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lunedì 29 giugno 2020

Incontri con uomini straordinari


Meetings with remarkable people (1979) Regia di Peter Brook. Tratto dal libro omonimo di Gurdjieff. Sceneggiatura di Peter Brook e Jeanne de Salzmann. Fotografia di Gilbert Taylor. Musiche di Interpreti: Dragan Maksimovic, Terence Stamp, Athol Fugard, Natasha Parry, Colin Blakely, Bruce Myers, Colin Blakely, Gregoire Aslan, Warren Mitchell, Tom Fleming, Bruce Purchase, Fabian Sovagovic. Durata 1h44'

"Incontri con uomini straordinari" è stato, e forse lo è ancora, un libro molto letto e molto citato; l'autore è Georges Gurdjieff (1872 circa -1949), figura ambigua e affascinante, per alcuni un maestro, per altri qualcosa di più simile a un venditore di fumo. In ogni caso, "Incontri con uomini straordinari" è un libro molto bello, ricco di notizie e di informazioni, che si può leggere anche soltanto come un libro d'avventure; la fedeltà all'originale è assicurata anche dalla partecipazione alla sceneggiatura del film da parte di Jeanne de Salzmann, principale allieva di Gurdjieff in Europa e sua esecutrice testamentaria.
Il film che ne trasse Peter Brook nel 1979 è dunque molto fedele al libro, sia pur nei limiti di una riduzione cinematografica, ed è bello da vedere ancora oggi, anche se non raggiunge la magia del "Mahabharata" che il grande regista inglese girerà dieci anni dopo. Se il "Mahabharata" nasce in teatro, e anche al cinema mantiene un'impostazione teatrale, "Incontri con uomini straordinari" è invece girato nei luoghi in cui visse Gurdjieff, o comunque molto vicino a quei luoghi, più esattamente tra l'Afghanistan (l'Afghanistan degli anni '70, prima dell'invasione sovietica e dei talebani) e gli studi inglesi di Pinewood.

Un film "about the search and the searcher" , sulla ricerca e su chi la compie, dice Peter Brook in un'intervista (reperibile su youtube), ed è proprio così, i personaggi sono alla ricerca di se stessi o di qualcosa che dia senso alla vita, e alle volte lo trovano. Un amico di Gurdjieff sceglierà di fare il meccanico sulle navi, il principe russo diventerà un monaco, l'archeologo si fermerà in un altro monastero, e Gurdjieff continuerà a cercare la sua confraternita antichissima e misteriosa. Nel film si vedono con dovizia di particolari le danze descritte da Gurdjieff nei suoi libri, con le musiche trascritte da Thomas de Hartmann che fu suo discepolo; le danze dei dervisci, soprattutto, che Gurdjieff insegnò anche in Europa durante il suo lungo soggiorno in Francia.

Gli attori: il giovane Gurdjieff (che si vede anche da bambino e da ragazzo) è interpretato da Dragan Maksimovic, un attore jugoslavo molto attivo in patria e anche in film di tutta Europa. Terence Stamp è il principe russo che diventa un monaco e una guida spirituale; Athol Fugard è il giovane professore di archeologia che porta Gurdjieff nel deserto del Gobi; Natasha Parry e Bruce Myers sono tra gli amici del giovane Gurdjieff. Nel cast anche Colin Blakely (un tamil) e Gregoire Aslan (principe armeno), e molti altri ottimi attori.
Sul mio piano personale, ammesso che possa interessare a qualcuno, sono lontanissimo da queste cose. Ricordo di aver lasciato perdere Gurdjieff poco dopo aver letto il libro, nonostante l'indubbio fascino del suo racconto. "Incontri con uomini straordinari" è un libro che piace, è divertente come un libro di avventure, ma l'impressione di aver davanti un contaballe o un abile affabulatore è spesso grande. A questo proposito si può sottolineare la sequenza che riguarda di Yazidi, definiti "adoratori del diavolo": ma è solo un'etichetta loro affibbiata dai musulmani, che li ritengono eretici. Se ne è parlato di recente perché anche l'odierna Isis li perseguita. Metto qui un link per chi fosse interessato ad approfondire: detto molto in breve, gli Yazidi sono di etnia curda e la loro religione è molto più antica dell'islam. Inoltre, Gurdjieff non è cristiano, e si vede; gli manca spesso la pietas, che hanno anche i buddhisti, l'amore verso il prossimo. La sua è più una ricerca personale che una vera interazione con il prossimo, e mi scuso per la sintesi molto rozza ma non ho intenzione di dilungarmi troppo e comunque oggi ognuno può cercare notizie molto più facilmente di quando capitò a me negli anni '80.
Avrei ritrovato Gurdjieff molto tempo più tardi, sulla fine degli anni '90, per un incontro con un mio coetaneo romagnolo che si diceva suo seguace, quando già non ci pensavo più. "L'uomo automatico", il liberarsi dagli automatismi che ci condizionano dopo averli appresi da bambini, è alla base dei suoi insegnamenti; è qualcosa di molto interessante, ma non se viene usato per sentirsi più sveglio e più furbo degli altri. Ma anche il mio coetaneo romagnolo non era mai andato a fare i turni in fabbrica, non conosceva la realtà di chi lavora, fuggiva dal vero e dalle malattie, dalla guerra, dalla sofferenza; era andato in India e sfruttava quell'esperienza per vivere alle spalle degli altri, come probabilmente fece Gurdjieff, con corsi molto costosi e "seminari" dove alla fine non è che si imparasse molto. Lo stesso Gurdjieff, verso la fine di "Incontri con uomini straordinari", a domanda precisa risponde che il denaro non è un problema, non è una cosa importante... Mi sono chiesto che cosa volesse dire, e alla fine la risposta più semplice è che il denaro si trova, il fesso o la riccona che ti finanzia prima o poi lo trovi. Mi scuso ancora per le mie sintesi molto estreme, ma l'impressione che si cercasse più che altro di plagiare delle persone mi è rimasta, e non è detto che sia colpa di Gurdjieff. Come maestro, comunque, preferisco Elemire Zolla (che maestro non volle mai essere): Zolla si definiva "felicemente sincretista", diceva che i mistici si somigliano tutti, e che durante la nostra ricerca si può vivere nel mondo anche senza dare a vedere di conoscere qualcosa in più degli altri, e magari in samadhi.
(...) Si può vivere a fianco d'un uomo in samadhi senza notarlo: sbriga le sue faccende e lo si crede coinvolto, si proiettano su di lui i comuni sentimenti e non si ricevono smentite.
Una condizione puramente interiore è priva di connotati. Le metafore con le quali se ne parla designano fatti esterni e perciò falsificano, a cominciare dall'alternativa geometrica di dentro/fuori, esterno/interno. (...) La psiche in samàdhi è unificata in se stessa e nel contempo è unita al mondo o, meglio, nelle parole di Leopardi, annegata nell'infinità dell'essere. Entra negli eventi e ne esce a mano a mano che affiorano e dileguano perché essi le appaiono espressioni finite dell'essere infinito che è la sua stessa essenza, ciò che è e io sono diventano per lei sinonimi. Chi avverte estaticamente l'unità di se stesso e dell'essere, considera illusoria la molteplicità degli eventi, perciò, quando si presentano, non fa scattare la Biade automatica bene/male, amico/nemico. Si lascia attraversare, come un mare, uno specchio.
Il rovescio di samàdhi è ciò che i vecchi psichiatri chiamavano nevrastenia, l'indugio accigliato e penoso sulle cose, che ogni sensazione centellina e cincischia, su ogni immagine vagabonda indugia: non c'è circolazione, nitore mentale, e la psiche si smarrisce in un'incessante fantasticheria.
(...) Gli ufficiali di marina si allenavano a entrare in samàdhi quando erano messi di vedetta ad avvistare sommergibili; dovevano poggiare lo sguardo sull'estremo orizzonte senza mettere a fuoco nessun tratto di mare; così i monaci un tempo apprendevano a tenere lo sguardo sulla linea d'orizzonte della vita, a non tornare sugli eventi trascorsi, a schivare il compiacimento e l'indugio su se stessi, sorvolando il fiume della realtà e scartando i sogni di veglia. (...)
Elemire Zolla, da "Archetipi", capitolo primo, pag.8-12 edizione Marsilio.




(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )

domenica 6 giugno 2010

Mahabharata: La morte di Bhishma

Peter Brook, The Mahabharata (1989). Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

La morte di Bhishma
Questa è un’altra delle scene più misteriose, e più suggestive, del film di Peter Brook. Un altro momento in cui si parla dell’aldilà, e del trascendente. Anche qui, vista l’enorme difficoltà dell’argomento, mi limito a riportare il lavoro di adattamento fatto dallo sceneggiatore Jean Claude Carrière.
Ci si avvale ancora una volta, all’inizio, della grande presenza scenica di Sotigui Kouyaté, che è forse il vero centro di tutta l’operazione tentata da Brook e da Carrière. Poi tutto il resto è lasciato ai primi piani, intensi e molto ispirati, degli altri due attori: il polacco Andrzei Seweryn che è Yudhìshthira, e il francese Ken Higelin, che quando fu girato il film aveva sedici anni, e forse per questo è così adatto alla parte. E’ una scena molto breve, basata tutta sulla suggestione delle parole e dei primi piani.
Yudhishtira, fratello maggiore di Arjuna e capo dei Pandavas, si sente in colpa dopo l’uccisione di Ghatokatcha, mandato da Krishna a sicura morte con l’inganno (l’ennesimo inganno) per togliere a Karna un colpo mortale, e si reca da Bhishma morente per chiedere ragione di tutto questo, e se ha senso continuare la battaglia. Bhishma, il grande guerriero, riferimento morale e spirituale di tutti i contendenti, è sul suo letto di morte, fatto di frecce. Colpito da Sikhandin (anzi, no: da Arjuna) sta lentamente morendo, mentre infuria la battaglia. Yudhishthira si reca da lui per chiedergli che senso ha tutta questa carneficina. Il vecchio guerriero si alza per un attimo dal suo letto di morte ed evoca “the deathless boy” , il ragazzo che non conosce la morte; a lui Yudishthira potrà rivolgere le sue domande. Il ragazzo appare.
Yudishthira: Sei tu il ragazzo che non ha morte?
Ragazzo: Sì.
Yudishthira: Sei tu che hai detto “La morte non esiste”?
Ragazzo: L’ho detto.
Yudishthira: Ma, se perfino gli dei compiono sacrifici per non dover morire...
Ragazzo: Entrambe le cose sono vere. I poeti rendono omaggio alla morte e la glorificano nelle loro canzoni; ma io ti dico che la morte è negligenza ed ignoranza, e che vigilare è l’immortalità. La morte è una tigre acquattata nei cespugli. Noi facciamo figli per la morte, ma la morte non può divorare chi si è scrollato la vita di dosso come polvere. La morte non ha potere davanti all’eternità. Il vento e la vita scorrono partendo dall’infinito. La luna beve il respiro della vita, il sole beve la luna, e l’infinito beve il sole. Il saggio si libra tra i mondi. Quando il suo corpo è distrutto, quando non ne rimane traccia, allora la morte stessa è distrutta a sua volta, e il saggio contempla l’infinito. (scompare)
Yudishthira: (tra sè) Per tutta la mia vita ho sentito i saggi che dicevano: “ Se il dharma è protetto, protegge; se è distrutto, distrugge.” Stiamo proteggendo il dharma?
Krishna (apparendo brevemente): Spesso, l’unico modo per proteggere il dharma è dimenticarlo.

La battaglia continua, ma ormai Drona è stato ucciso, Karna non ha più difesa, la vittoria dei Pandavas è certa. Ora Bhishma può morire.
P.S.: Riporto la definizione di “dharma” così come appare nell’appendice al riassunto del “Mahabharata” fatto dallo scrittore indiano R.K.Narayan (editore Guanda):
dharma: ordine stabilito; giustizia, dovere, virtù; regola, legge (in campo sociale, morale e cosmico) Dharma: il dharma personificato e divinizzato; identificato a volte con Yama.

sabato 5 giugno 2010

Mahabharata: Un mondo diverso dal nostro

Peter Brook, The Mahabharata (1989). Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

Quando ho visto il Mahabharata di Peter Brook al cinema, nel 1989, ero rimasto affascinato e sconcertato. Penso che sia una reazione comune, in chi non conosce la cultura indiana o la conosce molto superficialmente. La storia del Mahabharata è piena di eventi che per noi sono decisamente strani, spesso sconcertanti; però poi basta ripensare alla nostra mitologia per sentirsi almeno un po’ rassicurati: eventi “strani” ne troviamo anche con Giove e Minerva, e Ulisse non è meno doppio di Krishna o di Shakuni.
L’effetto che fece a me fu di farmi vedere con occhi diversi la nostra religione e il nostro mondo, e di rendermi conto di quanto sia grande l’ignoranza riguardo a cose che diamo per scontate. Per esempio, la Bibbia contiene cose ben più strane di queste che abbiamo visto nel Mahabharata, o dei bassorilievi dei templi indiani: chi ha avuto la pazienza di leggersi il libro di Ezechiele sa di cosa parlo. Ma la storia di Abramo e di Isacco, o quella di Sara che partorisce a novant’anni, non sono meno strane di quella di Amba e di Bhishma: se così non ci sembra è solo perché siamo abituati a leggerle fin dal catechismo. E strana, stranissima, è la nostra celebrazione della Pasqua: Gesù Cristo ci insegna che la nostra vita non finisce qui, e che al nostro corpo fisico non dobbiamo fare caso più di quel tanto. Siamo tutti eredi di San Tommaso, in fin dei conti; ma qui il discorso si fa troppo complicato e mi fermo, non senza aver ricordato che l’India e il Tibet hanno culture affascinanti, ma le “Confessioni” di Sant’Agostino sono belle come la vita di Milarepa, e davanti al “Laudato si’ mi’ Signore” di Francesco d’Assisi non c’è paragone che tenga, e tutto sommato mi dispiace un po’ meno di non conoscere il sanscrito, se ho avuto in cambio la fortuna di poter leggere Jacopone in italiano.
Un po’ di questi eventi “strani” li avete visti nelle puntate precedenti; ne segnalo altri due molto belli: la storia di Gandhari e quella di Dràupadi, due storie al femminile. Ci sono molte donne, nel Mahabharata, e hanno ruoli tutt’altro che secondari o scontati.
Gandhari va sposa ad un principe: non lo conosce, ma è felicissima. Quando le dicono che sta per sposare un cieco, si dispera. Ma è solo un momento: “Dato che il mio sposo non potrà vedermi, anch’io voglio condividere la sua sorte.” Gandhari si fa portare una benda e se la mette sugli occhi: non la toglierà mai più.
Questa storia del regno retto da due ciechi è una metafora meravigliosa, ma a questo punto non posso più rimandare la storia di Dràupadi. Ci spostiamo nell’altra metà della famiglia, i Pandava: Arjuna vince un torneo e corre felice da sua madre Kunti: “Madre, guarda che cosa ho vinto.” La madre non alza la testa dal suo lavoro: “Qualunque cosa sia, la devi dividere con i tuoi fratelli.” Arjuna è perplesso: quello che ha vinto nel torneo è la sua futura moglie, Dràupadi. Ma quel che è stato detto non può essere cambiato, e così sarà: ora Dràupadi ha cinque mariti, i cinque fratelli Pandava. Per la società indiana, una donna che ha più di un uomo è una prostituta: ma così non sarà per Dràupadi, esempio di fedeltà coniugale e di forza femminile.
Superato lo sconcerto iniziale, si rivela una storia meravigliosa; ed è l’interprete di Dràupadi, l’indiana Mallika Sarabhai, a spiegare alcune cose fondamentali sul suo personaggio: le troviamo in una bella intervista che si trova alla fine dei due dvd della Dolmen Home Video, ed è uno dei motivi per cui vale la pena di procurarseli. Dràupadi è il palmo della mano, che dà forza alle dita e permette di lavorare o di combattere, o di fare carezze. E i cinque mariti esprimono qualità diverse: la saggezza, la dolcezza, la forza, la fedeltà, l’abilità. Cinque uomini che, messi insieme, fanno il marito ideale: forse il personaggio di Dràupadi è stato concepito da una donna, conclude sorridendo Mallika Sarabhai. E Dràupadi è davvero un personaggio bellissimo.
Per raccontare la storia, Brook e Carrière sono ricorsi ad un piccolo trucco molto classico: hanno portato sulla scena Vyasa, il narratore della storia. Vyasa, vissuto intorno al terzo secolo dopo Cristo, è stato un santo asceta; sembra che sia stato lui a mettere per iscritto il poema, che esisteva da tempo immemorabile. Il professor Giuliano Boccali, esperto di cose indiane, spiega che per la cultura indiana saper scrivere è stato per lungo tempo considerato una minorazione: aveva bisogno di scrivere chi non era capace di ricordare (gli articoli di Boccali sono, oltre che nei suoi libri, nell’archivio di Golem, la storica rivista on line fondata da Umberto Eco: www.golemindispensabile.it ).
Ma Vyasa ha bisogno di un aiuto per scrivere il poema, e da lui arriva Ganesh che trascriverà velocemente tutto. Ganesh (o Ganesha, secondo altre trascrizioni) è il dio con la testa di elefante che siamo soliti associare all’induismo, uno dei più famosi anche da noi (secondo solo alla dea Kalì). Ganesh è un dio-bambino, un dio felice, il dio che viene invocato quando si deve cominciare qualcosa. Non è quindi un caso che sia proprio lui ad aiutare Vyasa.
Troveremo Vyasa (l’attore inglese Robert Langdon-Lloyd) in molte scene del film: agisce come uno dei personaggi ed a lui si rivolgono spesso gli altri attori. Ganesh è interpretato dallo stesso attore che interpreta Krishna: Brook gli mette in testa una buffa maschera da elefante, una maschera visibilmente di cartapesta, a significare che non è l’apparenza delle cose quella di cui stiamo parlando. A loro è affiancato un ragazzo sui 10-12 anni: che rappresenta un po’ tutti noi, che pone le domande e che riceve le risposte quando è possibile darle.
Anche la musica, come gli interpreti, viene da tutte le parti del pianeta: ma quasi non ci si fa caso, perché acquista una sua unità tutt’altro che casuale. La musica nel “Mahabharata” meriterebbe un discorso a parte; per ora mi limito a ricordare la bellissima voce di Sarmila Roy, una cantante della quale so pochissimo e che ascoltiamo in due occasioni (è lei che canta sui titoli di coda).
Rimane da parlare di Krishna, che è il personaggio più sconcertante di tutti. Krishna gioca con i nostri destini, gioca come fanno i bambini con i soldatini o con le marionette. Fa quel che vuole, fa morire i suoi pur di giungere alla vittoria, mente e fa mentire, e tutto questo per un fine che, forse, conosce solo lui; e, in ogni caso, “una scintilla di luce però è stata salvata” – è questo che spiega a Gandhari che gli rimprovera il suo atteggiamento dopo la vittoria finale. Perché Krishna gioisce per la vittoria come un calciatore dopo un gol, nonostante la vittoria sia scontata fin dall’inizio e abbia usato i suoi trucchi per vincere; ma così facendo ha salvato dalla distruzione una scintilla di luce. (E’ da qui che è partito Bergman per “Il settimo sigillo”?). Ma anche Krishna è destinato a morire, morirà come noi, vittima di un banale incidente di caccia: lo vediamo addormentarsi per sempre in una delle ultime scene del film.

lunedì 24 maggio 2010

Mahabharata: Il canto del beato

Peter Brook, The Mahabharata (1989). Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

IL CANTO DEL BEATO (BHAGHAVADGITA)
Siamo di fronte ad uno dei momenti più grandi, ma anche più oscuri e più lontani dalla nostra logica occidentale. La Bhaghavadgita, il “Canto del Beato”, è un vero e proprio libro di filosofia, più che di religione; parla dell’aldilà e del trascendente, ed è spesso oscuro e incomprensibile, e dotato di un enorme fascino. Confesso di aver provato a leggerla, e di non averne ricavato molto. Immagino cosa deve aver provato Jean Claude Carrière, dovendola ridurre a un testo per il teatro, e anche piuttosto breve. E’ soprattutto per queste due ragioni, oltre per il fatto che questo è un blog sul cinema e non di questioni filosofiche o religiose, che mi limito a trascrivere qui la Bhaghavadgita come è stata riassunta nel film, cercando di rendere il senso del testo e delle immagini meglio che posso.
Sta per iniziare la grande battaglia finale, la battaglia di Kurukshetra (è una località precisa, che porta ancora questo nome) nella quale si trovano di fronte gli appartenenti alla stessa famiglia. da una parte i Pandavas, guidati da Arjuna, al cui fianco c’è il dio Krishna; dall’altra i Kauravas, loro cugini, guidati da Bhishma e da Drona, guerriero imbattibile e maestro d’armi. Tra le fila dei Kauravas, c’è anche Karna. E tutto è pronto per cominciare, ma ecco che Arjuna, proprio mentre sta per soffiare nel corno che darà inizio alla battaglia, si ferma, passa una mano sul volto, guarda smarrito Krishna che è alla guida del suo carro, e depone le armi.
Arjuna: Krishna, le mie gambe si piegano. La mia bocca è secca, il mio corpo trema. L’arco mi sfugge dalle mani... Bhishma, il re mio zio, i miei cugini, i miei nipoti, e Drona, il mio maestro, sono tutti là... Io non posso portare la morte alla mia famiglia. (scende dal carro) Ho preso la mia decisione, non mi difenderò. Aspetterò qui la morte.
Krishna: Cos’è questa vergognosa e folle debolezza? Alzati e combatti!
Arjuna: L’angoscia mi assale. Non riesco a vedere dove sia il dovere. Insegnami...
(pausa)

Dhritarashtra: Cosa fa Krishna?
Vyasa: Parla con Arjuna.
Dhritarashtra: Cosa gli dice?
Vyasa: Sta dicendo ad Arjuna che la vittoria e la sconfitta sono la stessa cosa. Lo spinge ad agire, e a non riflettere sui frutti delle sue azioni. Gli dice: “ Cerca il distacco, combatti senza il desiderio di farlo.”
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: Tu dici: “ Dimentica il desiderio, cerca il distacco”; e tuttavia mi spingi alla battaglia, al massacro? Le tue parole sono ambigue, io sono confuso.
(pausa)
Vyasa: Krishna gli dice: “Non ritirarti nella solitudine. La rinuncia non è abbastanza. Devi agire, ma non devi farti dominare dall’azione.
(riprende su Arjuna e Krishna)

Krishna: Nel cuore dell’azione, devi rimanere libero da ogni legame.
Arjuna: Come posso mettere in pratica ciò che mi domandi? La mente è instabile, capricciosa, è evasiva, febbrile, tumultuosa, tenace. Sarebbe più facile domare il vento.
Krishna: Devi imparare a guardare nello stesso modo, con l’identico sguardo, una montagna di terra e una montagna d’oro, una mucca e un uomo saggio, un cane e un uomo. C’è un’altra intelligenza oltre la nostra mente.
Arjuna: Le passioni ci trascinano lontano, oscurano e rendono ottusi i nostri sensi. Come posso trovare quest’intelligenza? Con quale volontà?
(pausa)
Vyasa: per rispondere a questa domanda, Krishna condusse Arjuna attraverso l’intricata foresta dell’illusione. Cominciò a insegnargli l’antica sapienza yoga, e il misterioso sentiero dell’azione. Gli parlò per un tempo lungo, molto lungo, in mezzo ai due eserciti che erano pronti a distruggersi.
(riprende su Arjuna e Krishna)

Arjuna: L’umanità è nata nell’illusione. Come può un uomo raggiungere la verità, se è nato nell’illusione?
(pausa)Vyasa: Lentamente, Krishna condusse Arjuna attraverso le fibre dello spirito. Gli mostrò i più intimi movimenti del suo essere, e il suo vero campo di battaglia, dove non c’è bisogno né di guerrieri né di armi, dove ogni uomo deve combattere da solo: è la sapienza più segreta. Gli mostrò l’intera verità. Gli insegnò come si dispiega il mondo.
(riprende su Arjuna e Krishna)Arjuna: Le mie illusioni sono svanite ad una ad una. Ora, se posso guardare dentro di essa, mostrami la tua forma universale... (pausa) Ti vedo. In un unico punto io vedo l’intero mondo. Tutti i guerrieri si gettano nella tua bocca, e tu li mastichi fra i tuoi denti. Essi vogliono essere distrutti, e tu li distruggi. Attraverso il tuo corpo io vedo le stelle. Vedo la vita e la morte, vedo il silenzio. Dimmi chi sei. Sono scosso nel mio intimo più profondo, ho paura.
Krishna: Io sono tutto ciò che tu pensi, tutto ciò che tu dici. Ogni cosa è appesa a me, come le perle su di un filo. Sono l’essenza della terra, sono il calore del fuoco. Sono ciò che appare, e ciò che scompare. Io sono la beffa dell’imbroglione. Io sono il fulgore di tutto ciò che riluce, io sono il tempo che invecchia. Tutti gli esseri precipitano nella notte, e tutti gli esseri sono riportati alla luce. Io ho già sconfitto tutti questi guerrieri. C’è chi pensa di poter uccidere, c’è chi pensa che verrà ucciso, entrambi sbagliano. Nessuna arma può prendere la vita che tu porti, nessun fuoco può bruciarla, non c’è acqua che possa annegarla, non c’è vento che possa asciugarla. Non aver paura, e alzati, perché io ti amo. Ora puoi dominare il tuo misterioso e incomprensibile spirito, ora puoi vedere il suo lato oscuro. Agisci come devi agire. Anch’io, io non sto mai senza agire. Alzati, e combatti.
Arjuna risale sul carro, le sue paure sono svanite. Soffia nella conchiglia, e i due eserciti si scagliano uno contro l’altro.
Vyasa è il narratore del poema, l’equivalente indiano di Omero, ed è interpretato dall’attore Robert Langdon Lloyd; Dhritarashtra è il re cieco, padre dei Kauravas, interpretato dal polacco Ryszard Cieslak: a lui Vyasa racconta le sorti della battaglia.
Krishna è l’inglese Bruce Myers, e Arjuna è Vittorio Mezzogiorno.
(Ma poi, alla fine di tutto, dopo molto tempo, dopo la battaglia, ormai prossimo egli stesso alla morte, Krishna dirà che “Arjuna ha dimenticato tutto...”.)

domenica 23 maggio 2010

Mahabharata: Storia di Karna

The Mahabharata (1989). Regia di Peter Brook. Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

Storia di Karna
La giovane Kunti viene presa in simpatia da un santo asceta, che le fa un dono impegnativo e anche pericoloso: è un mantra, una frase che può evocare un dio. La ragazza, per curiosità, ci prova: ed evoca il dio Sole, che appare. Kunti cerca di scusarsi, ma il Sole le spiega, con gentilezza, che questo non è un gioco e che non si può evocare un dio così alla leggera. Il dio si intrattiene piacevolmente con la ragazza, e da questo intrattenimento nascerà un bambino, figlio del Sole. Kunti non sa cosa fare, è quasi una bambina. E’ riuscita a nascondere la cosa, ma adesso il piccolino c’è e non si potrà continuare a fare come se non ci fosse: così lo mette in un canestro e lo affida alle acque del fiume.
Sembrerebbe una storia inventata, da tanto che è simile a quella di Mosè. Eppure è nel Mahabharata da tempo immemorabile; così come nell’epopea babilonese di Gilgamesh, anch’essa precedente alla Bibbia, c’è il racconto del diluvio universale. Ma questo è un argomento troppo serio, e io non sono in grado di trattarlo; mi limito a sottolineare la similitudine, e vado avanti con la storia così come viene raccontata nel film di Peter Brook. Anche perché, a questo punto, le somiglianze con la storia di Mosè finiscono subito. Tanto il racconto del Diluvio, a Babilonia, è simile a quello della Bibbia, quanto questo racconto differisce dalla storia di Mosè nel suo proseguimento.
Il bambino, ovviamente bellissimo, si chiama Karna. Viene raccolto lungo il fiume dalla famiglia di un carrettiere, e in quella famiglia cresce senza sapere nulla delle proprie origini. Riceve però un’educazione marziale molto accurata. E, quando diviene adulto, arriva alla reggia di Dhritarashtra: dove si riconosce subito il suo valore, e dove si evidenzia subito la sua rivalità con l’infallibile arciere Arjuna, uno dei cinque fratelli Pandavas. E sarà proprio Arjuna, sfidato da Karna, a rinfacciare al nuovo venuto le sue origini. “Di chi sei figlio?”, chiede a Karna; e Karna non sa rispondere, perché lo ignora. E’ il figlio del carrettiere, ecco tutto quello che di lui si conosce.
Respinto dai Pandavas, Karna trova accoglienza nell’altro ramo della famiglia, quello dei Kauravas. Duryodhana, il maggiore dei figli del re, lo accoglie come un fratello e fa in modo che abbia da subito un titolo nobiliare. Ma la ferita tra Karna e Arjuna, entrambi arcieri infallibili e valorosi, è ormai insanabile.
I due in realtà sono fratelli, entrambi figli di Kunti. E quindi sono fratelli di Karna tutti i Pandavas, che sono anch’essi di ascendenza divina (Arjuna è figlio di Indra e di Kunti: ma questa è un’altra storia, troppo lunga per essere raccontata oggi). Kunti è infatti riuscita a tenere nascosta la sua prima maternità.
La rivalità continuerà fino alla grande battaglia di Kurukshetra, dove Arjuna e Karna si troveranno di fronte in eserciti contrapposti. Nei 12 anni dell’esilio dei Pandavas, prima della battaglia, Arjuna ottiene da Shiva un’arma potente e letale, che potrà evocare in caso estremo. Quando Karna lo viene a sapere, si reca da un asceta divino che conosce lo stesso segreto, e si sottomette a lui diventandone il servitore. L’asceta – che in realtà è Parasurama, sesta incarnazione di Vishnu - non si fida mai completamente del misterioso giovane che è giunto al suo servizio, ma si compiace della sua devozione e gli fa finalmente dono della terribile arma. Lo yogi sospetta che il giovane sia uno kshatriya (cosa che realmente Karna è), cioè, nel sistema indiano delle caste, uno dei gradi più alti: al vertice stanno infatti ancora oggi bramini (sacerdoti) e kshatriya (guerrieri), poi gli altri, e infine all’ultimo grado gli intoccabili. L’asceta disprezza profondamente la casta guerriera, e non avrebbe mai accettato di avere per allievo uno di loro; Karna lo sa e per questo ha taciuto la sua appartenenza agli kshatriya.
“Ecco, - dice l’asceta scrivendo qualcosa su un pezzo di corteccia – questa è il mantra da recitare quando sarà il momento. Ma devi impararlo a memoria: già non esiste più.” E infatti dal pezzo di corteccia la scritta svanisce non appena Karna ha finito di leggerla.
Adesso lo yogi è stanco, e vuole dormire. Karna, umilmente, gli fa appoggiare la testa sulla propria gamba. Ma sbuca un serpente, che morde Karna in profondità e con morso doloroso; Karna non si muove, stringe i denti per non svegliare il suo maestro. Quando lo yogi si sveglia, vede il sangue, vede il dolore sul volto del giovane, ed esplode in un’ira terribile: « Solo uno kshatriya (un guerriero) poteva essere così stupido da non reagire al morso del serpente! Tu sei uno kshatriya, e quindi mi hai mentito.» Scaccia subito Karna, e gli lancia una maledizione: nel momento in cui avrà bisogno dell’arma terribile si dimenticherà del mantra che ha appena imparato.
E così succede. Nella grande battaglia finale, si incrociano i due carri: quello di Arjuna, con Krishna come guida, e quello di Karna. Krishna fa impantanare una ruota del carro di Karna, e così Karna è costretto a scendere e a cercare di rimuoverla. In quel preciso momento, una nube oscura il Sole; Karna si sente perduto e cerca di salvarsi recitando il terribile mantra, ma lo ha dimenticato.
Un furente Krishna spinge Arjuna, che esita, a scoccare la freccia; e la freccia colpisce il segno.
Solo dopo la morte di Karna, Kunti spiegherà ad Arjuna che erano fratelli; ma Karna già sapeva, eppure aveva continuato lo stesso a combattere. I Pandavas lo avevano respinto e umiliato, e Karna non poteva dimenticarlo.
Karna riceve funerali solenni, tutti i Pandavas, suoi fratelli, vi partecipano commossi. “Una morte degna del figlio di un carrettiere”, è il tragico e ironico commento di Krishna, che pure lo aveva sorretto al momento della sua morte.
Nel film di Peter Brook, Karna è interpretato in modo perfetto da Jeffrey Kissoon, nero di Trinidad. Sua madre Kunti è l’altrettanto perfetta Myriam Goldschmidt, anch’essa nera ma berlinese; Krishna è l’inglese Bruce Myers, Arjuna (da pronunciarsi con la j alla francese) è Vittorio Mezzogiorno. Una menzione particolare per Sotigui Kouyaté, nato a Bamako nel Mali nel 1936: già interprete di Bhishma, in questo episodio impersona anche lo yogi Parashurama. E’ un attore che avrei voluto vedere più spesso, ma forse Hollywood non si merita un interprete così grande.

venerdì 21 maggio 2010

Mahabharata: La partita a dadi

The Mahabharata (1989). Regia di Peter Brook. Dal poema indiano. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

Anche nel Mahabharata, come nell’Odissea, gli dèi passeggiano e vivono in mezzo a noi, come comuni mortali. Nel grande poema indiano è soprattutto Krishna a interpretare questo ruolo.
Krishna è l’ottavo avatar di Vishnu: cioè la sua ottava incarnazione su questa terra. E’ molto amato, si ricorre alla sua saggezza per consigli e sostegno, ed è temuto per la sua potenza; ma ha anche molti tratti in comune con Mercurio, o con il Loki della mitologia nordica: i trucchi, le astuzie, e perfino gli inganni sono parte integrante, e non secondaria, del suo agire. Nel Mahabharata si mostra come uomo, e come uomo agisce anche se tutti lo riconoscono come dio; si mostra in tutto il suo splendore una sola volta, quando è il re cieco Dhritarashtra a chiederglielo. Krishna ha un ruolo fondamentale, anche se marginale, in uno degli episodi più importanti del Mahabharata, che è anche uno dei momenti più sconcertanti per noi occidentali abituati alla razionalità: la scena della Partita a Dadi.
Nel palazzo del re Dhritarashtra sono cresciuti i due rami della famiglia: i cinque fratelli Pandavas, orfani di padre (era il fratello di Dhritarashtra, e re prima di lui) e i loro cugini, figli dell’attuale re. Su tutti governa l’autorità morale di Bhishma, il valoroso guerriero che avrebbe dovuto essere re ma ha ceduto il trono a causa di un complesso voto ascetico. Dhritharashtra è cieco: non avrebbe potuto essere re, ma il fratello Pandu è morto e lui ha dovuto prenderne il posto.
Tra i cugini nasce presto una grande rivalità, anche se condividono gli stessi maestri e la stessa educazione; e un giorno, quando essi sono ormai adulti, giunge alla reggia Shakuni, fratello della moglie di Dhritarashtra ed esperto giocatore d’azzardo. Shakuni propone all’impaziente nipote Duryodhana, il maggiore dei figli del re, un metodo per prendersi tutto il regno senza spargimento di sangue: si farà perno sulla passione per il gioco di Yudhìshtira, il maggiore dei cugini. Yudhishtira ama il gioco ma non sa giocare, e perderà tutto.
Il re cieco è molto perplesso; ma Shakuni gli dice: «Gli dei crearono il mondo come un gioco. Gli insetti oggi giocano con i fiori, le stelle intrecciano nel cielo i loro segreti motivi; perché devi sempre disapprovare il piacere?». La notizia della sfida arriva anche a Bhishma, che ha l’autorità per fermare questo gioco d’azzardo. Ma è proprio Krishna che chiede a Bhishma di lasciar giocare e di non interrompere mai il gioco, qualsiasi cosa succeda. Questo può significare la catastrofe, ma così bisogna fare. A volte, è necessario distruggere per salvare il dharma. Bhishma è molto preoccupato, ma acconsente.
Shakuni si presenta a Yudhishtira, prima di iniziare la partita; ma il giovane si aspettava di dover giocare con il cugino, ed è sorpreso:
- Shakùni, sarai tu a giocare?
- Sì, al posto di mio nipote.
- Tu passi la tua vita a giocare. C’è chi ti ha visto fare trucchi incredibili: ma tu sai che barare è un delitto.
- Il buon giocatore sa come giocare, e riflette con calma. Non pensa nemmeno a barare. Qui non c’è posto per il delitto ma per il gioco, solo per il gioco. Il giocatore esperto che affronta un esordiente secondo te bara? La sapienza non è truffa. Si inizia una partita con il desiderio di vincere, è come nella vita. Un maestro non verrà mai sopraffatto dalla tentazione di barare: ritirati dalla partita, se hai paura.
La partita inizia, e Yudhishtira perderà tutto: le sue terre, i suoi schiavi, le sue ricchezze, i suoi fratelli, se stesso, tutto. Alla fine, istigato da Shakuni, giocherà anche la moglie: perderà anche lei. Invano il re chiede a Bhishma di fermare la partita: fedele al giuramento fatto a Krishna, non può che assistere agli eventi senza intervenire.
Alla fine è Dràupadi, moglie di Yudhìshtira, a salvare almeno in parte la partita: “Mio marito mi ha persa prima di perdere se stesso, o dopo?”. Colpito dalla dignità di Dràupadi, anche dopo le gravi offese da lei ricevute, il re le concede di chiedere quello che vuole. Dràupadi otterrà per lei e per i cinque fratelli l’esilio invece della schiavitù; e per 12 anni i Pandavas dovranno stare lontani dal regno e vivere poveramente. E così succede; allo scadere dei 12 anni inizieranno i preparativi per la terribile battaglia di Kurukshetra, che vedrà opposte le due parti della stessa famiglia.
Nel film di Peter Brook, la scena della partita a dadi è una di quelle più impressionanti, resa con grande attenzione e sobrietà ma anche con notevole tensione. Lo zio Shakuni, che appare solo qui (ed è davvero una di quelle interpretazioni che rimangono nella memoria), è interpretato dall’attore turco Tuncel Kurtiz. Bruce Myers è Krishna, Sotigui Kouyaté è Bhishma, Riszard Cieslak è il re cieco, i due cugini rivali sono il polacco Andrzej Seweryn e il greco Georges Corraface, e Draupadi è impersonata da Mallika Sarabhai, unica indiana del cast.

giovedì 20 maggio 2010

Mahabharata: storia di Amba

The Mahabharata (1989). Regia di Peter Brook. Dal poema indiano. "Mahabharata" Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Montaggio: Nicholas Gaster Assistente regia: Marc Guilbert, Marie Hélène Estienne, Philippe Tourret Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy
Interpreti. Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti)Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni) Durata: 318 minuti

A Parigi, a metà anni ’80, in teatro, Peter Brook decise di mettere in scena una delle opere poetiche più grandi della storia dell’umanità: il Mahabharata. Si fece aiutare dallo scrittore Jean Claude Carrière, ed insieme misero mano ad una riduzione del grande poema indiano.
Quando si dice “grande”, riferito al Mahabharata, non è un modo di dire e nemmeno un’opinione: si tratta del più lungo poema epico conosciuto, diviso in 18 libri per un totale di 106.000 distici, corrispondenti a quindici volte la Bibbia, a sette volte e mezzo l'Iliade e l'Odissea messe insieme. Jean-Claude Carrière, che ha scritto la riduzione per il teatro e poi la sceneggiatura, ha detto che serve un anno solo per leggerlo. Il testo originale è in sanscrito e risale al quarto secolo dopo Cristo, ma è un testo che viene trasmesso per via orale da un tempo che si può soltanto immaginare. “Mahabharata” (l'accento tonico cade sulla terza a ) significa una apologia «grande» (maha) della nobile famiglia dei Bhàrata, da cui presero origine negli anni e nei secoli successivi le stirpi dei Kaurava e dei Pandava che, pur legati da stretti vincoli di sangue, si trovarono a guerreggiare ferocemente tra di loro. «Bharata» significa per estensione “hindu” e più generalmente “uomo”: dunque, Mahabharata è “la grande storia dell'umanità”. In India il «Mahabharata» è ovunque, come per noi la mitologia greca o romana, e ancora più popolare. Dodicimila pagine di epica e filosofia, che Brook riassume così: «E' un'epopea con eroi, dei, demoni ed animali favolosi, ma è anche un'opera intima: i personaggi, infatti, sono anche vulnerabili, pieni di contraddizioni, umani. Gli indiani ne parlano come se si trattasse di loro parenti che potrebbero suonare alla porta da un momento all'altro».
Lo spettacolo di Peter Brook andò in scena per la prima volta al Festival di Avignone, nel 1985, e durava nove ore: nove ore di teatro, divise in tre sere ma anche tutte di seguito. Si proseguì poi a Parigi; ha girato tutto il mondo ed è arrivato anche da noi, ma solo a Prato, in tre serate. Nel 1989 esce la versione filmata in due versioni, una di quasi sei ore che verrà trasmessa in tv e una ridotta a due ore e mezzo per il cinema. L’originale teatrale era in francese, la versione filmata è in inglese; il cast è internazionale, con attori di 16 paesi diversi. La versione completa è pubblicata su dvd dalla Dolmen Home Video.
Non si tratta di una ripresa dal teatro, ma di un lavoro diverso, fatto in studio e ripensato per il cinema a partire dall’allestimento teatrale, del quale conserva il cast intero (un cast internazionale, con attori provenienti da 16 nazioni di tutto il mondo), fatto di attori eccezionali ma quasi tutti poco noti. Il più famoso è forse Vittorio Mezzogiorno, che all’epoca era reduce dal grande successo internazionale della “Piovra”, e che ha uno dei ruoli principali. In un’intervista del 1989 Mezzogiorno raccontava il lavoro con Brook come esaltante ma anche molto impegnativo, sul piano fisico e non solo: « (...) è un lavoro improntato alla semplicità come punto di arrivo, all'essenzialità. Un giorno il regista si è presentato con una ruota: "Simboleggia un carro", ci ha detto. E ha aggiunto: “Se saremo bravi non avremo bisogno di altro, se non saremo bravi utilizzeremo carri dorati ed elefanti". »
La visione del film è dunque piuttosto impegnativa, ma il film è anche molto spettacolare, e ha attori favolosi dei quali ci si può solo innamorare. Viste le sue dimensioni, e viste le dimensioni di quello che c’è dietro, provo a raccontare il “Mahabharata” meglio che posso, una storia alla volta; e comincio da quella che più mi ha colpito. E’ una storia sulla reincarnazione, ed è una delle riflessioni più profonde che mi sia mai capitato di incontrare in proposito.
Storia di Amba e di BhishmaBhishma è un re guerriero, ma anche un filosofo e un uomo molto devoto. Si rivolge agli dèi, ed emette un voto solenne e molto complesso; gli dèi sono molto contenti di lui, e per questo suo voto Bhishma ottiene un dono che è molto vicino all’immortalità: potrà scegliere egli stesso il momento della sua morte. Ma del giuramento così complesso, con il quale si consacra agli dèi, fa parte anche il voto di castità: ne consegue che Bhishma non può più essere re, perché non potrà avere eredi. E così fa, lasciando il trono a suo fratello.
A questo punto entra in scena Amba: è una giovane che è stata vinta come sposa da Bhishma, in un torneo nel quale il valoroso guerriero ha combattuto. Amba supplica Bhishma di lasciarla andare: ha un fidanzato che ama e che la ama, e una famiglia che la riaccoglierà a braccia aperte. Bhishma la lascia andare, per via del suo voto di castità ma soprattutto perché il suo animo è buono e grande. Ma una brutta sorpresa attende Amba: il fidanzato la respinge, perché ormai (secondo il suo parere) è stata di un altro uomo; e il re suo padre la scaccia, perché in quella situazione (respinta due volte) non è più degna di stare a corte. Amba torna da Bhishma, che però le spiega che la accoglierebbe più che volentieri, ma il suo voto non glielo consente. Amba è colta da una terribile ira, e giura che ucciderà Bhishma per quel rifiuto, e che da quel momento solo a questa missione, che sa essere praticamente impossibile, sarà dedicata la sua vita.
Passano molte pagine del libro, e molti eventi succedono. Ritroveremo Amba sul campo della battaglia di Kurukshetra, nel finale. Si presenta a Bhishma, capo imbattibile di uno dei due eserciti, ed ha un aspetto terribile. E’ notte, e i due sono soli; Amba parla apertamente a Bhishma, e lo fa con estrema durezza; gli racconta le infinite prove che ha dovuto superare per poter essere degna di affrontarlo, e così conclude: « ..... Io sono morta, Bhishma. Sono morta e mi sono reincarnata in Sikhandin, un guerriero schierato con l’esercito di Arjuna; ora finalmente potrò ucciderti.»
Bhishma, colpito da quelle parole, chiama Krishna: poiché la battaglia non potrà mai terminare fino a quando Bhishma combatterà, egli comunica al dio che ha deciso che è giunto il momento della sua morte, così da porre fine alla carneficina che dilania i due rami della stessa sua famiglia. E pone una condizione: a scoccare la freccia che lo ucciderà deve essere un guerriero che si trova nelle loro fila, e che si chiama Sikhandin.
Ed ecco arrivare l’alba, e il momento fatidico: Sikhandin è davanti a Bhishma, che lo riconosce e si ferma, smette di combattere e lo guarda. Di fianco a Sikhandin, l’eroe Arjuna e il dio Krishna; Arjuna invita il giovane a scoccare la sua freccia, ma Sikhandin gli risponde che non può, non può uccidere quel vecchio così bello e così valoroso, dall’aspetto così saggio e dallo sguardo così benevolo nei suoi confronti. « Avanti, Amba! Che cosa aspetti? Scocca la tua freccia!» grida Bhishma. Sikandhin, pallido in volto, lascia cadere l’arco e arretra: « Perché mi chiami Amba? Io sono Sikhandin, l’arciere...»Allora Krishna ordina ad Arjuna di scoccare la freccia; è Krishna stesso a guidarla, invisibile, fino al petto di Bhishma. Il vecchio guerriero, duramente colpito, riconosce dal dolore atroce che la freccia non proviene da Sikhandin: cos’è questo inganno? L’inganno è stato ordito da Krishna, non è il primo e non sarà l’unico. La vita è una partita a dadi, e spesso i dadi sono truccati.
Ed è appunto da una partita a dadi che parte la storia che è al centro del Mahabharata.
(Bhishma è interpretato dal magnifico Sotigui Kouyate, nero africano , uno degli attori preferiti di Peter Brook in teatro; Amba è la francese Corinne Jaber. Krishna è l’inglese Bruce Myers, Arjuna è Vittorio Mezzogiorno.)