lunedì 30 novembre 2009

Alice nelle città


Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973). Regia di Wim Wenders (1973) Sceneggiatura: Wim Wenders con la collaborazione di Veit von Fúrstenberg - operatore: Robert Müller - montaggio: Peter Przygodda - suono: Martin Müller- musica: The Can, con brani dei Canned Heat, Rolling Stones, e Chuck Berry live in concert - interpreti: Rüdiger Vogler, Yella Rottländer, Lisa Kreuzer. Edda Köchl, Didi Petrikat, Enst Boehm, Hans Hirschmuller - produzione: P 1 im Filmverlag der Autoren e WDR - 16 mm., B/N, 110 min.

«Durante la lavorazione di “La lettera scarlatta” ebbi modo di girare una breve scena tra Rüdiger Vogler e la piccola Yella Rottländer. E’ stato un momento molto bello, in cui mi sono detto: “resisti, perché se il cinema è come questo giorno di riprese, può dare anche molta gioia.”» (Wim Wenders, da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo”, UbuLibri 1989)
Una giovane donna lascia sua figlia nelle mani di uno sconosciuto, all’aeroporto. E’ una cosa che fa un po’ impressione, ma poi si pensa che è un film, e nei film queste cose succedono. E, soprattutto, lo sconosciuto è Rüdiger Vogler: è vero che sembra un po’ un barbone, sicuramente è un capellone e forse ha un po’ fumato, ma si capisce subito che è buono come il pane e che uno così la bambina potrà solo viziarla, e coccolarsela un po’ senza darlo troppo a vedere. E poi Alice, la bambina, è bella tosta; i due insieme fanno una bella coppia.
I tedeschi hanno spesso dei nomi difficili: se Rüdiger Vogler vi suona ostico, sappiate che la bambina (sette anni ) si chiama Yella Rottländer. Rüdiger Vogler è un classico, per i film di Wenders. Quando c’è da bighellonare, quando Wenders è di buon umore e ha del tempo da perdere, quando vuole girare un film rilassandosi, sceglie Vogler come protagonista. Lo fa, per esempio, in “Nel corso del tempo” (forse il suo film più bello) e lo farà vent’anni dopo in “Lisbon Story”, con Vogler ormai spelacchiato e invecchiato ma sempre simpatico e sempre un po’ sbiellato come all’inizio.
E’ un film di viaggio, e l’episodio della madre che abbandona la figlia è solo un espediente narrativo per mettere insieme questa bella coppia adulto-bambina, che in parte si rivedrà in “Paris Texas” (ma lì si tratta di un padre e di un figlio). Con il pretesto di riportare a casa la bambina, che non si ricorda nemmeno il nome della città (o forse fa finta, perché quel papà improvvisato le piace un mondo), anche noi giriamo la Germania, un po’ in treno e un po’ in macchina.
E’ uno dei capolavori di Wenders, dove le immagini (e i volti, e le situazioni) prendono il sopravvento sulla storia, e dove il saper vedere è fondamentale. A questo punto confesso che da ragazzo, sui sedici anni, avevo fantasticato sull’idea di imparare a fare film, perché mi sembrava di avere delle cose da dire; ma poi mi sono reso conto, guardando “Nel corso del tempo” e poi gli altri film del regista tedesco, che Wenders esprimeva esattamente quello che io avrei voluto dire, e in modo molto migliore di quello che avrei mai saputo fare io. E’ da trent’anni che, con ricorrenza quasi periodica, ogni tanto passo delle settimane a rivedere i film di Wenders; e gliene sono sempre grato, anche se – a dire il vero – il grande regista da un po’ di tempo in qua ha tirato i remi in barca, e i suoi ultimissimi film non sono più belli come i primi.
“Alice nelle città” l’ho visto tardi, ma è diventato subito uno dei miei preferiti; il suo bianco e nero oggi appare un po’ liso e consumato dal tempo, ma ci si fa subito l’abitudine e mi piace sempre come la prima volta. E per il protagonista provo anche un po’ d’invidia, perché una figlia – e soprattutto una bambina così -l’avrei voluta avere anch’io e invece non è mai arrivata.
Una delle curiosità di questo film è vedere il protagonista che fa una montagna di foto con una macchina Polaroid a sviluppo immediato, un modello che nel 1973 era appena uscito. “Fai tante foto perché non sai chi sei, e alle volte dubiti persino di esistere – dice un’ex fidanzata al protagonista, all’inizio del film – Le foto ti servono per convincerti che sei stato in quel posto, e che c’eri davvero.”. Una considerazione molto dura: sta di fatto che, da quando incontra la bambina, il nostro eroe smette di fare foto e la macchina fotografica scompare dal film: sarà proprio Alice a farglielo notare.
“Polaroid über alles”, verrebbe da dire: e chissà cosa ne pensano i sedicenni di oggi, davanti a una simile ferraglia, ma allora era una novità ed era giusto giocarci. Wenders ha sempre avuto questo gusto di mettere le novità tecnologiche nei suoi film, e il risultato è che oggi sono le parti più invecchiate. Rivedere “The end of violence” (Crimini invisibili, 1997) o “Fino alla fine del mondo” (1991) oggi dà una strana idea di antiquariato che all’epoca della loro uscita non c’era, anzi tutti i recensori facevano la gara a dire come è moderno questo Wenders, come è avveniristico. Ma il progresso tecnologico si è mosso così veloce che i gadgets modernissimi del 1997 oggi danno solo la misura del tempo che è passato.
Il film contiene anche tre invettive potentissime contro la pubblicità che interrompe film e canzoni: siamo nei primi anni ’70, in America era normale ma da noi Mr. Spot non era ancora arrivato.
Le musiche sono dei Can, uno dei gruppi tedeschi (con i Popol Vuh, che lavoravano con Werner Herzog, e i Kraftwerk, i Tangerine Dream e molti altri) famosi nei primi anni ’70. Sono musiche delicate, molto piacevoli ed evocative, che ci accompagnano per tutto il film. Ma Wenders mette sempre molto rock nelle sue colonne sonore: qui ci sono due classici ancora oggi famosissimi come “Smoke on the water” e “I’m on the road again”, e, come bonus, un Chuck Berry live in Wuppertal: una notizia che farà piacere agli appassionati del vecchio rocker.

domenica 29 novembre 2009

Piovono pietre


Piovono pietre (Raining stones, 1993). Regia di Ken Loach. Scritto da Jim Allen. Fotografia: Barry Ackroyd Musica: Stewart Copeland. Con Bruce Jones, Ricky Tomlinson, Julie Brown, Gemma Phoenix (la bambina), Tom Hickey (il prete), Mike Fallon, e altri. Durata: 90 minuti.
L’usura è uno dei nostri grandi mali nascosti. E’ come un fiume carsico, lavora sottoterra: ma quando esce in superficie, quando ci accorgiamo che esiste, sono quasi sempre tragedie. Se ne parla per un po’, si seppelliscono gli eventuali morti, poi tutto torna come prima. Per mia fortuna, non ci sono mai capitato in mezzo; ma ho ascoltato storie spaventose in proposito, e in cronaca le notizie riguardo all’usura non mancano mai: basta aspettare. Di solito, con poco spazio; infilate in mezzo ad altre notizie, magari un trafiletto quasi invisibile.
E, nel frattempo, le nostre televisioni sono piene di spot allegri e affettuosi che ti gridano a chiare lettere che non importa se non hai soldi, i soldi te li diamo noi: spot anche di banche importanti, mica solo piccole finanziare con l’accento sull’ultima sillaba (si sa che le parole con l’accento sull’ultima sillaba ispirano simpatia, e poi serve un bel jingle musicale che aiuta sempre).

Il soggetto principale di “Piovono pietre” è l’usura. Il protagonista, Bob, non è uno sprovveduto e non si fa prestare soldi da un usuraio: va da una Finanziaria, gente seria. Sarà poi la Finanziaria, che non si fida della capacità di Bob di reperire soldi, a passare tutto a un usuraio molto violento, che gli piomba in casa e spaventa a morte sua figlia e sua moglie, e gli spacca mezza casa. Di tutto questo, Bob non sapeva nulla: era ancora convinto di dovere dei soldi a un’impresa commerciale, non a dei camorristi. La sorpresa, la disperazione, la rabbia, sono enormi; e la tensione diventa così alta che Loach è costretto a dare un lieto fine al film. E’ un lieto fine molto intelligente, che dà da pensare ancora di più di un finale “tradizionale”: ma di questo è meglio parlare più avanti.
Il secondo tema di “Piovono pietre” è il rapporto con la religione. Bob è cattolico (cattolico in Inghilterra), e sua figlia deve fare la Prima Comunione. E’ d’usanza, come nei nostri paesi del Sud, che la bambina abbia un vestito da principessa, e che ci sia un ricevimento fastoso: tutte cose che costano. Il prete è una persona di buon senso e sconsiglia Bob: la parrocchia presta volentieri gli abiti per la Prima Comunione, alcuni sono molto belli; e il ricevimento lo si può fare in parrocchia, in comune, insieme alle altre bambine e ai loro parenti. Ma Bob non ne vuole sapere: deve essere una festa, qualcosa da ricordare e da tenere dentro per sempre. La sua bambina avrà quello che hanno anche le altre bambine più ricche, costi quel che costi. E’ così che Bob si mette nei guai: all’inizio facendo piccoli lavori nelle case (è un bravo idraulico).poi accettando un incarico come buttafuori in un locale alla moda (è lì che scoprirà che l’unica figlia del suo migliore amico si guadagna da vivere spacciando droga e prostituendosi).

Hanno un ruolo importante nel film anche la moglie e la figlia di Bob: Ken Loach non è uno che trascura i suoi personaggi. Messi insieme, i tre attori sembrano davvero una famiglia; e il film sembra quasi un documentario, un ricordo d’infanzia, qualcosa che abbiamo vissuto tutti (tutti quelli che non sono nati figli di padre ricco, s’intende). In particolare, mi ha colpito la bambina, che è una bambina vera e non una delle tante scimmiette più o meno ammaestrate che vediamo tra cinema e tv; ed è cronaca quotidiana l’episodio della moglie di Bob che vorrebbe riprendere a lavorare ma anche per le cose più piccole le dicono “torna quando avrai imparato”. La donna comincia a cucire davanti al “datore di lavoro”, ma quello la ferma subito: “Guarda quanto tessuto che mi hai fatto sprecare! No, così non va: torna quando avrai imparato a cucire!” (tutto questo per dieci centimetri di stoffa).
Ed è un bel personaggio anche la figlia dell’amico di Bob (interpretato dal buffo Ricky Tomlinson, già presente in “Riff Raff”), che dà i soldi al padre disoccupato e gli fa un regalo. Il padre non vorrebbe, la madre insiste perché accetti: in fin dei conti, è un regalo di sua figlia. Un bel quadretto familiare: la ragazza dice in casa che fa la rappresentante di profumi, ma la realtà è un’altra. Quando Bob per caso la scopre, e credendo di difenderla arriva a fare cazzotti con i suoi clienti, la ragazza diventa una belva: perché teme che il casino che le ha combinato le possa far perdere il giro. Anche questo fa parte della realtà che ci circonda, e che facciamo finta di non vedere.
L’inizio è comico e grottesco, Bob si fa convincere dall’amico buffo, disoccupato come lui (un bel ringraziamento alla signora Margaret Thatcher: erano due bravi operai, d’improvviso si sono trovati fra gli “esuberi” e non sono più riusciti a risalire la china) a rubare una pecora in campagna; poi mentre cercano di piazzare la pecora gli rubano il furgone, unica sua fonte di sostentamento. Quando comincia il film, siamo in aperta campagna ed è difficile raccapezzarsi; poi, una volta presa la pecora, siamo subito in città, e incomincia la storia vera e propria.
Bob ha un parente che lavora al sindacato, che si chiama Jimmy. Jimmy è la prima persona a cui si rivolge per cercare un lavoro, ma i tempi sono molto duri, anche il sindacato non può farci molto.
Questo è un dialogo che avviene fra di loro, nella prima parte del film:
- Mi ci sono messo io in questo casino, e ne uscirò da solo.
- Non con l’aiuto della chiesa, però.
- Che c’entra la chiesa?
- Tu cerchi risposte che non esistono. Le risposte fanno già parte del problema.
- Senti, tu la vedi in un modo e io in un altro. Chiaro?
- No, tu hai fede ma cinque avemarie non ti aiutano a risolvere il problema. Tutte queste cazzate religiose stancano solo il cervello, e non pensi più con la tua testa.
- Senti Jimmy, l’ultima cosa che mi serve in questo momento è un comizio.
- O una predica... Tu hai bisogno di un lavoro, e il lavoro non c’è.
- Che scoperta! Hai detto una cosa nuova.
- Sulla classe operaia piovono pietre sette giorni alla settimana...
- E piovono tutte addosso a me!
- Non solo addosso a te, Bob. Ti porti dietro questo senso di colpa, ed è quello che vogliono loro per distruggerti. So che non ti fermi davanti a niente pur di lavorare.
- Questo però non mi ha aiutato molto.
- Il sistema non lo abbiamo inventato noi, ma sta a noi cambiarlo.
Vengono interrotti da rumori all’esterno: un ragazzo e una ragazza stanno litigando, nel piazzale. Con loro altri ragazzi e ragazze, giovanissimi. Si intuisce che la discussione è nata da qualcosa di poco chiaro, di illegale.
Bob: Cosa fanno?
Jimmy: Stanno litigando.
Bob: Lei avrà sì e no 15 anni...
Jimmy: Se ci arriva.
Bob: Che possibilità possono avere quei due?
Jimmy: Sono prossimi al carcere. Per molti di loro il futuro è già segnato. Non hanno lavoro, non hanno sogni. Sono disperati, tutto quello che gli resta è la delinquenza, l’alcool, la droga. La famiglia non esiste più. (...) Ma noi siamo come dei cani, che si azzannano tra di loro invece di unire e di moltiplicare le nostre forze per aiutarci l’un l’altro. Solo facendo questo potremo riuscire a combinare qualcosa. Il resto, è propaganda.
Al sindacalista Jimmy fa da contraltare il prete, con il quale Bob (che è un cattolico molto osservante) va a confidarsi due volte nel corso del film, in due momenti importanti. E’ un bel prete, quello che tutti sogneremmo di trovare in canonica, pronto ad ascoltare, maturo, sereno e deciso. Lo vediamo all’inizio, quando Bob va a fare un lavoro sporco in canonica e, come è ovvio, si sporca: anche questa è vita, se non ci fossero quelli che spurgano i pozzi neri e i tombini otturati la nostra vita sarebbe senza dubbio peggiore, e Loach fa bene a ricordarcelo. Per Bob, questo è un buon lavoro, e si adatta a farlo. Il prete ricorda a Bob che non è il vestito che conta nella Prima Comunione, ma Bob ha la testa dura.
Il finale non lo racconto, nel caso che vi capitasse di vedere il film: perché Loach è un ottimo narratore, svelare come va a finire “Piovono pietre” , anche dopo tutti questi anni, sarebbe un dispetto – un po’ come svelare il finale di un thriller.
Basterà dire che alla fine, quando l’irreparabile è ormai successo, Bob si rivolge proprio al prete; e il prete darà a Bob il consiglio che uscirebbe dal cuore a tutti noi, e che si rivelerà perfetto; e lo si vorrebbe abbracciare ma non si può, questo prete è solo il personaggio di un film. La realtà purtroppo è molto spesso diversa.
Il film finisce come tutti vorremmo che finisse, e per questa volta, non può andare diversamente: troppo dura la verità, meglio rifugiarsi nei sogni altrimenti il film sarebbe impossibile da reggere. Impossibile da reggere, proprio come la realtà che ci circonda e che preferiamo far finta che non esista: anch’io, lo ammetto, salto volentieri le pagine di cronaca dei giornali che parlano di queste cose – ho la fortuna di non avere figli, posso farlo.

venerdì 27 novembre 2009

Il medico dei bambini


La ballata di Stroszek (Stroszek, 1976). Scritto e diretto da Werner Herzog. Fotografia di Thomas Mauch. Scenografie di Henning von Gierke. Musica di Chet Atkins, Tom Paxton, Sonny Terry. Girato a Berlino, a Monaco di Baviera, a Plainfield (Wisconsin), a Cherokee (North Carolina), a New York. Con Bruno S. (Stroszek); Clemens Scheitz (Herr Scheitz); Eva Mattes (Eva); Wilhelm von Homburg, Burkhard Driest, Pitt Bedewitz (i tre ruffiani); Clayton Szlapinski (meccanico del Wisconsin); Ely Rodriguez (aiuto meccanico); Alfred Edel (direttore del carcere); Scott McKain (impiegato dell’immobiliare); Ralph Wade (banditore d’asta); Dottor Vaclav Vojta (il dottore); Michael Gahr, Yücsel Topcügurler (i due carcerati); Bob Evans (cliente al ristorante nel North Carolina); Der Brave Beo (il merlo indiano). Durata: 108 minuti.

Una delle scene più belle di tutta la storia del cinema è quella, molto breve, che si trova a metà esatta del film “La ballata di Stroszek” di Werner Herzog. E’ una scena molto dolce e molto forte, e ad interpretarla non è un attore, ma un medico vero. E poi c’è un bambino piccolissimo, ma lui non sta recitando.
All’inizio del film, avevamo visto il protagonista (interpretato da Bruno S.) mentre usciva dal carcere: ma sappiamo che non è un delinquente, non ha mai commesso nulla di veramente grave, e a questo punto del film abbiamo imparato a conoscerlo. Stroszek è un uomo piccolo e buono, con un leggero ritardo mentale che lo rende inadeguato alla durezza e alla violenza del mondo, ed è per questo stretto parente dell’ “Idiota” di Dostoevskij, il principe Myskin. L’unico suo problema, quello che lo ha portato in carcere, è il vizio del bere: e Stroszek promette solennemente di fare attenzione, d’ora in avanti.
La vita sembra aprire una nuova strada a Stroszek: che ha una casa, un ottimo amico nella persona del suo vicino di casa, e adesso anche una compagna di vita. Tutto sembra andare per il meglio, ma la violenza esterna irrompe ancora una volta nella sua vita, e adesso Stroszek è disperato. E’ a questo punto che lo vediamo a colloquio con il Dottore: che lavora in ospedale, ma è anche il medico del carcere. E’ lì che ha conosciuto Stroszek, e lo ha preso in simpatia.
Del film per intero ho già parlato (il post è qui in archivio), oggi riporto quello che viene detto in questa scena, con alcune immagini. Il messaggio è molto positivo, e Stroszek ne trarrà la forza per dare una svolta alla sua vita. Il finale del film sembra contraddire questo messaggio, ma la vita è fatta anche di queste cose.
Aggiungo solo che questa è solo la trascrizione di un dialogo, qui mancano del tutto gli sguardi, la recitazione, e soprattutto i silenzi di Herzog, le sue pause. Il cinema di Herzog è un cinema dell’immagine, più che della parola; quello che riporto è ovviamente da intendersi solo come un invito ad andare a vedere (o rivedere) la sequenza così come è stata girata.
Questo è il dialogo italiano. Nell’originale, il Dottore dà del voi a Bruno, secondo l’uso tedesco: sarebbe quindi stato più giusto tradurre dando del lei, ma così il dialogo funziona sicuramente meglio. Il Dottore si chiama Vaclav Vojta, viene da un Paese dell’Est e parla in tedesco con accento céco; e alla fine, dato che siamo in Germania, dice “Cancelliere” e non “Presidente della Repubblica”.
Il Dottore: Bruno, non lasciarti andare così: non è da te, ti rimetterai presto. Puoi tornare da me ogni volta che vuoi, anche di notte se è necessario; e ricordati che il martedì e il giovedì puoi trovarmi all’infermeria del carcere, come al solito. (pausa) La tua ragazza se ne è andata via, è tornata con loro; e dunque si è rimessa nel giro. Tu hai detto che non puoi impedirglielo... Stai a sentire: tu sei stato in un istituto o in carcere per molti anni, non sei come tutti gli altri, hai imparato a subire, ti sei indebolito. Io penso che tu abbia bisogno di un lavoro fisso, andare in giro a cantare per i cortili non è certo la soluzione migliore. (pausa) Vedi, Bruno, il mondo andrebbe molto meglio se potessimo... L’uomo sarebbe molto più avanti se fosse possibile dare una risposta a tutte le nostre domande. Ci sono molti perché senza risposta. Anche nel mio lavoro ci sono punti oscuri che non capisco, e molte cose che non so spiegare. Ci sono tante cose che non conosco e che mi lasciano sconcertato. Sappiamo così poco di noi uomini... (pausa)
- Vieni con me nel reparto prematuri, voglio farti vedere una cosa.
(al reparto prematuri, sequenza col bambino)
- Vedi Bruno, noi medici abbiamo parecchi problemi che non riusciamo a risolvere, interrogativi ai quali non sappiamo rispondere. Questo bambino è nato prematuro, ma guarda: guarda come è forte. Ha già l’istinto di aggrapparsi. (pausa) Chi può dirlo? Forse un giorno questo bambino potrebbe diventare Presidente della Repubblica... (lo porta a sè, lo bacia; il bambino smette di piangere e si addormenta fra le mani del Dottore.)

martedì 24 novembre 2009

Alice tra Carroll e Disney (I)


- Alice in Wonderland / Through the Looking Glass, libri di Lewis Carroll. (1865 e 1872)
- Alice in Wonderland, film Disney (1951). Dai libri di Lewis Carroll Regia di Clyde Geronimi, Hamilton Luske, Wilfried Jackson. Musiche originali di Oliver Wallace, Bob Hilliard, Sammy Fain (Durata: 75 minuti)
Tutto iniziò il 4 luglio 1862, quando Lewis Carroll, nel corso di una gita in barca sul fiume Isis (un affluente del Tamigi) in compagnia dell’amico Robinson Duckworth e delle tre figlie di Henry George Liddell (arciprete di ChristChurch, Oxford) si inventò le storie di Alice per divertire le bambine. Il racconto piacque molto, soprattutto ad Alice Liddell: che ne divenne la protagonista.
“Alice in Wonderland” e il suo seguito “Through the Looking Glass” sono libri così famosi che non è il caso di presentarli ancora, tanto più che internet è piena di informazioni e di illustrazioni in proposito. Si può aggiungere che ad Alice Liddell il libro piacque così tanto che ancora in tarda età si prestava volentieri a letture pubbliche.
L’Alice di Walt Disney esce nel 1951, e porta il titolo “Alice in Wonderland”: in realtà, pur seguendo abbastanza fedelmente il percorso di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, è un curioso mix tra il primo e il secondo libro, e molti dei suoi personaggi vengono da “Attraverso lo specchio”: il primo di loro è il gattino che fa compagnia ad Alice all’inizio del film Disney. In Carroll il gattino c’è, ma è all’inizio di “Attraverso lo Specchio”; l’inizio di “Alice nel Paese delle Meraviglie” vede Alice che si addormenta mentre è in compagnia della sorella, loro due soltanto.
E’ da qui che comincio un piccolo viaggio tra il film e il libro, per puro divertimento: a me piacciono tutti e due, anche se va detto che il cartoon Disney non ha la bizzarria e la profondità del libro originale. Però ai bambini piace, e questo particolare è molto importante.
Nella narrazione inserisco tre tipi di immagini, che si riconosceranno perché molto diverse tra loro: i disegni originali del primo manoscritto di Lewis Carroll (1864, ristampato in facsimile dalle edizioni Dover) che fu un regalo per Alice Liddell; i disegni di John Tenniel, il pittore professionista che mise in bella copia gli schizzi di Carroll nella prima edizione a stampa; e i fotogrammi dal film della Disney.

- Capitolo 1: “Down the rabbit hole”
In un film tratto da un libro, di solito si fanno molti tagli: e così capita anche con “Alice”. Curiosamente, invece di tagliare Disney allunga l’inizio, che in Carroll è molto veloce e diretto: nel libro Alice insegue il Coniglio già dopo poche righe, qui invece bisogna aspettare quattro minuti, e quando Alice si infila nella tana i minuti sono già cinque: ma la spiegazione è semplice, si tratta del tempo necessario per far cantare ad Alice una canzone.
Nel film, la sorella sembra piuttosto un’istitutrice, o magari anche la madre, ed è molto severa; legge ad Alice la Storia d’Inghilterra, gliela fa anche studiare e ripetere; ma nel libro si dice solo che Alice sbirciava nel libro, ma nel libro non c’erano figure: e che interesse può avere un libro senza figure?
In Disney, il Coniglio appare dentro ad un laghetto, dopo ben 4 minuti. La versione italiana lo chiama Bianconiglio, ma l’originale è un semplice Coniglio Bianco, “White Rabbit”, e appare di corsa sul prato, già dalle prime righe.
Il gattino Oreste (c’è un gattino in Carroll, ma è all’inizio di “Attraverso lo Specchio”) saluta Alice quando lei entra nella tana: Alice cade nel pozzo, lui resta fuori e fa ciao con la zampina. Ma è una bella caduta al rallentatore, ed è un bel pozzo: very well, direbbe Carroll. “Very well” anche l’architettura del pozzo, tutto molto ben fatto dallo staff Disney e molto in accordo con il libro.
E’ un’invenzione Disney la maniglia parlante (una gran bella invenzione); sono di Carroll la bottiglietta drink me e i pasticcini eat me.


- Capitolo 2: “The pool of tears” e Capitolo 3: “ A caucus race and a long tale”
Alice che naviga nella bottiglia è invenzione Disney. Il Dodo diventa un marinaio, “Capitan Libeccio”, e naviga nel Mare di Lacrime assistito da un corvo nero e da uno azzurro. Passano le aragoste, che in Carroll sono importanti ma in Disney si limitano a questa breve apparizione (fuori posto, non è questo il loro capitolo). Il Girotondo “per seccarsi” diventa una “Maratonda” nella versione italiana.
In Disney manca il Topo, e tutto l’episodio della Pool of Tears viene sbrigato in fretta, ed è un peccato perché salta anche tutta la storia della coda (in inglese sono due parole scritte diverse ma con la stessa pronuncia: tale/tail). Nel disegno originale di Carroll, che fece impazzire i tipografi al momento di metterlo a stampa, vediamo Alice che ascolta il lungo racconto del Topo, ne guarda la lunga coda piena di nodi, e vede il racconto (tale) scritto sotto forma di coda (tail): una cosa molto buffa, ma intraducibile in italiano.
Nel film, al posto del Topo vediamo il Coniglio, che Disney mette a navigare dentro un ombrello; Alice lo vede, lascia il Dodo e tutti gli altri, e corre via. Il terzo capitolo è stato saltato quasi completamente.

- Looking Glass
A questo punto, Disney inserisce due personaggi di “Attraverso lo Specchio”: Tweedledee e Tweedledum. Vengono sì dal quarto capitolo, ma dell’altro libro. Raccontano la storia delle ostriche, proprio come in Carroll; si vede anche “The sun was shining brightly... “ , che è una parodia di Samuel Taylor Coleridge, “La ballata del vecchio marinaio”: un’altra cosa che non si può rendere in italiano, però realizzata in modo veloce e divertente (il sole di notte appare per un attimo, con un bel faccione sorridente). Il tricheco e il carpentiere in Disney cantano una canzone, “siam cavoli o siam re?” nella versione italiana.


E’ un episodio che il film Disney tira molto in lungo, a noi può sembrare un po’ ostico ma è un ottimo pretesto per la canzone. Per capirlo almeno in parte, va detto che le ostriche erano molto apprezzate dagli inglesi. Le scorpacciate di ostriche sono frequenti anche in Dickens, e in altri autori inglesi: in “Topsy-turvy” di Mike Leigh, un magnifico film sui musicisti Gilbert & Sullivan, contemporanei di Carroll, vediamo uno dei protagonisti star male per averne mangiate troppe, proprio come il Tricheco; e forse viene da qui anche “I am the Walrus”, una canzone famosa dei Beatles.


- Capitolo 4: “The Rabbit sends in a Little Bill”
Si torna ad Alice nel Paese delle Meraviglie, con la casa del Coniglio dove Alice diventa gigantesca (cioè riprende le sue dimensioni normali), dove troviamo Bill la Lucertola, e i biscotti “mangiami”: tutto come in Carroll. In questo episodio Disney fa ritornare il Dodo-Libeccio (che in Carroll era uscito di scena da un pezzo), e Bill in italiano diventa “Biagio lo Spazzacamino”, molto divertente. In Carroll c’è un cagnolino, un cucciolino gigantesco che vorrebbe giocare con Alice ma lei è così piccola che si spaventa e lo manda via gettandogli un bastoncino: una scena che Disney taglia, forse per problemi di budget (nel 1951, fare un cartone animato era costosissimo). Nel film, Alice rimpicciolisce mangiando una carota presa dal giardino del Coniglio.

- Looking Glass
Quando Alice esce dalla casa del Coniglio, torniamo ad “Attraverso lo Specchio”, i capitoli 2 e 3: “The Garden of Live flowers” e “Looking glass insects”. E’ da qui che vengono gli strani insetti del cartoon, molto simili ai disegni originali di John Tenniel. Sono quasi tutti dei giochi di parole in inglese: la farfalla, Butterfly, diventa “Bread and Butterfly”(un pancarré per toast, tagliato a fette; ogni fetta, molto sottile, è una farfalla.). La libellula (nell’originale, mosca cavallina: “horsefly”) è una Cavallibellula, o meglio Dondolibellula, e così via. La scena che segue, che esiste quasi identica in Carroll, è presa a pretesto per la lunga sequenza dei fiori canterini.


- Capitolo 5: “Advice from a Caterpillar”
Torniamo ad Alice nel Paese delle Meraviglie, e finalmente arriva il Bruco. Il Bruco di Disney (“Brucaliffo” in italiano) è favoloso, fuma e fa le lettere col fumo, cantando AAA in una melodia vagamente orientale, come se fosse davvero un turco o un fakiro indiano. E’ irresistibile quando dice: “Cosa essere tu?”, oppure “Otto centimentri invidiabile altezza” (sembra Queequeg nel film “Moby Dick” di John Huston). Il Bruco dice “sei un’incognita” e soffia fuori la Y, come si fa in matematica; e usa parole come “Apropositevolmente”, riprese di recente anche da Orco Rubio e da Antonio Albanese.
Disney salta la storia di Father William, un’altra delle poesie parodistiche di Carroll (peccato, i disegni di Tenniel sono molto belli), ma tiene quella del Coccodrillo, che vediamo ripetere da Alice in mezzo al fumo del Bruco. Il Bruco le dà il fungo, come nel libro (“una parte ti farà diventare piccola, l’altra ti farà diventare grande” “una parte di cosa??”); e poi diventa una farfalla maschio, invenzione dello staff Disney tutt’altro che banale.
Segue la scena del Piccione, molto fedele a quella di Carroll e molto ben fatta: è un vero peccato che Mamma Piccione sia stata dimenticata qui e mai più ripresa... (continua)

Au hasard, Balthazar ( I )


Au hasard Balthazar (idem, 1966) Scritto e diretto da Robert Bresson. Fotografia Ghislain Cloquet . Musica: Franz Schubert, Sonata D 959; musica leggera di Jean Wiener. Con Anne Wiazemsky (Marie), Walter Green (Jacques), François Lafarge (Gerard), Jean Claude Guilbert (Arnold), Philippe Asselin (padre di Maria), Pierre Klossowski (padrone del mulino), Nathalie Joyaut (madre di Marie), François Sullerot (fornaio), Marie Claire Fremont (moglie del fornaio), Jean Joel Barbier (il prete). Durata: 95 minuti

- Lei è ricco e non ha l'elettricità. Noi non abbiamo più niente, il poco che è rimasto, la casa e il giardino, non è neppure nostro. Papà ha pagato fino all'ultimo centesimo i debiti.
- A questo si arriva quando si mette l'onestà sopra ogni cosa. Tuo padre ha passato tutta la vita a crearsi dei doveri, degli obblighi. Perché? Adesso non c'è persona che creda alla sua innocenza. Io ho forse dei doveri, degli obblighi? No, sono libero. Faccio soltanto quello che può servirmi per guadagnare, e più guadagno e meglio è. La vita è una specie di fiera, un mercato in cui neppure la parola è necessaria, basta solo avere i quattrini. Pagare vuol dire adempiere a tutti gli obblighi verso il prossimo, per quanto sarebbe meglio far lavorare la gente per niente. Ma non tutti vedono le cose nello stesso modo. Se uno è furbo può permettersi tutto, e avere ugualmente la considerazione della gente. Ci vuole disinvoltura, faccia tosta.
(dialogo tra Marie e il padrone del mulino, verso la fine del film)

Ad un certo punto, in "Au hasard, Balthazar" , compare una radio a transistor. Siamo nel 1966, le radio portatili erano ancora una novità: non tutti ce l'avevano. Il ragazzo a cui viene regalata l'accende subito, e ne esce una musica insipida che però piace, e non poco; il ragazzo la porta con sé ovunque.
Robert Bresson, l'autore del film, non lascia mai nulla al caso: la presenza di questa radiolina, per di più in mano ad un personaggio negativo, è il segnale del cambiamento che sta avvenendo nel mondo. Un mondo - il nostro - che è rimasto uguale a se stesso per millenni, ma che da allora ha cominciato a cambiare, repentinamente.
Non so quanto un ragazzo di vent'anni oggi se ne possa rendere conto, ma i miei nonni facevano parte di quel mondo e forse la mia è l'ultima generazione che può arrivare a capire questo film. Prima degli anni ’60, la radio era un oggetto ingombrante, un mobile vero e proprio; e anche i primi televisori erano enormi. E’ in quel periodo che arriva una vera rivoluzione, la radio a transistors: che è piccola e si può mettere anche in tasca. Il nuovo oggetto si diffonde subito e viene rapidamente battezzato “radiolina”, analogamente a quanto si è fatto di recente con il telefono cellulare.
La radiolina, accesa in aperta campagna, rompe un incanto che durava da sempre. E' la fine di un'epoca: anche l'asino protagonista del film (l'asino Balthazar) viene ripetutamente dichiarato vecchio, inutile, sorpassato, ridicolo: fino alla sua morte, nel finale. L'asino di Bresson è l'ultimo testimone di un'epoca, e il nuovo che avanza è comodo e bello, ma è anche invadente, volgare, stupido, inutilmente rumoroso. Con lui, muore anche l'onesto maestro di scuola con i suoi princìpi all'antica e vincono il rumore, la volgarità, la violenza. Da noi, negli stessi anni, è Pierpaolo Pasolini ad accorgersi del cambiamento e a denunciarlo sui giornali e in tv: si tratta di piccoli avvenimenti, quasi banali, che portano qualche miglioramento nelle condizioni di vita ma che sono anche l’inizio di un cambiamento epocale che porterà alla scomparsa di una cultura millenaria.
Come Pasolini, col suo discorso sull'omologazione e la sua paura della tv, anche Bresson era in anticipo di quarant’anni e ha fotografato benissimo, da così lontano, i tempi che stiamo vivendo e dei quali la radiolina a transistor, che rompeva l'incanto del bosco e della campagna, era solo l'inizio, la prima crepa della frana che poi è smottata su di noi -la pubblicità, la volgarità, la stupidità dilagante. Sembra un paradosso, ma con internet e con l’elettronica oggi abbiamo molta più informazione di prima, e molto più accessibile, ma siamo sempre più ignoranti. Abbiamo buttato via una cultura vecchia come l'umanità, e tutti gli archetipi ad essa associati, per avere in cambio una radiolina qualsiasi, che trasmette soltanto dediche, canzoncine e (soprattutto) pubblicità. Ci siamo venduti l'anima: non per denaro o per conquistare il mondo, ma per una radiolina portatile.

Di regola, non mi piace fare i riassunti dei film. Con Bresson mi sembra invece l’unica strada possibile: prima di tutto per me, per capire meglio cosa succede nei suoi film. Bresson è un autore molto difficile, e ho quasi sempre trovato poco utili i libri a lui dedicati (con le dovute eccezioni, come è ovvio). E’ per questo che provo a riassumere il film mettendo insieme le informazioni che ho raccolto, e sperando di non fare troppi errori.

Siamo in Francia, ai tempi in cui fu girato il film (1966). Si parte però da una decina d’anni prima: tre bambini che vivono in campagna hanno un nuovo compagno di giochi, un asinello appena nato.
Per gioco, e anche per affetto perché l’asinello è molto simpatico, i tre bambini battezzano l’asino e gli danno il nome di Balthazar. E’ un battesimo con tutti i crismi, con l’olio e con la formula del battesimo cattolico: è solo un gioco di bambini, ma la metafora è chiara e bisogna dire che l’asinello si merita quest’onore.
Dei tre bambini, due sono fratello e sorella; la terza è figlia del maestro di scuola. Ma questi dettagli li apprenderemo più avanti, è tipico di Bresson richiedere molta attenzione (e memoria) allo spettatore dei suoi film. Bresson procede per frammenti accostati, con lunghe scene narrative e salti temporali e di luogo che possono disorientare e magari far perdere la voglia di vedere il film fino alla fine: posso assicurare che vedere un film di Bresson fino alla fine non è facile ma ripaga sempre, e ne vale davvero la pena.
Vediamo comunque una delle bambine ammalarsi; quando muore, suo padre se ne va dalla campagna portandosi dietro l’altro bambino suo fratello. Più avanti, verremo a sapere che ha concesso al maestro (padre dell’altra bambina) di coltivare le sue terre secondo tecniche innovative, tecniche di coltivazione alle quali il maestro è molto appassionato.

Nei titoli di testa, prima dell’inizio del film, avevamo ascoltato una brano per pianoforte di Schubert, indicato come proveniente dalla Sonata per pianoforte n.20: che oggi viene indicata come Sonata D 959, l’inizio del secondo movimento (andantino). Non è facilissimo orientarsi nelle opere di Schubert, che hanno avuto catalogazioni diverse nel corso dei decenni passati. Questo film è del 1966, nel frattempo è stato compilato un nuovo catalogo; Schubert morì molto giovane, lasciando molti inediti e molti frammenti e appunti. La musica è suonata dal pianista Jean Joel Barbier, che vedremo come attore verso la fine del film (è il prete), ed è interrotta dal raglio dell’asino. Poi la musica di Schubert riprende, e inizia il film come si è visto prima, con la nascita e il battesimo dell’asinello.

Passano circa dieci o dodici anni, Maria è una giovane donna; suo padre non è più maestro di scuola ma coltiva con successo quelle “terre non sue”. Balthazar è un asino adulto, e viene impiegato per tirare il calesse su cui viaggiano il maestro di scuola e sua figlia; ma sulle strade ci sono ormai più automobili che carrozze, anche in campagna. L’asinello da piccolo era una cosa bella, oggi è solo un asino; Maria gli dimostra ancora affetto, ma è tutta un’altra situazione.
Arrivano dei giovani in motorino: deridono l’asino che tira il carretto e anche Maria e suo padre; spargono olio sulla strada per il piacere di vedere le macchine uscire di strada.

Marie e suo padre vanno alla Messa, dove si canta il Panis Angelicus. Di seguito, veniamo a sapere che ci sono problemi per il possesso della terra coltivata dal padre di Maria: gli si chiede un rendiconto, lui tira fuori carte in cui si dice che non è tenuto a dar conto di quello che fa. Si andrà quindi in tribunale, ma in paese si comincia a dire che il maestro si è impossessato illegalmente della proprietà.
Torna il figlio del proprietario della terra, Jacques, con una macchina sportiva di lusso e ben vestito; riconosce l’asinello che avevano battezzato insieme. Il ragazzo dice a Maria che è sempre innamorato di lei, ma lei è indecisa. Jacques va dal padre della ragazza, che però lo scaccia in malo modo; il ragazzo era uno dei pochi che stava dalla sua parte, ora il maestro non ha più amici. Jacques se ne torna in città.

Anche il maestro ora ha l’automobile (una Citroen 2CV, ovviamente...) e l’asino non serve più, sarà venduto. “L’asino ci rende ridicoli”, dice il maestro; e inoltre Maria, dopo la conversazione con Jacques, si è chiusa in casa e non se ne prende più cura.

Balthazar viene comperato dal fornaio, che lo usa per consegnare il pane nelle campagne circostanti. Il fornaio prende con sè a lavorare uno dei giovani teppisti, Gérard. (Siamo intorno al minuto 20.)
L’asino paziente porta il pane; ma il ragazzo Gerard lo maltratta e gli accende del fuoco sulla coda.
Assistiamo alle scene della consegna del pane, secondo metodi antichi ormai persi: Gerard va per la campagne, lascia il pane nelle cassette di legno lungo la strada, ritira i soldi e li mette in un borsellino, poi suona un piccolo corno da postiglione per segnalare di essere passato. Quando torna al negozio mette i soldi in un cassetto di cui ha la chiave; la moglie del fornaio lo sorveglia e lo ha preso in simpatia.
Maria in auto ritrova l’asino con Gerard. Gerard sale sulla 2cv. Avances di Gerard. Alla fine, Gerard suona il cornetto in segno di vittoria.
Al minuto 32 la fornaia dà a Gerard soldi, una moto e una radio portatile: ma a condizione che non si veda più con Maria.

Scena della gendarmeria: il barbone Arnold viene accusato di un omicidio e gli prendono le impronte digitali. Con lui, sotto inchiesta i giovani teppisti e Gerard. I giovani pensano che Arnold li abbia denunciati ma non è così; scena del pestaggio di Arnold. Maria arriva con Gerard sulla moto, e assiste al pestaggio.
Al minuto 40 l’asino raglia su una canzone trasmessa dalla radio.
Neve. L’asino sta male, stanno per ucciderlo ma Arnold il barbone (che ne ha già un altro) si offre di prenderlo con sè. “Ma se non cammina nemmeno più...” Però Balthazar guarisce: ora Arnold ha due asini.
Con gli asini, Arnold accompagna due pittori per le campagne: i due intellettuali parlano di arte ma anche di alcolismo. Sotto l’influsso dell’alcol si può uccidere e non ricordarsi di nulla. Arnold, rimasto solo, ripensa all’accusa che ha rischiato di portarlo in prigione e promette di non bere mai più; ma lo vediamo bere subito nella sequenza successiva, e molto. Nel bar, Arnold scaccia l’asino con una sedia: gli grida “Satana e menagramo!”. Ma poi riprende con sè tutti e due gli asini.
Con gli asini, Arnold arriva in città; davanti al tribunale rivediamo il maestro che sta perdendo la causa.
(continua)

lunedì 23 novembre 2009

Alice tra Carroll e Disney (II)


- Alice in Wonderland / Through the Looking Glass, di Lewis Carroll. (1865 e 1872)
- Alice in Wonderland, film Disney (1951). Dai libri di Lewis Carroll Regia di Clyde Geronimi, Hamilton Luske, Wilfried Jackson. Musiche originali di Oliver Wallace, Bob Hilliard, Sammy Fain (Durata: 75 minuti)

( seconda parte )
- Capitolo 6: “Pig and Pepper”
Saltato in pieno: che tristezza! E’ uno dei momenti più belli del libro, uno dei miei preferiti: niente Valletto-Pesce e Valletto-Rana, niente Duchessa, niente Bambino-Maialino, niente Cuoca... E’ dentro alla casa della Duchessa che Alice incontra il Gatto, ma nel film si salta direttamente alla conclusione del capitolo, cioè al Gatto sull’albero, al limitare del bosco. Lo stregatto (in realtà “Gatto del Cheshire”) è molto discutibile ma è buffo, poco Carroll e quasi tutto Disney. Però è divertente, ed è questo che conta.
Anche la Lepre Marzolina (“March Hare”) diventa “Leprotto bisestile”: eppure anche da noi si dice “marzo pazzerello” (nel 1951 gli antichi proverbi si usavano ancora).
Il Ghiro dorme, e finisce nella teiera: è quello che deve fare, e può bastare. E consiglio a tutti, non solo ai bambini, di leggersi cosa dice il Gatto nell’originale indicando la strada ad Alice: il “sono tutti matti qui” è molto sbrigativo, non rende giustizia alla finezza di Carroll. Questo è uno dei momenti magici di “Alice”, ad ogni parola corrisponde un pensiero preciso: ci si ricorda di colpo che il reverendo Dodgson (il vero nome di Lewis Carroll) era un matematico, e che di matematica parlano i suoi libri precedenti ad Alice, e anche molti di quelli successivi. Quando si dice che Carroll non è solo un autore per bambini, è a queste pagine che si fa riferimento. Disegno a parte (disegnare i gatti è difficilissimo), “Stregatto” a me non piace, non rende l’idea. Non è questione di stregoneria, fa parte dell’essenza del Gatto (di qualsiasi Gatto) mimetizzarsi, sparire, nascondersi e riapparire di sorpresa, far spavento. Inventandosi questo personaggio, Carroll dimostra di essere un ottimo osservatore, e di conoscere bene i gatti. Ma i giochi di parole non si traducono, si reinventano, in generale i traduttori italiani hanno fatto un buon lavoro, e quindi mi faccio andar bene anche lo Stregatto.
- Capitolo 7: “A mad tea party”
Uno dei capitoli fondamentali, con il discorso sul Tempo del matematico professor Dodgson.
Qui viene trasformato in un divertissment, molto buffo, con la canzoncina del non compleanno (il “non compleanno” è un’invenzione di Carroll). I bambini si divertono, e questo avrebbe fatto piacere a Carroll, ma i dialoghi del libro sono ridotti a poca cosa.

- Looking glass
A questo punto, quando Alice esce dalla cerimonia del thè, Lewis Carroll ci porta direttamente al roseto, alla partita di croquet e alla reggia della Regina di Cuori. Ma nel film dobbiamo aspettare, e saltiamo ancora ad “Attraverso lo Specchio”: Alice si trova davanti ad un cartello, “Tulgey wood”, che la versione italiana diventa “foresta di tutti”: ma i giochi di parole di Carroll sono veramente molto difficili da capire per chi non è inglese, e forse anche gli inglesi hanno qualche difficoltà a capirli, perchè Carroll come enigmista era davvero un tipo tosto (tenne per anni una rubrica di corrispondenza con i lettori su un giornale, e i suoi quiz erano spettacolari). Non ho la necessaria competenza in questo campo, quindi preferisco sorvolare e rimandare chi mi legge ad analisi più attente (i libri su cui farlo non mancano). Alice si infila dentro una foresta buia, con strane bestie che provo ad elencare: uccelli fatti di un naso con occhiali su zampe, uccelli specchio, trombe di clacson che si comportano come anatre, rane tamburo, fenicotteri in forma d’ombrello che diventano avvoltoi (il lato oscuro di Disney), un uccello-vanga, un uccello-gabbia con coppietta di uccellini dentro (inquietante), gufi a fisarmonica, uccellini-martello e uccellini-matita, e il cartello “non calpestare i palmipedoni”.
I palmipedoni piacciono molto ai bambini, e il disegno Disney li rende molto simpatici. Il loro nome originale si può leggere nel cartoon: “mome raths”. Cosa sia un “mome rath” lo spiega Humpty Dumpty (l’uovo parlante) ad Alice, e io vi riporto il loro dialogo così come appare in Carroll, capitolo VI di “Attraverso lo specchio”. Lo riporto in inglese, perché io non saprei tradurlo (buon divertimento a chi ci si prova!):
- And then, “mome raths”? – said Alice – I’m afraid I’m giving you a great deal of trouble.
- Well, a “rath” is a sort of green pig; but “mome” I’m not certain about. I think it’s short for “from home”, meaning that they’d lost their way, you know.
E dunque il palmipedone è “un maiale verde che ha perso la via di casa”. Il maiale verde prova a disegnarlo (ma in bianco e nero) John Tenniel, e io lo riporto qui sotto insieme ad altra fauna di vario tipo; quanto ad Alice, anche lei ha perso la via di casa. In Disney, i palmipedoni indicano il sentiero ad Alice, che lo segue contenta ma poi trova il cane-scopa che lo ha cancellato.
Alice si siede sconsolata e canta una canzone. Poi torna il Gatto, e anche noi lasciamo il mondo dello Specchio e torniamo dentro Alice nel Paese delle Meraviglie.
Chissà cosa ne pensano gli inglesi di oggi, soprattutto i bambini, di questi giochi di parole: probabile che preferiscano la versione Disney, e che magari conoscano solo quella. Nel Novecento, James Joyce e la pubblicità hanno attinto a piene mani da Carroll: e il nostro divertimento nello smontare e rimontare le parole, fonderle insieme, inventarne di nuove, dura ancora oggi.

- Capitolo 8: The queen’s croquet ground
La scena inizia con un bel labirinto, che a Carroll sarebbe piaciuto molto. Nel libro non c’è, ma Carroll ne ha disegnato uno, e lo riporto qui accanto.
Le carte dipingono le rose, come nel libro. Poi arrivano il piccolo Re e la Regina di Cuori, molto divertenti ma poco Carroll e tanto Disney, anche se il racconto è molto fedele al libro. Il Re Consorte fa pensare a Ubu Roi di Jarry, al Piccolo Re dei fumetti, a “Il Re muore” di Jonesco: ma è molto più divertente e non ha nulla di tragico. “Appropìnquati”, dice la Regina ad Alice: e questa Regina disneyana somiglia molto anche della Duchessa, proprietaria del Gatto, che nel libro accompagna Alice durante la partita. E finalmente arriviamo alla partita a croquet, molto divertente, molto Disney e poco Carroll: mancano solo Paperino con Cip e Ciop, ma i riccetti e i fenicotteri li sostituiscono degnamente.
- Capitolo 9: The mock turtle’s story
Saltato completamente: peccato per il Grifone, chissà come sarebbe stato bello disegnato dallo staff di Disney. La “finta tartaruga” è un esempio del modo di lavorare di Carroll: nei ristoranti si preparava un “brodo di finta tartaruga” che assomigliava al vero sapore del brodo di tartaruga; Carroll si immagina come potrebbe essere questo strano animale (la “fintatartaruga”) e cosa poteva pensare (sicuramente cose tristi e lacrimose), e la accosta al grifone, un altro animale (mitico) che assomiglia a qualcosa ma non è quel qualcosa. - Capitolo 10: The lobster quadrille
Saltato completamente. Peccato, la quadriglia delle aragoste sarebbe stato un bel pezzo musicale.

- Capitoli 11 e 12: “Who stole the tarts” e “Alice’s evidence”
Siamo alla fine del libro: il processo ad Alice. C’è poco da raccontare, in questa sede: il film è molto fedele al racconto, anche se nel disegno c’è poco Carroll e tanto Disney: ma a questo punto ci siamo abituati, il libro è lì tutto da leggere (c’è qualche sorpresa anche qui), ma c’è tempo, si può fare anche dopo essersi divertiti con il cartone animato.
Abbiamo visto che di “Alice nel Paese delle Meraviglie” c’è molto, quasi tutto se si tiene conto della difficoltà di riprodurre un libro intero in poco più di un’ora. Ma tante cose belle sono rimaste fuori, peccato perché la vena artistica disneyana era ancora molto buona, in quel 1951.


E poi, cosa manca di bello da “Attraverso lo Specchio” ? Manca tanto. Mancano il Re e la Regina degli scacchi, mancano il mostro Jabberwocky, la Pecora, il Cerbiatto, il Cappellaio Matto (c’è anche qui), Humpty Dumpty (in bilico sul muro, è un ometto a forma d’uovo protagonista di una filastrocca proverbiale), il Leone e l’Unicorno (simboli inglesi per eccellenza, grandi protagonisti dell’araldica), il Cavaliere instabile... Mancano tante cose, compreso il discorso sul sogno del Re (il Re dorme, sogna ed è di noi che sta sognando: se si dovesse svegliare, cosa accadrebbe di noi?).
Manca la canzone di Humpty Dumpty, che so ancora a memoria e che su richiesta posso ripetere in inglese (se siete disposti a sorvolare sulla pronuncia). La riporto qui come chiusura, ma senza cantare: perchè sono stonato ma soprattutto perché anche Humpty Dumpty non canta (se ne scusa con Alice, e io mi scuso con voi):
In winter, when the fields are white,
I sing this song for your delight.
In spring, when woods are getting green,
I'll try and tell you what I mean.
In summer, when the days are long,
perhaps you'll understand the song.
In autumn, when the leaves are brown,
take pen and ink and write it down.
(Humpty Dumpty, cap.VI “Through the Looking Glass”)