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E’ ancora possibile oggi fare un film sul pugilato? Ci ha provato Clint Eastwood di recente, e con successo, a girare una storia simile a quella di “Fat city”: ma per farlo ha dovuto mettere una giovane donna come protagonista, e riscrivere il film su di lei. Una ragazza protagonista: l’unico modo per dare interesse, almeno cinematografico, ad uno sport che un tempo fu la “noble art” e che oggi è decisamente fuori moda. I giovani, ormai da decenni, gli preferiscono le arti marziali; e il giro della grande boxe è stato rovinato da speculazioni demenziali (tre campioni del mondo per ogni categoria...) provocate dagli stessi addetti ai lavori, troppo attenti al denaro.
Eastwood è un grande ammiratore di John Huston, e gli ha dedicato uno dei suoi film più belli: “Cacciatore bianco, cuore nero” del 1991, dove interpreta di persona proprio il grande regista di “Fat city”. Con “Million dollar baby”, recentissimo successo, il vecchio Clint rende un altro omaggio ad uno dei più grandi narratori mai visti al cinema.
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Per esempio è bravissimo, perfino commovente, l’attore che interpreta Ruben Luna, l’allenatore proprietario della palestra: molto distante da tutti gli stereotipi sul pugilato, si vede subito che è una persona vera, troppo una brava persona per arrivare a guadagnare soldi e al successo; e troppo bravi, troppo onesti, sono i ragazzi della sua palestra. Il mondo è duro per chi è troppo buono e troppo onesto, e Huston ce lo ha raccontato tante volte, in maniera magistrale, a partire da “Il tesoro della Sierra Madre”.
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La sequenza finale, al bar davanti a un caffè (non ad una birra o ad un whiskey) e all’anziano barista, con Stacy Keach che dice che la vita è “come finire su un binario morto prima ancora di partire” è Beckett, è Amleto. Si può “passare la nottata” ma poi ti trovi vecchio senza accorgertene, come Hamm e Clov, come Pozzo e Lucky, come Estragone e Vladimiro; “trascinando la nostra vita nel nulla”.
Protagonista è Stacy Keach, che dopo questo film ebbe notevole successo e divenne perfino un “sex symbol”: in tv capita di vedere ancora la sua serie di “Mike Hammer” tratta dai gialli di Spillane, girata negli anni ‘80. Gli fa compagnia Jeff Bridges, giovanissimo: per i fans del “Grande Lebowski” sarà un piacere rivederlo. Terza protagonista è Susan Tyrrell, in una parte di quelle terribili e che non fanno vincere premi: imbruttita e sempre ubriaca, è comunque un’interpretazione notevolissima.
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Take the ribbon from your hair, Shake it loose and let it fall,
Lay it soft upon my skin. Like the shadows on the wall.
Come and lay down by my side till the early morning light
All I'm takin' is your time. Help me make it through the night.
I don't care what's right or wrong, I won't try to understand.
Let the devil take tomorrow Lord tonight I need a friend.
Yesterday is dead and gone and tomorrow's out of sight
And it's sad to be alone. Help me make it through the night.
I don't care what's right or wrong,I won't try to understand.
Let the devil take tomorrow Lord tonight I need a friend.
Yesterday is dead and gone and tomorrow's out of sight
And it's sad to be alone. Help me make it through the night.
I don't wanna be alone. Help me make it through the night.
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(...) Fat City, scritto da Leonard Gardner, ex-pugile e figlio di un pugile (...) fa, a tutte le latitudini, intorno a Huston l'unanimità dei critici, (...) È, intanto, il più documentaristico dei suoi film di fiction. È difficile immaginare un romanzo a monte di questo film, che sembra filmato in presa diretta sulla realtà di Stockton City, California: albergucci sordidi, tetri bar, palestre maleodoranti, strade anonime, squallidi mercati di braccianti; persino il sole è senza gloria né gioia sulle vaste coltivazioni di pomodori e cipolle della San Joaquin Valley. Dopo avere scelto attori ancora poco noti per le parti principali (ma aveva pensato a Brando per la parte di Tulby che toccò a Stacy Keach), Huston affida la maggior parte dei ruoli secondari ad abitanti di Stockton e a gente dell'ambiente pugilistico. Lo si potrebbe chiamare un film neorealistico, aggiornato attraverso i modi decontratti del giovane cinema degli anni '60, ma con un taglio più libero (...) Nel raccontare un mondo che conosce bene, per averlo frequentato ai tempi dell'università, quello della piccola boxe, composto soprattutto di perdenti, spinti dalla speranza di uscirne, mentre sono condannati alla routine di incontri spesso truccati in ambienti squallidi, Huston fa qualcosa di più e di diverso da un film sul pugilato: una metafora sul versante buio dell'esistenza che ha per sfondo il risvolto desolato dell'America opulenta (“Città grassa” non è soltanto un titolo ironico per antifrasi, ma un'espressione di gergo, diffusa tra la gente della boxe e del jazz: come dire il paradiso in terra, dunque inaccessibile, un'illusione). Fat City è una parabola sulla vita come lotta per la sopravvivenza (...)
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Non c'è denuncia sociale in Fat City. Lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo è suggerito come un dato esistenziale. Non c'è, però, nemmeno vagheggiamento crepuscolare del fallimento come categoria dello spirito. Il cupo chiaroscuro della fotografia di Conrad Hall riesce ad evitare di misura il miserabilismo e l'espressionismo. Quando va in esterni - registrando i grigi, i rosa, i blu dell'opaca Stockton City - li cala in una luce livida da primo mattino. Triste film ma lucido che lascia nello spettatore un appagamento consolatore, quello che deriva dal fare esperienza delle cose per quello che sono. (...)
Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”.
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