Fat City (Città amara, 1972) Regia: John Huston; sceneggiatura: Leonard Gardner (dal romanzo dello stesso autore); fotografia (Eastmancolor): Conrad Hall; scenografia: Richard Sylbert; arredamento: Morris Hoffman; effetti speciali: Paul Stewart; supervisione musicale: Marvin Hamlisch (canzone Help Me Make it Through the Night di Kris Kristofferson, cantata dallo stesso); montaggio: Margaret Booth; interpreti: Stacy Keach (Billy Tulby), Jeff Bridges (Ernie Munger), Susan Tyrrel (Oma), Candy Clark (Faye), Nicholas Colasanto (Ruben), Art Aragon (Babe), Curtis Cokes (Earl), Sixto Rodriguez (Lucero), Billy Walker (Wes), Wayne Mahan (Bufford), Ruben Navarro (Fuentes); produzione: Ray Stark per la Rastar; distribuzione: Columbia; origine: USA; durata: 96'.
E’ ancora possibile oggi fare un film sul pugilato? Ci ha provato Clint Eastwood di recente, e con successo, a girare una storia simile a quella di “Fat city”: ma per farlo ha dovuto mettere una giovane donna come protagonista, e riscrivere il film su di lei. Una ragazza protagonista: l’unico modo per dare interesse, almeno cinematografico, ad uno sport che un tempo fu la “noble art” e che oggi è decisamente fuori moda. I giovani, ormai da decenni, gli preferiscono le arti marziali; e il giro della grande boxe è stato rovinato da speculazioni demenziali (tre campioni del mondo per ogni categoria...) provocate dagli stessi addetti ai lavori, troppo attenti al denaro.
Eastwood è un grande ammiratore di John Huston, e gli ha dedicato uno dei suoi film più belli: “Cacciatore bianco, cuore nero” del 1991, dove interpreta di persona proprio il grande regista di “Fat city”. Con “Million dollar baby”, recentissimo successo, il vecchio Clint rende un altro omaggio ad uno dei più grandi narratori mai visti al cinema.
Si tratta di un film molto bello ma anche molto intimo, appartato, poco spettacolare. Le sequenze della boxe vera e propria sono molte e molto ben fatte, e a tratti fanno pensare perfino al documentario, ma sono tutte girate in studio con attori. In questo il lavoro di Huston è stato fondamentale, ma non è certo una novità: tutti gli attori e le attrici danno il loro meglio se ben guidati, e con Huston capita sempre. Magari il film non riesce benissimo, ma in un film di Huston gli attori non si dimenticano mai, nemmeno quelli delle parti di fianco; e ci si stupisce sempre quando li si ritrova in film di altri registi e capita quasi di non riconoscerli.
Per esempio è bravissimo, perfino commovente, l’attore che interpreta Ruben Luna, l’allenatore proprietario della palestra: molto distante da tutti gli stereotipi sul pugilato, si vede subito che è una persona vera, troppo una brava persona per arrivare a guadagnare soldi e al successo; e troppo bravi, troppo onesti, sono i ragazzi della sua palestra. Il mondo è duro per chi è troppo buono e troppo onesto, e Huston ce lo ha raccontato tante volte, in maniera magistrale, a partire da “Il tesoro della Sierra Madre”.
L’altro tema importante di “Fat city” è l’alcolismo, piaga ricorrente di tanti altri film di Huston: da “Gli spostati” (1959, con Clark Gable e Marilyn Monroe) a “Riflessi in un occhio d’oro” (1967, con Liz Taylor e Marlon Brando) a “Sotto il vulcano” (1983, con Albert Finney). Un alcolismo devastante: tutti i personaggi di “Fat city” sono, in fin dei conti, ottime persone – ma la loro rovina è l’alcol. Solo il personaggio più giovane, interpretato da Jeff Bridges (che qui dice di avere 18 anni) riesce a starne fuori e mantiene, almeno per ora, una vita dignitosa e accettabile, in compagnia di una moglie giovane e gentile e di un figlio. I volti, giovani e devastati, degli altri attori-pugili (tutti bravissimi) sono eloquenti.
La sequenza finale, al bar davanti a un caffè (non ad una birra o ad un whiskey) e all’anziano barista, con Stacy Keach che dice che la vita è “come finire su un binario morto prima ancora di partire” è Beckett, è Amleto. Si può “passare la nottata” ma poi ti trovi vecchio senza accorgertene, come Hamm e Clov, come Pozzo e Lucky, come Estragone e Vladimiro; “trascinando la nostra vita nel nulla”.
Protagonista è Stacy Keach, che dopo questo film ebbe notevole successo e divenne perfino un “sex symbol”: in tv capita di vedere ancora la sua serie di “Mike Hammer” tratta dai gialli di Spillane, girata negli anni ‘80. Gli fa compagnia Jeff Bridges, giovanissimo: per i fans del “Grande Lebowski” sarà un piacere rivederlo. Terza protagonista è Susan Tyrrell, in una parte di quelle terribili e che non fanno vincere premi: imbruttita e sempre ubriaca, è comunque un’interpretazione notevolissima.
Molto importante è il tema conduttore del film, la canzone “Help me make it through the night” di Kris Kristofferson (un cantante che poi sarà attore, anche in ruoli importanti, in molti altri film). Questa canzone, oltre ad essere piacevole e ad avere una melodia perfetta per il film, ha anche un testo che è un vero commento a tutta la storia: “aiutami a passare la notte”. Un invito, una richiesta, a passare la notte insieme, a non stare da soli: e poi “che il domani se ne vada al diavolo”. Il protagonista di “Fat city” trova una compagna, ma è anche lei alcolizzata. Una realtà che esiste anche da noi: qui nel 2010, in Italia, le statistiche sull’abuso di alcol e droghe, soprattutto da parte dei giovanissimi (donne comprese) sono una realtà spaventosa alla quale preferiamo non pensare.
Take the ribbon from your hair, Shake it loose and let it fall,
Lay it soft upon my skin. Like the shadows on the wall.
Come and lay down by my side till the early morning light
All I'm takin' is your time. Help me make it through the night.
I don't care what's right or wrong, I won't try to understand.
Let the devil take tomorrow Lord tonight I need a friend.
Yesterday is dead and gone and tomorrow's out of sight
And it's sad to be alone. Help me make it through the night.
I don't care what's right or wrong,I won't try to understand.
Let the devil take tomorrow Lord tonight I need a friend.
Yesterday is dead and gone and tomorrow's out of sight
And it's sad to be alone. Help me make it through the night.
I don't wanna be alone. Help me make it through the night.
Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”.
(...) Fat City, scritto da Leonard Gardner, ex-pugile e figlio di un pugile (...) fa, a tutte le latitudini, intorno a Huston l'unanimità dei critici, (...) È, intanto, il più documentaristico dei suoi film di fiction. È difficile immaginare un romanzo a monte di questo film, che sembra filmato in presa diretta sulla realtà di Stockton City, California: albergucci sordidi, tetri bar, palestre maleodoranti, strade anonime, squallidi mercati di braccianti; persino il sole è senza gloria né gioia sulle vaste coltivazioni di pomodori e cipolle della San Joaquin Valley. Dopo avere scelto attori ancora poco noti per le parti principali (ma aveva pensato a Brando per la parte di Tulby che toccò a Stacy Keach), Huston affida la maggior parte dei ruoli secondari ad abitanti di Stockton e a gente dell'ambiente pugilistico. Lo si potrebbe chiamare un film neorealistico, aggiornato attraverso i modi decontratti del giovane cinema degli anni '60, ma con un taglio più libero (...) Nel raccontare un mondo che conosce bene, per averlo frequentato ai tempi dell'università, quello della piccola boxe, composto soprattutto di perdenti, spinti dalla speranza di uscirne, mentre sono condannati alla routine di incontri spesso truccati in ambienti squallidi, Huston fa qualcosa di più e di diverso da un film sul pugilato: una metafora sul versante buio dell'esistenza che ha per sfondo il risvolto desolato dell'America opulenta (“Città grassa” non è soltanto un titolo ironico per antifrasi, ma un'espressione di gergo, diffusa tra la gente della boxe e del jazz: come dire il paradiso in terra, dunque inaccessibile, un'illusione). Fat City è una parabola sulla vita come lotta per la sopravvivenza (...)
(...) Hanno detto che Fat City dà l'impressione di essere il primo vero film sulla boxe che sia mai stato girato e che gli può essere messo vicino soltanto “Stasera ho vinto anch'io” (1949) che affrontava il mondo del pugilato dalla parte dei perdenti, di quel che potremmo chiamare il proletariato del ring. A nostro avviso, due ragioni fanno la superiorità di Fat City sul film di Wise. Sorretto da una prosa asciutta il cui lirismo non esclude i momenti di umor sardonico, ma scansa il pittoresco e rimanda alle fotografie di Paul Strand e ai quadri di Ben Shahn, Fat City ha la struttura di un racconto più che di una novella nel senso che non possiede una struttura narrativa chiusa come “Stasera ho vinto anch'io”: narra l'incontro e l'amicizia tra due pugili - l'uno al tramonto, l'altro all'esordio - sullo sfondo di una cittadina americana qualsiasi. Non succede nulla di particolarmente drammatico nel tempo dell'azione oppure, se succede, non viene mostrato direttamente: sono soltanto le traiettorie di due uomini che s'incrociano. In “Stasera ho vinto anch'io” la coincidenza tra tempo reale e tempo cinematografico (l'azione è condensata in novanta minuti) è un espediente, sia pur assai efficace; il film non si sottrae a quella drammatizzazione sentimentale e a quello schematismo sociologico che erano le componenti quasi inevitabili del miglior cinema americano di quel periodo. In Fat City, invece, non c'è nulla che s'appelli alla pietà dello spettatore. Soltanto un personaggio minore - memorabile, d'altronde, per il modo con cui entra ed esce dal film - può toccare le corde della commozione: quello ieratico di Lucero (Sixto Rodriguez), il pugile messicano. Anche nel disegno di Lucero, comunque, il tratto è secco, senza sbavature. Huston conferma la sua vecchia bravura nella costruzione dei personaggi, soprattutto minori: lo sguardo è sempre lucido anche quando è grande la tenerezza. Persino quella noiosa ciarlona e ubriacona di Oma è guardata con tenerezza. Come Keach e Bridges, Susan Tyrrell è bravissima nel far dimenticare che è un'attrice.
Non c'è denuncia sociale in Fat City. Lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo è suggerito come un dato esistenziale. Non c'è, però, nemmeno vagheggiamento crepuscolare del fallimento come categoria dello spirito. Il cupo chiaroscuro della fotografia di Conrad Hall riesce ad evitare di misura il miserabilismo e l'espressionismo. Quando va in esterni - registrando i grigi, i rosa, i blu dell'opaca Stockton City - li cala in una luce livida da primo mattino. Triste film ma lucido che lascia nello spettatore un appagamento consolatore, quello che deriva dal fare esperienza delle cose per quello che sono. (...)
Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”.
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