. La grave crisi economica, la chiusura delle fabbriche, i disoccupati e i precari, gli usurai e gli incidenti sul lavoro, i problemi con la religione (la nostra e quella degli altri), raccontati con grande amore e intelligenza, e per di più inseriti in un contesto narrativo da vero cinema: ma no, si sono preferite – chiedo scusa, ma adesso che siamo in pochi posso dirlo – le cazzatine tipo “Avatar”, tipo l’ennesimo film di Christian De Sica coi Vanzina, roba adatta ai bambini di cinque anni e agli adolescenti ignoranti, però magari in 3D (visibilio! ma il 3D è roba vecchia, c’era già negli anni ’40...), e i risultati di questo disinteresse per la vita vera stanno cominciando ad arrivare, e ad essere molto evidenti. A questo punto, prepariamoci: Ken Loach non serve più, quello che vediamo nei suoi film ormai è arrivato anche da noi. Adesso serve, magari, Michael Moore: che in “Roger and me” descriveva già vent’anni fa i Marchionne e la crisi dell’automobile (la General Motors, mica una fabbrichetta come la Fiat), e che in “Bowling at Columbine” – ma no, meglio fermarsi e tornare a Ken Loach, per il quale nutro grandissimo affetto e ammirazione.
Ken Loach è il vero erede di Charlie Chaplin: basterà andare a vedere “Tempi moderni” e “Luci della città” per capire la somiglianza. Storie d’amore tenere e toccanti, la fatica di vivere quando non si è ricchi, e la dura verità quotidiana: non solo Charlie Chaplin, ma Dickens, o magari il miglior De Sica (Vittorio, sia ben chiaro: De Sica Vittorio).
Ho molto trascurato Loach negli ultimi anni, mi sento colpevole ma penso che non sia un caso: la realtà che lui descrive è ormai qui con noi, troppo presente e troppo dolorosa.
I film di Ken Loach che ho visto:
L’agenda nascosta (1990 F.McDormand, B.Cox, J.Norton) ****
Riff raff (1991 R.Carlyle, E.McCourt, R.Tomlinson) ****
Piovono pietre (1993 Bruce Jones, Julie Brown, R.Tomlinson) ***
Ladybird, ladybird (1994 Crissy Rock, V.Vega, S.Lavelle) ****
Terra e libertà (1995 Ian Hart, Rosana Pastor) ****
La canzone di Carla (1996 R.Carlyle, Oyanka Cabezas, Scott Glenn) ****
My name is Joe (1997 R.Mullan, Louise Goodall) ****
The navigators – Paul Mick e gli altri (2001 Joe Dattine, S.Huison, Tom Craig) ****
Un bacio appassionato (2004 Eva Birthistle, Atta Yacoub) ***
Questi film sono già tutti nell’archivio del blog, tranne “L’agenda nascosta”, “Ladybird”, “La canzone di Carla” e “My name is Joe”, che non rivedo da molto tempo. Di altri film di Loach, quelli precedenti al 1990, ho solo un vago ricordo; so che era già bravo fin dagli inizi, dovrei andare a recuperarli. Quelli che metto qui sotto sono i miei appunti della prima volta che ho visto quei film, giusto per promemoria.
Riff raff
A “Riff raff” ho già dedicato uno dei miei primi post, che è qui in archivio. Nel 1993 ne scrivevo così: «Un film da incorniciare. Finalmente qualcuno che ha qualcosa da dire, non le solite masturbazioni o repliche di m. Finalmente uno che esce dal “mercato” e va a vedere cosa succede nel mondo (“l’Africa è qui, non vedete in che condizioni lavoriamo?”), nel bene come nel male. Così Loach ci racconta una bella e classica storia d’amore tra due giovani, ma senza nasconderci che lui ruba e che lei si droga; eppure sono personaggi positivi, vogliono vivere e sbagliano, e si vogliono bene. Certo, Loach ha mestiere e sa come “trattare” la realtà: mai prendere del tutto sul serio gli artisti (in generale: che siano letterati, cineasti o altro, la realtà viene necessariamente mediata). (sicuri che Bertolucci volesse parlarci di Buddha, per esempio? Eppure il film è lì...). Lo spettatore attento sa che bisogna “fare la tara”; ma, in ogni caso, giù il cappello. E chiedo scusa per non essere andato al cinema quando è uscito...» (dicembre 1993)
Piovono pietre
Anche di questo film ho già parlato per esteso: nel 1997 mi ero segnato questo appunto, dal quale oggi prendo un po’ le distanze: «Qui Loach appare di mano meno felice che in altri film. Non sempre si può essere all’altezza di se stessi: peccato, perché l’argomento (gli usurai) era importante e forte. Comunque un buon film, ma un po’ macchinoso e duro da seguire. Da ricordare: il prete cattolico che dice al protagonista di non andare alla polizia (e, in effetti, non ha responsabilità dirette sulla morte dell’usuraio) e che, prima, dice allo stesso, un operaio disoccupato, che non è affatto necessario indebitarsi per l’abito della prima comunione della figlia.» (maggio 1997)
Rivedendo il film, appare ovvio che si tratta di un argomento davanti al quale non si può restare indifferenti, e in questi casi anche l’autore incontra serie difficoltà a prenderne le distanze per poterlo raccontare al meglio. Questi usurai esistono anche da noi, e sono dei mostri orribili: i tg preferiscono far finta che non esistano, e parlano d’altro. Qualsiasi cosa, a patto che non sia la realtà: i nostri telegiornali sono spesso l’esatto contrario dei film di Ken Loach.
(continua)

Ken Loach ( II )

Ladybird, ladybird
Una madre in difficoltà, i figli in affido, i servizi sociali.
«Coccinella, coccinella, vola verso casa: la tua casa è in fiamme e i tuoi piccoli scomparsi»: da questa celebre filastrocca inglese Ken Loach (il regista di "Riff Raff” e "Piovono Pietre") ha tratto non solo il titolo del suo prossimo film "Ladybird, ladybird" (in inglese è la coccinella) ma anche una scena assai drammatica. Quella in cui la protagonista, Maggie (quattro mariti diversi e quattro figli), ritorna a casa chiamata dalla polizia perché lo squallido monolocale in cui abita, e in cui si trovavano i suoi figli, è andato a fuoco. (...) la difficoltà a esprimere e maneggiare le proprie emozioni è tipica di tutta la drammaturgia oltre Manica. Come ha detto Sheridan sintetizzando in una battuta lo stretto legame tra la storia privata e quella pubblica del suo film: «Se non ti è permesso di esprimere i tuoi sentimenti, una bomba finirà per farlo per te». (da un articolo di Mario Sesti, L’Espresso 28.01.1994: il film di Sheridan citato nell’articolo è “Nel nome del padre” e parla di un giovane irlandese tenuto ingiustamente in carcere per dieci anni)
Margaret Thatcher, purtroppo sta venendo di moda anche qui da noi (gennaio 1994)
Nel 1996 dopo aver visto il film mi ero segnato questo breve appunto: «E’ così semplice e così perfetto che il vederlo dà un dolore e una gioia (emozioni!) che lo rendono quasi insopportabile: e sarebbe facile trovarvi cose negative, errori, semplificazioni, ma solo uno stupido non saprebbe coglierne la commozione, l’amore verso i personaggi e verso il mondo. Straordinari, come sempre in Loach, gli interpreti. Un maestro, mi ha fatto ridere e mi ha fatto star male... »(giugno 1996)
La piccola poesia che dà il titolo al film ha una ricca voce su wikipedia in inglese: la prima versione a stampa risale a metà Settecento, quindi è molto più antica. Si tratta di uno dei giochi, o delle “conte”, che si facevano da bambini, quando non c’erano ancora i videogames e si giocava tutti insieme, magari per strada: la coccinella (ladybird o ladybug) deve correre a casa, la sua casa in fiamme e i bambini sono in pericolo, li salva tutti tranne uno, oppure ne salva solo uno o una: il nome di quell’uno o una è quello del bambino che “va sotto” oppure “si salva” nel gioco. Ne abbiamo molte anche noi, di queste “conte”; si usavano, per decidere chi “sta sotto” quando si gioca a rincorrersi, a guardie e ladri, eccetera. Questo è uno degli esempi che riporta wikipedia: Ladybird, ladybird fly away home, Your house is on fire and your children are gone, All except one, And her name is Ann, And she hid under the baking pan. Un’altra versione, più disperata: Ladybird, ladybird, fly away home, Your house is on fire, Your children shall burn! Ladybird, ladybird, / Fly away home. / Your house is on fire, / Your children are flown. All but a little one / Under a stone. / Fly home, Ladybird, / 'Ere it be gone. Una terza versione: Ladybird, ladybird, fly away home, / Your horse is on foot, your children are gone; All but one, and that's little John, / And he lies under the grindle stone. Questa filastrocca è citata anche in una famosa canzone di Tom Waits, "Jockey Full Of Bourbon" dall’album “Rain dogs” del 1985

L’agenda nascosta
Un film che parla di storia recente inglese; non lo vedo da molti anni. Nel 1999 mi ero segnato questo breve appunto: «Mi è piaciuto molto, d’altronde mi piace molto il modo di fare cinema di Loach (e viva i comunisti!). Sono quasi sicuro che tutto quello che vi è raccontato sul complotto contro Wilson per favorire la Thatcher corrisponde al vero, ma del film mi resterà impressa Frances McDormand, che è una grande attrice e della quale in questo film ci si potrebbe innamorare. Ottimi anche Brian Cox, il detective inglese, e il “cattivo” capo poliziotto Jim Norton. Onestamente, però, non ho alcuna simpatia per l’IRA e per i suoi rivali.» (novembre 1999)
My name is Joe
Protagonista è l’alcolismo: un altro film che non vedo da molto tempo. Dieci anni fa ne scrivevo: «Il “solito” capolavoro di finezza e di drammaticità del grande regista inglese. Colpisce l’amore per i suoi personaggi, la grande capacità di narrazione, la perfetta scelta dei tempi e degli attori. Loach è figlio di Shakespeare, e lo si vede nel perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Giù il cappello, ancora una volta. Peter Mullan sembra Paul Newman, ma è più bravo ancora. E poi c’è Beethoven, il Concerto per violino; e la squadra di calcio con le magliette della Germania 1970... » (luglio 2001)
The navigators
Ne ho parlato per esteso in un post che è qui in archivio, ed è un film al quale sono molto attaccato, anche e soprattutto per motivi personali. L’ho visto al cinema nel settembre 2001; poi ne avevo parlato con Stefanina che mi dirà che dev’essere un bel po’ noioso; ma Stefanina si diceva di sinistra, io pensavo che le interessasse l’argomento, invece i suoi interessi erano altrove e io mi sbagliavo. Un paio d’anni dopo, riferisco l’aneddoto a Solimano che mi dice ridendo che, “beh, la ragazza non aveva tutti i torti”. Ma qui non si tratta di stabilire se il film piace o non piace, si tratta di qualcosa che ci coinvolge tutti, e molto profondamente: la sicurezza sul lavoro, la sicurezza dei treni, come vengono gestiti gli appalti... Nel film Loach descrive con estrema precisione come e perché succedono gli incidenti sul lavoro: e ogni giorno muore gente sul lavoro, ci sono incidenti stradali e ferroviari, tram che escono dalle rotaie...Possibile che non si riesca più a parlare di quello che succede nel mondo?
La canzone di Carla
Il Nicaragua e la rivoluzione sandinista, visti attraverso gli occhi di un giovane inglese innamorato di una giovane donna immigrata. Oltre ad essere una bellissima storia d’amore (qualche vaga somiglianza con "L'assedio" di Bertolucci) è l’inevitabile vittima di una censura di mercato più o meno occulta. Poiché è un atto di denuncia molto forte verso “the masters of war” (in questo caso la CIA) lo si vede ai festival, magari si premia qualche attore, e tutto finisce lì. Mi ricordo le critiche di quando era uscito: dicevano che era buona la prima parte, ma che la seconda era noiosa e “militante”: invece è un capolavoro dall’inizio alla fine, ed è toccante. (maggio 1999)
(continua)