Visualizzazione post con etichetta Loach. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Loach. Mostra tutti i post

lunedì 11 novembre 2019

Kes


 
Kes (1969) Regia di Ken Loach. Soggetto di Barry Hines. Sceneggiatura di Barry Hines, Ken Loach, Tony Garnett. Fotografia di Chris Menges. Musiche di John Cameron. Interpreti: David Bradley, Freddie Fletcher, Lynn Perrie, Colin Welland, Brian Glover, ragazzi e bambini. Durata: 110 minuti
 
Kes è un falco, per la precisione un gheppio, che viene allevato e istruito da un ragazzo, poco più che bambino, nello Yorkshire; ed è uno dei film più belli di Ken Loach (e non solo). Il soggetto viene da un romanzo di Barry Hines che si intitola "A kestrel for a knave". Kestrel è proprio il nome del gheppio in inglese, e Kes è il nome del falco (diminutivo). Il nome scientifico è "Falco tinnunculus", gheppio; "knave" è fante, o furfante, probabilmente con riferimento all'ambiente in cui cresce il ragazzino.

 
Loach inserisce il tema della falconeria  nell'ambito della scuola e della famiglia. Senza padre, il protagonista Billy Casper ha la mamma e un fratello maggiore (fratello solo da parte di madre) già adulto e poco simpatico, oltretutto invischiato in giri più o meno loschi legati alle scommesse sulle corse di cavalli. La falconeria è un tema che per me rimanda subito a Boccaccio (Decameron: giornata quinta, nona novella, "La novella del falcone") anche per i colori autunnali e per il finale tragico e mesto. Per la scuola, il film finisce col ricordare "Diario di un maestro" di Vittorio De Seta, girato praticamente in contemporanea, e anche i romanzi di Charles Dickens per le bacchettate sulle dita a scuola e per il rapporto fra bambini e adulti e fra i ragazzi stessi. Sono scene in cui è facile riconoscersi, anche con una certa sofferenza: il professore di ginnastica un po' stupido e gli spogliatoi con scherzi pesanti fanno parte dei ricordi di quasi tutti. So anche che c'è a chi piace questo mondo, io spero da sempre che sparisca ma dopo cinquant'anni mi tocca constatare che troppo spesso come mentalità siamo ancora fermi lì. Non mancano i momenti comici, come sempre in Ken Loach; e non manca neanche la partita di calcio (siamo in Inghilterra, il football è nato lì). Alcune scene di rock-pub (comico naturale) fanno pensare al Milos Forman di "Taking off"; simpatica la scena iniziale dove Billy legge i fumetti.

 
Kes arriva al minuto 14 circa; Billy lo prende dal nido arrampicandosi su un muro fatiscente. Impara come nutrirlo e addestrarlo da un libro; riuscirà nell'impresa e prenderà bei voti a scuola raccontando la sua storia, in una delle scene più belle del film. E' un film sulla caccia, a molti non piacerebbe oggi ma era un mondo realmente esistente; anche prendere gli uccellini dal nido (non solo i gheppi) era pratica comune. Quello che dovrebbe scandalizzare, e muovere le coscienze, è che oggi i posti dove erano così frequenti alberi e uccelli sono stati in gran parte cementati e asfaltati, magari per far posto a ipermercati e svincoli autostradali; ma qui sto uscendo dall'ambito del film e mi fermo.

 
Anche le sequenze a scuola mostrano cose non piacevoli, con il preside che bacchetta Billy e altri ragazzi per le sigarette, il professore di ginnastica imbecille, gli scherzi sotto la doccia... Si può far notare che "bacchettare" qui va preso alla lettera, una bacchetta rigida con la quale colpire i ragazzi sulle dita delle mani.

 
Il protagonista, l'attore ragazzo David Bradley (poi farà davvero l'attore) è piccolo e magro e ricorda a tratti Andrea Balestri, il Pinocchio di Comencini, ma è sui quattordici anni. Il film è parlato nel dialetto dello Yorkshire; Disney propose una versione col lieto fine a Barry Hines ma Hines si oppose.

 
"Kes" era visibile fino a poco tempo fa su youtube ma in una brutta edizione: sembra ripresa da un telefonino, ma è comunque meglio di niente. Il pensiero corre a chi detiene i diritti e non lo rende visibile, e soprattutto alla Rai, servizio pubblico, che dovrebbe scegliere con maggiore attenzione (e maggiore amore verso il cinema) i film che trasmette, oltretutto avendo a disposizione reti che trasmettono ventiquattro ore su ventiquattro per ogni santo giorno dell'anno. Su youtube ci sono comunque anche sequenze intere tratte dalla versione integrale, che mostrano la magnifica fotografia e fanno intuire la grande bellezza del film.
 

 



(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )



lunedì 26 settembre 2011

Un bacio appassionato

Ae fond kiss (Un bacio appassionato, 2004). Regia di Ken Loach. Scritto da Ken Loach e Paul Laverty. Fotografia di Barry Ackroyd Musiche originali di George Fenton Interpreti: Eva Birthistle, Atta Yacoub, David Wallace (il prete), Ghizala Avan, Ahmad Riaz, Shamsad Akhtar, Shabhana Akhtar Baksh, e molti altri Durata: 104 minuti

"Ae fond kiss", un bacio appassionato, è una canzone tradizionale su testo di Robert Burns (1759-1796), grande poeta scozzese, che viene eseguita nella scuola di musica dove insegna la protagonista. Si tratta di una scuola cattolica, e che sia cattolica è un particolare importante per la storia che viene narrata; ed è una storia di grande attualità che probabilmente, nelle sue molte varianti, viene replicata anche in questo momento e anche dalle nostre parti. Di "Un bacio appassionato" mi è comunque difficile parlare, innanzitutto perché ormai sono troppo vecchio per queste cose, ma poi anche perché i due protagonisti di questa storia d'amore non sono simpatici come in altri film di Loach. Insomma, diventa un po' difficile immedesimarsi, e penso che sia una cosa voluta. E' comunque un buon film, Loach ha sempre un'ottima mano e sa scegliere bene i temi che tratta; e nella sua seconda metà il film cresce comunque di spessore.
Nel film c'è un prete cattolico che ha una parte piccola ma importante, un po' come in "Piovono pietre": a lui si rivolge la giovane insegnante che per continuare ad avere il suo posto nella scuola dove insegna ha bisogno di un certificato che attesti la sua frequenza alla parrocchia (la scuola non è una scuola privata, ma così va il mondo). Il prete le risponde che la sua frequenza in parrocchia è ormai nulla, inesistente: come si fa a darle quel certificato così, in quel modo; lui non è mica un passacarte. Ed ha ovviamente molte ragioni dalla sua parte: ecco un'altra delle nostre molte contraddizioni che Loach sa metterci davanti con ostinata bravura. Non si tratta quindi solo della storia d'amore fra due giovani divisi dalla religione (entrambi nati e cresciuti in Scozia, ma lui musulmano e figlio di immigrati, lei biondissima irlandese ma residente a Glasgow), ma di qualcosa di molto più complesso e mai banale, qualcosa che dovrebbe toccare anche noi. Che cristiani siamo, se non andiamo più in chiesa? La nostra religione è ormai solo qualcosa di formale, di superficiale, non molto diversa dal “rispetto per la tradizione” che provoca problemi e dolore nella famiglia musulmana del protagonista maschile? Ci sarebbe quindi molto di cui parlare, e invece anche questo film di Loach, pur doppiato e distribuito, è passato quasi inosservato: ad esempio sarebbe abbastanza facile per i nostri registi farne una versione italiana, ma non è successo e credo che nessuno ci abbia mai nemmeno pensato per più di tre minuti, neanche fra gli addetti ai lavori.
Non mi piacciono i due protagonisti (i personaggi, intendo) perché sono molto egoisti e superficiali; li trovo inoltre poco credibili come coppia: non perché siano una bionda e un pakistano, ma proprio perché non si vede che cosa abbiano in comune, a parte la bellezza fisica (la mia impressione nel corso del film, per essere sinceri, è che a lui non interessino molto le donne in generale). Si finisce piuttosto per provare simpatia per i genitori di lui, onesti operai ancorati a un mondo che non c'è più, come erano molti dei nostri vecchi: ed è forse questo che voleva Loach, farci provare simpatia per i nostri vecchi e per l'amore che portano verso il prossimo, e mostrare l'edonismo superficiale dei due giovani. A spingermi verso questa interpretazione è anche la scelta dell’attore che interpreta il padre del ragazzo, un immigrato del Punjab che ricorda molto il John Tomlinson di Riff raff e dei primi film di Loach. (nell’originale il film è parlato in punjabi e in inglese)
Mi ha fatto provare un certo imbarazzo anche la figura della sorella minore del protagonista, che vorrebbe "fare la giornalista": fare la giornalista (mi si passi il termine) è evidentemente "più figo" che studiare medicina come vorrebbero i suoi genitori; e sicuramente anche meno impegnativo, visto il momento che passa il giornalismo (non solo qui da noi dove imperano i Fede e i Feltri, ma anche nella Gran Bretagna del Sun e del Times in mano a gente come Murdoch). Sono pensieri che a vent’anni probabilmente non mi sarebbero mai venuti, ma allora i giornalisti erano fatti in un altro modo, come Enzo Biagi e Walter Tobagi, per esempio. Mi è difficile dunque simpatizzare con personaggi come questi, ma Loach sa rappresentare la realtà come pochi altri, e la realtà è purtroppo questa, in molte parti dell'Occidente: edonismo e superficialità. Difetti che non nascono oggi, ma che sono antichi come Blair, come Reagan, come i due Bush, e come Margaret Thatcher: la grave crisi economica odierna nasce anche (e soprattutto) da questa mentalità.
Questa è la poesia di Robert Burns che dà il titolo al film:
Ae fond kiss, and then we sever;
Ae fareweel, and then for ever!
Deep in heart-wrung tears I'll pledge thee,
Warring sighs and groans I'll wage thee. -
Who shall say that Fortune grieves him,
While the star of hope she leaves him:
Me, nae chearful twinkle lights me;
Dark despair around benights me. -
I'll ne'er blame my partial fancy,
Naething could resist my Nancy:
But to see her, was to love her;
Love but her, and love for ever. -
Had we never lov'd sae kindly,
Had we never lov'd sae blindly!
Never met - or never parted,
We had ne'er been broken-hearted. -
Fare-thee-weel, thou first and fairest!
Fare-thee-weel, thou best and dearest!
Thine be ilka joy and treasure,
Peace, Enjoyment, Love and Pleasure! -
Ae fond kiss, and then we sever;
Ae fareweel, and then for ever!
Deep in heart-wrung tears I'll pledge thee,
Warring sighs and groans I'll wage thee. -
Fu scritta nel 1791, in una lettera a Agnes M'Lehose, detta anche 'Clarinda' e 'Nancy' dalle sue amiche ed amici. Nel dicembre 1791 Agnes lasciò Burns e la Scozia per raggiungere il marito in Giamaica. Il testo viene da http://www.lieder.net/  dove sono indicati i compositori che l’hanno messa in musica: non sono nomi celebri e nel film non è indicato l’autore della musica; riporto qui le indicazioni del sito http://www.lieder.net/  così come le ho trovate: by Robert Burns (1759-1796) , note: often sung to the tune of Rory Dall's port Musical settings (...) by Agathe Ursula Backer-Grøndahl (1847-1907) , "Ae fond kiss", op. 51 no. 11 (1902), published 1902 [voice and piano], from Tolv Folkeviser og Melodier fra fremmede Lande, no. 11. by Gordon Ware Binkerd (1916-2003) , "Ae fond kiss", published c1985, from Songs of love and affection, no. ? by William Mayer (1925-) , "Ae fond kiss" [SSATB chorus, flute, violoncello, and piano]
Nel film c’è anche un’altra poesia di Burns, "A Man's A Man For A' That" del 1795, il cui titolo originale (le notizie le ho prese da wikipedia) è "Is There for Honest Poverty", ed esprime le idee di egualitarismo dell’autore, un anticipo del liberalismo anglosassone e del socialismo ottocentesco.
Is there for honest poverty That hangs his head, an' a' that
The coward slave, we pass him by We dare be poor for a' that
For a' that, an' a' that Our toil's obscure and a' that
The rank is but the guinea's stamp The man's the gowd for a' that
What though on hamely fare we dine Wear hoddin grey, an' a' that
Gie fools their silks, and knaves their wine A man's a man, for a' that
For a' that, an' a' that Their tinsel show an' a' that
The honest man, though e'er sae poor Is king o' men for a' that
Ye see yon birkie ca'd a lord Wha struts an' stares an' a' that
Tho' hundreds worship at his word He's but a coof for a' that
For a' that, an' a' that His ribband, star and a' that
The man o' independent mind He looks an' laughs at a' that
A prince can mak' a belted knight A marquise, duke, an' a' that
But an honest man's aboon his might Gude faith, he maunna fa' that
For a' that an' a' that Their dignities an' a' that
The pith o' sense an' pride o' worth Are higher rank that a' that
Then let us pray that come it may (as come it will for a' that)
That Sense and Worth, o'er a' the earth Shall bear the gree an' a' that
For a' that an' a' that It's coming yet for a' that
That man to man, the world o'er Shall brithers be for a' that
Nella colonna sonora c’è anche "Ah, Vous Dirai-Je, Maman K265" di Mozart: si tratta di variazioni per pianoforte a partire da uno dei primi esercizi musicali per imparare il pianoforte, di quelli che fanno anche i bambini, sul cui tema Mozart ha composto alcune variazioni piuttosto complesse, che però nel film non si ascoltano: c’è solo il tema iniziale, o poco più, nelle scene in cui la protagonista svolge il suo mestiere di insegnante di musica.

Terra e libertà

Terra e libertà (Land and freedom, 1995) Regia di Ken Loach. Scritto da Ken Loach e Jim Allen. Fotografia di Barry Ackroyd. Musiche originali di George Fenton. Interpreti: Ian Hart, Rosana Pastor, Icìar Bollain, Tom Gilroy, Marc Martinez, Frederic Pierrot, Andres Aladren, Sergio Calleja, Raffaele Cantatore, e molti altri.  Durata: 109 minuti

E’ un film storico, sulla guerra di Spagna negli anni ’30, poco prima della seconda guerra mondiale. La guerra civile spagnola finì con la vittoria del dittatore Francisco Franco, che poi mantenne il potere fino al 1975, anno della sua morte. A sostenere la repubblica spagnola vennero giovani militanti da ogni parte d’Europa e del mondo: di questo parla Ken Loach, mostrando la partenza di giovani inglesi e irlandesi, arruolatisi come volontari. Loach va anche più in là, parlando delle gravi responsabilità staliniane nella sconfitta delle forze repubblicane spagnole: però qui vorrei limitarmi a parlare del film, che è molto bello e che mi era piaciuto molto al cinema. Il grande schermo è la sua destinazione naturale, e qui andrebbe visto per giudicarlo: come tutti i film con scene di massa e in campo aperto, la visione televisiva non può mai essere soddisfacente. Inoltre, le lingue parlate nel film sono molte, molti gli accenti diversi: è un film che andrebbe visto in edizione originale, cosa che io finora non ho potuto fare (provvederò).
Quando il film uscì mi ero segnato tra i miei appunti alcune interviste di Loach, che riporto qui sotto.
 - Perché ha voluto parlare proprio ora di quel periodo?
- Per tre ragioni: perché quella fu la prima grande guerra contro il fascismo, perché fu la prima grande dimostrazione di solidarietà internazionale fra lavoratori, e infine per far conoscere alle nuove generazioni una pagina di storia occultata spiegando come e perché era nata una rivoluzione vera, come e perchè fu uccisa. E’ una storia che merita di essere raccontata oggi, con i disoccupati in costante aumento e il fascismo di nuovo alle porte. (...) Io però sono più ottimista di George Orwell (che combattè in Catalogna): con venti milioni di disoccupati qualcosa “deve” cambiare. Ma è facile parlare di rivoluzione qui a Cannes. (...)
- Nonostante tutto, crede ancora al marxismo?
- Sì, più che mai. Non certo alle sue degenerazioni burocratiche e dittatoriali: credo nell’uguaglianza, nella solidarietà, nella libertà. Il socialismo, quello vero, è ancora tutto da costruire. Non resta che rimboccarci le maniche.
(Ken Loach, a Cannes per “Land and freedom”, Corriere della sera 23.05.1995)
 ...Sarebbe stato tropo facile ridurre tutta la storia ad un contrasto fra buoni e cattivi, repubblicani contro franchisti. Ho cercato invece di mettere a fuoco il fallimento di una rivoluzione, la rinuncia a un mondo nuovo, che la Spagna repubblicana visse nel 1935. La Rivoluzione Spagnola venne soffocata, e proprio quando stava per avere ragione dei  franchisti, dalle stesse truppe dell’Armata Popolare, rifornite di armi dall’URSS. (...) Avallare gli esperimenti di collettivizzazione delle terre, già ampiamente in atto in tutta la Spagna e particolarmente nel Nord, avrebbe finito con l’erodere il centralismo di Stalin. Un problema di egemonia che le potenze cosiddette democratiche di allora, Francia e Inghilterra innanzitutto, preferirono ignorare, confermando l’embargo delle armi ai repubblicani. Hitler e Mussolini ebbero così campo libero: per entrambi la Spagna diventò il banco di prova per ben più ambiziosi progetti di aggressione. Fu una sconfitta per il socialismo, prima ancora che per la Spagna. Ho sentito l’esigenza di raccontare questo quando la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, venne da tutti salutata come il crollo del sistema socialista. Sia a me che a Jim Allen, mio sceneggiatore anche per “L’agenda nascosta” e “Piovono pietre”, era sempre parso che il socialismo non fosse mai nemmeno cominciato. (...)
Ken Loach su “Land and freedom”, da L’Espresso 25.08.1995 (intervista di Daniele Bezzi)
 Queste sono invece riflessioni sul cinema in sè: l’accenno di Loach al “lavorare in sequenza” significa che il film è stato girato nell’ordine in cui lo vediamo sullo schermo, e non – come si fa quasi sempre al cinema – girando prima alcune scene e poi altre, per comodità e per economia, evitando di smontare e rimontare i set. Le cronache di quando uscì il film dicono che agli attori questo metodo piaceva molto: non conoscevano il copione per intero, e non sapevano fino all’ultimo momento cosa sarebbe successo al loro personaggio.
- Dicono che anche sul set lei cerca di vivere secondo questi ideali egualitari. Le cronache di lavorazione descrivono un’atmosfera idilliaca, con gli attori che non volevano “morire” per non doversi separare dal film...
- Non si lasci impressionare, anch’io ho le mie tecniche di manipolazione. Senza scherzi: credo che gran parte del merito vada ascritto proprio alla mia scelta di lavorare in sequenza temporale. Forse perché non sarei capace di fare altrimenti; e comunque perché ritengo che un film non sia altro che far crescere un brano di vita, che può crescere solo per logica conseguente delle situazioni, e senza troppe interferenze. Ed è così che, pur senza mai vedere il copione, i miei attori riescono a calarsi con tanta precisione nel personaggio. (...)
- La sua ansia più grande come regista?
- Le otto di mattina: il film sta per cominciare, e io non ho ancora deciso dove mettere la macchina. Ma anche la fine, quando penso a tutte le cose straordinarie che la lentezza della macchina da presa non mi ha permesso di catturare : certi sguardi, gesti, tensioni, che magari mi è capitato di registrare non proprio al centro della scena, unici, improvvisati, irripetibili. (...)
Ken Loach su “Land and freedom”, da L’Espresso 25.08.1995 (intervista di Daniele Bezzi)
 Queste infine sono le mie impressioni subito dopo aver visto il film, nel 1995:  «Innanzitutto, Loach è bravissimo: nell’inizio, quando deve per forza di cose essere più didascalico, mi sono un po’ perso ad ammirare la bellezza dell’inquadratura, i colori, la recitazione, gli attori che non erano in primo piano, le scene di massa; poi però mi sono fatto prendere dalla storia che veniva raccontata. Ed è evidente che Loach è un classico, per lo stile di narrazione: un grande creatore di affreschi, lineare e convincente, semplice e raffinato, attento al quadro e alla cornice. Non c’è un dettaglio fuori posto, anche quel po’ di retorica è ben controllata; gli attori non sono mai banali o manichini o inutili star, sono scelti con cura e con affetto, ruolo per ruolo, fin nelle parti più brevi. Per quanto riguarda la parte storica, non ne so abbastanza per mettermi a pontificare, e d’altra parte ho già trascritto e conservato molte parti delle interviste a Loach, nei mesi scorsi. »(settembre 1995)

domenica 18 settembre 2011

Ken Loach ( I )

Quando questo blog era disponibile a tutti, i post su Ken Loach erano tra i meno letti e commentati in assoluto; la stessa cosa era capitata sul blog precedente. Dato che Loach non è solo un grande regista, ma anche una persona molto attenta a quello che succede nel mondo ed è capace di raccontare come pochi una storia d’amore, di questo dato di fatto mi sono sempre molto dispiaciuto. Si trattava di due blog molto visitati, e molto commentati: “abbracci e pop corn” di Primo Casalini (tengo a precisare che il nome del blog non l'avevo scelto io) è arrivato a un milione di pagine viste in meno di due anni, e faceva settecento-ottocento visite al giorno; con “giulianocinema” ero già arrivato sulle cinquecento pagine viste al giorno, in meno di un anno.
Il disinteresse assoluto verso Loach è stato uno dei motivi che mi hanno spinto a chiudere questo blog, e anche uno dei motivi che mi hanno spinto a chiudere con Solimano (Primo Casalini). Infatti, è molto facile avere visite alte, parlando di cinema: basta mettere molte belle immagini (noi lo facevamo) e dedicarsi ai film più visti e più famosi, avendo comunque un orizzonte molto vasto – così si pescano un po’ tutti quelli che passano in rete. Devo dire che questo metodo, a parte i facili entusiasmi iniziali (“mi leggono! mi scrivono!”), mi ha sempre lasciato perplesso, per non dir di peggio.
Su Ken Loach, e penso a titoli come “Riff raff”, “Piovono pietre”, “The navigators”, era invece doveroso informarsi, discutere, parlare. In un Paese civile lo si sarebbe fatto: Loach è inglese, da lui certi problemi sono arrivati prima che da noi, bastava guardare i film di Loach per capire che cosa sarebbe successo, la strada che stavamo prendendo era quella. La grave crisi economica, la chiusura delle fabbriche, i disoccupati e i precari, gli usurai e gli incidenti sul lavoro, i problemi con la religione (la nostra e quella degli altri), raccontati con grande amore e intelligenza, e per di più inseriti in un contesto narrativo da vero cinema: ma no, si sono preferite – chiedo scusa, ma adesso che siamo in pochi posso dirlo – le cazzatine tipo “Avatar”, tipo l’ennesimo film di Christian De Sica coi Vanzina, roba adatta ai bambini di cinque anni e agli adolescenti ignoranti, però magari in 3D (visibilio! ma il 3D è roba vecchia, c’era già negli anni ’40...), e i risultati di questo disinteresse per la vita vera stanno cominciando ad arrivare, e ad essere molto evidenti. A questo punto, prepariamoci: Ken Loach non serve più, quello che vediamo nei suoi film ormai è arrivato anche da noi. Adesso serve, magari, Michael Moore: che in “Roger and me” descriveva già vent’anni fa i Marchionne e la crisi dell’automobile (la General Motors, mica una fabbrichetta come la Fiat), e che in “Bowling at Columbine” – ma no, meglio fermarsi e tornare a Ken Loach, per il quale nutro grandissimo affetto e ammirazione.
Ken Loach è il vero erede di Charlie Chaplin: basterà andare a vedere “Tempi moderni” e “Luci della città” per capire la somiglianza. Storie d’amore tenere e toccanti, la fatica di vivere quando non si è ricchi, e la dura verità quotidiana: non solo Charlie Chaplin, ma Dickens, o magari il miglior De Sica (Vittorio, sia ben chiaro: De Sica Vittorio).
Ho molto trascurato Loach negli ultimi anni, mi sento colpevole ma penso che non sia un caso: la realtà che lui descrive è ormai qui con noi, troppo presente e troppo dolorosa.
I film di Ken Loach che ho visto:
L’agenda nascosta (1990 F.McDormand, B.Cox, J.Norton) ****
Riff raff (1991 R.Carlyle, E.McCourt, R.Tomlinson) ****
Piovono pietre (1993 Bruce Jones, Julie Brown, R.Tomlinson) ***
Ladybird, ladybird (1994 Crissy Rock, V.Vega, S.Lavelle) ****
Terra e libertà (1995 Ian Hart, Rosana Pastor) ****
La canzone di Carla (1996 R.Carlyle, Oyanka Cabezas, Scott Glenn) ****
My name is Joe (1997 R.Mullan, Louise Goodall) ****
The navigators – Paul Mick e gli altri (2001 Joe Dattine, S.Huison, Tom Craig) ****
Un bacio appassionato (2004 Eva Birthistle, Atta Yacoub) ***
Questi film sono già tutti nell’archivio del blog, tranne “L’agenda nascosta”, “Ladybird”, “La canzone di Carla” e “My name is Joe”, che non rivedo da molto tempo. Di altri film di Loach, quelli precedenti al 1990, ho solo un vago ricordo; so che era già bravo fin dagli inizi, dovrei andare a recuperarli. Quelli che metto qui sotto sono i miei appunti della prima volta che ho visto quei film, giusto per promemoria.
Riff raff
A “Riff raff” ho già dedicato uno dei miei primi post, che è qui in archivio. Nel 1993 ne scrivevo così: «Un film da incorniciare. Finalmente qualcuno che ha qualcosa da dire, non le solite masturbazioni o repliche di m. Finalmente uno che esce dal “mercato” e va a vedere cosa succede nel mondo (“l’Africa è qui, non vedete in che condizioni lavoriamo?”), nel bene come nel male. Così Loach ci racconta una bella e classica storia d’amore tra due giovani, ma senza nasconderci che lui ruba e che lei si droga; eppure sono personaggi positivi, vogliono vivere e sbagliano, e si vogliono bene. Certo, Loach ha mestiere e sa come “trattare” la realtà: mai prendere del tutto sul serio gli artisti (in generale: che siano letterati, cineasti o altro, la realtà viene necessariamente mediata). (sicuri che Bertolucci volesse parlarci di Buddha, per esempio? Eppure il film è lì...). Lo spettatore attento sa che bisogna “fare la tara”; ma, in ogni caso, giù il cappello. E chiedo scusa per non essere andato al cinema quando è uscito...» (dicembre 1993)
Piovono pietre
Anche di questo film ho già parlato per esteso: nel 1997 mi ero segnato questo appunto, dal quale oggi prendo un po’ le distanze: «Qui Loach appare di mano meno felice che in altri film. Non sempre si può essere all’altezza di se stessi: peccato, perché l’argomento (gli usurai) era importante e forte. Comunque un buon film, ma un po’ macchinoso e duro da seguire. Da ricordare: il prete cattolico che dice al protagonista di non andare alla polizia (e, in effetti, non ha responsabilità dirette sulla morte dell’usuraio) e che, prima, dice allo stesso, un operaio disoccupato, che non è affatto necessario indebitarsi per l’abito della prima comunione della figlia.» (maggio 1997)
Rivedendo il film, appare ovvio che si tratta di un argomento davanti al quale non si può restare indifferenti, e in questi casi anche l’autore incontra serie difficoltà a prenderne le distanze per poterlo raccontare al meglio. Questi usurai esistono anche da noi, e sono dei mostri orribili: i tg preferiscono far finta che non esistano, e parlano d’altro. Qualsiasi cosa, a patto che non sia la realtà: i nostri telegiornali sono spesso l’esatto contrario dei film di Ken Loach.
(continua)

Ken Loach ( II )

Ladybird, ladybird
Una madre in difficoltà, i figli in affido, i servizi sociali.
«Coccinella, coccinella, vola verso casa: la tua casa è in fiamme e i tuoi piccoli scomparsi»: da questa celebre filastrocca inglese Ken Loach (il regista di "Riff Raff” e "Piovono Pietre") ha tratto non solo il titolo del suo prossimo film "Ladybird, ladybird" (in inglese è la coccinella) ma anche una scena assai drammatica. Quella in cui la protagonista, Maggie (quattro mariti diversi e quattro figli), ritorna a casa chiamata dalla polizia perché lo squallido monolocale in cui abita, e in cui si trovavano i suoi figli, è andato a fuoco. (...) la difficoltà a esprimere e maneggiare le proprie emozioni è tipica di tutta la drammaturgia oltre Manica. Come ha detto Sheridan sintetizzando in una battuta lo stretto legame tra la storia privata e quella pubblica del suo film: «Se non ti è permesso di esprimere i tuoi sentimenti, una bomba finirà per farlo per te». (da un articolo di Mario Sesti, L’Espresso 28.01.1994: il film di Sheridan citato nell’articolo è “Nel nome del padre” e parla di un giovane irlandese tenuto ingiustamente in carcere per dieci anni)
Margaret Thatcher, purtroppo sta venendo di moda anche qui da noi (gennaio 1994)
Nel 1996 dopo aver visto il film mi ero segnato questo breve appunto: «E’ così semplice e così perfetto che il vederlo dà un dolore e una gioia (emozioni!) che lo rendono quasi insopportabile: e sarebbe facile trovarvi cose negative, errori, semplificazioni, ma solo uno stupido non saprebbe coglierne la commozione, l’amore verso i personaggi e verso il mondo. Straordinari, come sempre in Loach, gli interpreti. Un maestro, mi ha fatto ridere e mi ha fatto star male... »(giugno 1996)
La piccola poesia che dà il titolo al film ha una ricca voce su wikipedia in inglese: la prima versione a stampa risale a metà Settecento, quindi è molto più antica. Si tratta di uno dei giochi, o delle “conte”, che si facevano da bambini, quando non c’erano ancora i videogames e si giocava tutti insieme, magari per strada: la coccinella (ladybird o ladybug) deve correre a casa, la sua casa in fiamme e i bambini sono in pericolo, li salva tutti tranne uno, oppure ne salva solo uno o una: il nome di quell’uno o una è quello del bambino che “va sotto” oppure “si salva” nel gioco. Ne abbiamo molte anche noi, di queste “conte”; si usavano, per decidere chi “sta sotto” quando si gioca a rincorrersi, a guardie e ladri, eccetera. Questo è uno degli esempi che riporta wikipedia: Ladybird, ladybird fly away home, Your house is on fire and your children are gone, All except one, And her name is Ann, And she hid under the baking pan. Un’altra versione, più disperata: Ladybird, ladybird, fly away home, Your house is on fire, Your children shall burn! Ladybird, ladybird, / Fly away home. / Your house is on fire, / Your children are flown. All but a little one / Under a stone. / Fly home, Ladybird, / 'Ere it be gone. Una terza versione: Ladybird, ladybird, fly away home, / Your horse is on foot, your children are gone; All but one, and that's little John, / And he lies under the grindle stone. Questa filastrocca è citata anche in una famosa canzone di Tom Waits, "Jockey Full Of Bourbon" dall’album “Rain dogs” del 1985

L’agenda nascosta
Un film che parla di storia recente inglese; non lo vedo da molti anni. Nel 1999 mi ero segnato questo breve appunto: «Mi è piaciuto molto, d’altronde mi piace molto il modo di fare cinema di Loach (e viva i comunisti!). Sono quasi sicuro che tutto quello che vi è raccontato sul complotto contro Wilson per favorire la Thatcher corrisponde al vero, ma del film mi resterà impressa Frances McDormand, che è una grande attrice e della quale in questo film ci si potrebbe innamorare. Ottimi anche Brian Cox, il detective inglese, e il “cattivo” capo poliziotto Jim Norton. Onestamente, però, non ho alcuna simpatia per l’IRA e per i suoi rivali.» (novembre 1999)
My name is Joe
Protagonista è l’alcolismo: un altro film che non vedo da molto tempo. Dieci anni fa ne scrivevo: «Il “solito” capolavoro di finezza e di drammaticità del grande regista inglese. Colpisce l’amore per i suoi personaggi, la grande capacità di narrazione, la perfetta scelta dei tempi e degli attori. Loach è figlio di Shakespeare, e lo si vede nel perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Giù il cappello, ancora una volta. Peter Mullan sembra Paul Newman, ma è più bravo ancora. E poi c’è Beethoven, il Concerto per violino; e la squadra di calcio con le magliette della Germania 1970... » (luglio 2001)
The navigators
Ne ho parlato per esteso in un post che è qui in archivio, ed è un film al quale sono molto attaccato, anche e soprattutto per motivi personali. L’ho visto al cinema nel settembre 2001; poi ne avevo parlato con Stefanina che mi dirà che dev’essere un bel po’ noioso; ma Stefanina si diceva di sinistra, io pensavo che le interessasse l’argomento, invece i suoi interessi erano altrove e io mi sbagliavo. Un paio d’anni dopo, riferisco l’aneddoto a Solimano che mi dice ridendo che, “beh, la ragazza non aveva tutti i torti”. Ma qui non si tratta di stabilire se il film piace o non piace, si tratta di qualcosa che ci coinvolge tutti, e molto profondamente: la sicurezza sul lavoro, la sicurezza dei treni, come vengono gestiti gli appalti... Nel film Loach descrive con estrema precisione come e perché succedono gli incidenti sul lavoro: e ogni giorno muore gente sul lavoro, ci sono incidenti stradali e ferroviari, tram che escono dalle rotaie...Possibile che non si riesca più a parlare di quello che succede nel mondo?
La canzone di Carla
Il Nicaragua e la rivoluzione sandinista, visti attraverso gli occhi di un giovane inglese innamorato di una giovane donna immigrata. Oltre ad essere una bellissima storia d’amore (qualche vaga somiglianza con "L'assedio" di Bertolucci) è l’inevitabile vittima di una censura di mercato più o meno occulta. Poiché è un atto di denuncia molto forte verso “the masters of war” (in questo caso la CIA) lo si vede ai festival, magari si premia qualche attore, e tutto finisce lì. Mi ricordo le critiche di quando era uscito: dicevano che era buona la prima parte, ma che la seconda era noiosa e “militante”: invece è un capolavoro dall’inizio alla fine, ed è toccante. (maggio 1999)
(continua)

Ken Loach ( III )

Sweet sixteen
- Lei definisce Liam come un esempio della generazione post Thatcher.
- Sono quei ragazzi cresciuti in un paese rovinato dalla politica del governo di Margaret Thatcher, con la chiusura delle industrie e l’enorme buco della disoccupazione che prima ha toccato i loro nonni e poi ha inghiottito i padri e le madri dei ragazzi come Liam. Liam è un disoccupato di terza generazione: sa di non avere speranze né prospettive, e cerca il modo di sopravvivere in un mondo fatto di rovine.
- Quali sono le differenze rispetto a un coetaneo francese o italiano?
- Sono più le similitudini (...) Questi ragazzi chiedono ciò che tutti i ragazzi vogliono: stabilità, sicurezza, far parte di una famiglia che li ami, avere una rete di affetti intorno, qualcuno che si prenda cura di loro, sapere che c’è qualcosa al mondo per cui loro possano servire, che non li faccia sentire inutili.
- (...) Che cosa l’ha colpita nell’incontro con questa realtà romana?
- Capire quanto il contesto sociale renda difficile a queste persone lavorare. Non c’è nessun aiuto per mettere su una comunità, c’è un problema vero nei trasporti. Mi ha colpito la determinazione con cui queste persone continuano a muoversi, malgrado l’ostilità di quello che hanno intorno (...)
(Ken Loach a Roma per la presentazione di “Sweet sixteen”, film di cui è protagonista il sedicenne Liam) (intervista di Arianna Finos dal Venerdì di Repubblica, febbraio 2003)
- ...ma poi chi parla del fondamentalismo cristiano? La verità è che Bush e Blair ci hanno trascinato in un’avventura assurda, spaccando la nostra società.
- Eppure, nei giorni scorsi, per la prima volta i leader delle comunità musulmana, cristiana ed ebraica di Londra hanno condannato insieme le bombe del 7 luglio.
- Vero. E hanno fatto benissimo. E’ quello che dovevano fare. Però vorrei chiedere: dove erano questi leader religiosi quando Falluja veniva bombardata? Chi ha esecrato il fondamentalismo di Bush e di Blair, in quell’occasione? Siamo continuamente davanti a una doppia morale, è questo che non mi piace. (...)
Ken Loach, intervista a L’Espresso del 21.07.2005, di M.Fortunato
In Italia dal 10 novembre “Il vento che accarezza l’erba”, Palma d’Oro a Cannes, che racconta l’Irlanda degli anni Venti
KEN LOACH: « ALTRO CHE SCUSE, RISCRIVIAMO LA STORIA»
di Maria Pia Fusco, Repubblica 1 novembre 2006
Irlanda, anni Venti. «Un periodo tragico che non compare nei libri scolastici», dice Ken Loach che, a quel periodo, ha dedicato Il vento che accarezza l'erba, il film scritto con Paul Laverty, Palma d'oro a Cannes 2006, assegnata all'unanimità malgrado le previsioni della vigilia a favore di Almodovar e del suo Volver. Il film - esce in Italia con la Bim il 10 novembre - racconta anni di scontri, di violenza e di morte attraverso la storia di Damien, che per amore del suo paese abbandona la tranquilla carriera di medico, e del fratello Teddy, che prima si uniscono all'esercito repubblicano costituito da volontari, soprattutto contadini, operai e studenti, per fronteggiare la repressione dei soldati inglesi, poi, dopo il trattato che pose fine al massacro, si divisero e si trovarono a combattere su fronti opposti nella lunga e sanguinosa guerra civile.
«Il film nasce dalla memoria della gente d'Irlanda. Abbiamo raccolto testimonianze nelle campagne, racconti di famiglia, gli anziani ci hanno mostrato i luoghi degli scontri tra i partigiani dell'esercito improvvisato e i soldati mandati da Churchill, le grotte in cui si nascondevano le case in cui si riunivano. Paul ed io abbiamo scoperto violenze e atrocità che ignoravamo. Non bastano le scuse di Gordon Brown di mesi fa per i crimini dell'impero britannico, ci vorrebbe una rilettura della Storia dalla parte dei paesi che, come l'Irlanda, hanno subito devastazioni e massacri».
- E’ veritiera anche la vicenda di due fratelli che diventano nemici?
«La storia di Damien e Teddy è emblematica della realtà di tante famiglie divise su fronti opposti. Una guerra civile comporta scelte drammatiche e bisogna ricordare che spesso sono ragazzi di vent'anni a farle. E nei conflitti si svelano personalità diverse, Damien, il medico che sceglie gli ideali repubblicani, non accetta di dipendere ancora dagli Inglesi dopo i crimini ai quali, ha assistito e combatte per l'indipendenza totale, Teddy è un soldato che diventa politico, spera di conquistare la libertà senza più violenza. Personalmente non saprei dire da che parte avrei deciso di stare se, a vent'anni, mi fossi trovato davanti alla loro scelta».
- Che percorso ha avuto il film dopo Cannes?
«All'inizio ho avuto una serie di attacchi da parte della stampa. Sul Times per esempio un politico di destra che ha una sua rubrica mi ha paragonato a Leni Riefensthal come nemico dell'Inghilterra, su The sun il titolo era "fiancheggiatore dell'Ira". Poi è uscito il film, sono finiti gli attacchi, anzi sono uscite buone critiche un po' ovunque. In Irlanda c'è stata una risposta incredibile, il film è stato oggetto di incontri, per i giovani è stata una scoperta, per gli anziani l'occasione di raccontare storie sepolte nella memoria. Ma anche in Inghilterra è andato molto bene, forse è il mio maggior successo commerciale. E pensare che è stato il mio progetto più sofferto, ci sono voluti dieci anni per realizzarlo, nessuno ci credeva, è una storia scomoda, fastidiosa per gli Inglesi. Sono molto grato al festival di Cannes, il premio è stato utile a superare la diffidenza e gli ostacoli che in genere incontrano i miei film in patria».
- L'accusa di essere l'autore inglese più anti-British resiste...
«Viene da chi confonde il governo con il popolo. Io sono critico verso il potere britannico ma non ho nulla contro i miei concittadini e, per fortuna, ce ne sono molti che la pensano come me».
- Perché, dopo Hidden agenda, ha deciso di tornare in Irlanda?
«Hidden agenda era sull'Ira e sul terrorismo recente in Irlanda del Nord, la conoscenza di quello che è accaduto negli anni Venti aiuta a capire perché ci si è arrivati, tutto è cominciato da lì. E il tempo di raccontare le lotte contro eserciti invasori è sempre giusto, le invasioni accadono sempre anche oggi».
- Si riferisce all'Iraq?
«La mia opinione su quella guerra non e cambiata. Soldati americani e britannici hanno invaso un paese con una guerra ingiusta, illegale, basata su menzogne. La situazione è sempre più tragica, le cifre sui morti sono spaventose e il problema per Bush e per Blair è come uscirne. Lo sconcerto e il disagio si avvertono ogni giorno sulla stampa inglese. Giornali come The Guardian e The Indipendent, sempre contrari alla guerra, oggi dimostrano come la presenza dei soldati americani e inglesi rendano la situazione peggiore ogni giorno di più. I giornali di destra, sostenitori del conflitto, adesso scrivono che si deve "finire il lavoro" ma anche che bisogna andarsene il più presto possibile».
- “Il vento che accarezza la terra" è considerato il suo film più violento: è d'accordo?
«C'è sempre un rapporto tra gli ideali forti e la violenza, quando si crede in valori essenziali come la libertà la lotta per affermarli non può che essere cruenta, soprattutto quando dall'altra parte c'è un'oppressione che usa ogni mezzo, compresa la tortura. Ma nel film non ho cercato la spettacolarità della violenza, ho cercato di raccontarla come dolore e come tragedia inevitabile».
- Adesso cosa sta facendo?
«Sono alla seconda settimana di riprese di un film di cui ancora non ho il titolo. Sto girando a Londra nell'East End, nei quartieri abitati da comunità miste di diverse etnie».
- Toccherà la politica dell'immigrazione?
«Solo come sfondo di una storia privata. Oggi sull'immigrazione da noi c'è una grande ipocrisia, l'atteggiamento nei confronti di chi arriva dall'est europeo è più accomodante rispetto a chi arriva dall'Asia o da l'Africa. Il colore della pelle è diventato di nuovo un elemento di discriminazione».
Il regista inglese parla di «In questo mondo libero», in concorso a Venezia
KEN LOACH: « RACCONTO L’IMMIGRAZIONE VISTA DAI PADRONI»
di maria pia fusco, repubblica 24 agosto 2007
ROMA - L'ultima sfida di Ken Loach si chiama In questo mondo libero... Il tema è ancora quello dell'immigrazione, ma a differenza di Bread and roses in cui il punto di vista era quello dei messicani a Los Angeles o Un bacio appassionato sull'ultima generazione dei pakistani in Inghilterra, stavolta, per la prima volta, il racconto è dalla parte degli sfruttatori, dei «cattivi». Il film, sceneggiato come di consueto da Paul Laverty, è in concorso a Venezia e sarà distribuito in Italia dalla Bim.
«Negli anni Novanta è cominciata la crisi della sicurezza nel lavoro, si sono diffuse le agenzie di occupazione temporanea che usano sempre più lavoratori stranieri. E nell'indifferenza generale lo sfruttamento degli immigrati in Inghilterra è uno scandalo. Nel film ci sono le motivazioni che spingono uomini e donne a venire qui in cerca di lavoro, ma la protagonista è Angie, colei che li sfrutta», dice il regista.
- Perché ha scelto una donna?
«Angie è una trentenne con un figlio, ha subìto qualche sopruso, ha dei problemi ad andare avanti. Finché decide che deve fare qualcosa prima che sia troppo tardi, non vuole il futuro modesto dei suoi genitori e usa le sua capacità per organizzare in prima persona il commercio degli immigrati. È un personaggio «normale», più simile a tanti di noi, meno prevedibile di un tipico capitalista. E’ accattivante, simpatica, vivace, piena di energie e di determinazione. Fa parte di una cultura, é il prodotto della politica della Thatcher, che esaltava il senso degli affari e le capacità imprenditoriali. Naturalmente nella competizione si indurisce, non può permettersi storie d'amore. Nel sesso il comportamento è maschile, è lei che sceglie il partner da portare a letto, come in genere fanno gli uomini».
- Ma è anche spietata. C'è una i violenza sottile nel film, i personaggi sono quasi tutti negativi...
«C'è un personaggio positivo ed è quello del padre, legato ai valori dell'integrità e dell'onestà. Lui non accetta la giustificazione della figlia «lo fanno tutti». Però il film non giudica Angie, bensì il sistema nel quale una persona come lei può prosperare, ed è un sistema accettato ovunque nel mondo occidentale, non credo solo in Gran Bretagna».
- Oltre alla Polonia e all'Ucraina, il film è ambientato a Londra: c'è una ragione?
«Londra è il cuore dell'Inghilterra, il centro dell'economia, e con circa due milioni di immigrati che lavorano in condizioni illegali, lo sfruttamento è un elemento centrale, non un fatto che accade solo ai margini dell'economia ufficiale. Con tutte le contraddizioni: da una parte si riconosce che l'economia non sopravviverebbe senza la forza lavoro degli immigrati, dall'altra la destra ne vorrebbe l'espulsione».
- E’ vero che nel film lei e Laverty avete voluto evitare situazioni assai più dure di quelle mostrate?
«Abbiamo fatto una ricerca prima di scrivere il film e abbiamo sentito storie incredibili. Di norma gli immigrati pagano cifre altissime ad associazioni mafiose per entrare nel paese (per un cinese ad esempio la cifra è di 25 mila dollari, un debito che pagherà a vita ) e senza garanzie, cominciano a lavorare in un cantiere poi vengono lasciati per strada, incidenti sul lavoro e morti tragiche tenute nascoste, turni massacranti, quelli che vengono dal Bangladesh ad esempio lavorano ogni giorno per 14 ore per due pence l'ora. Ma nel film, d'accordo con Paul, ho cercato di alleggerire la realtà, vorrei evitare l'accusa del "solito estremista provocatore"».
- Pensa che con il passaggio da Tony Blair a Gordon Brown la politica sull'immigrazione potrebbe cambiare?
«Non certo in meglio. Brown ha solo un'immagine diversa da Blair, più accattivante, più simpatico, ma la sostanza è la stessa».
- Lei sembra più pessimista del solito...
«Niente affatto. Se continuo a fare film come questo, significa che non sono disperato, credo ancora che qualcosa si possa fare. E non solo nel mio paese».
- Che reazioni spera di avere?
«So benissimo che da parte del potere non avrò applausi, anzi sarò accusato di provocazione. Ma lo scopo non è quello di provocare o di sconvolgere la gente con immagini o storie estreme. Del resto la realtà della sfruttamento non è una novità, tutti, nella nostra vita di ogni giorno, lo sfioriamo, basta entrare in un supermercato, nelle cucine dei ristoranti, nei piani bassi di un albergo. Il film, se mai, è una sfida alle certezze consolidate che la spregiudicatezza imprenditoriale e il profitto ad ogni costo siano ormai essenziali all'economia e al progresso, che la competizione spietata sia un valore, che tutto, anche gli esseri umani siamo merce di scambio nel mercato mondiale. Non penso che sia questo l'unico modo di vivere possibile, e se il film riuscirà a far riflettere qualcuno sulla possibilità di trovare strade diverse e una comunicazione più umana avrò raggiunto lo scopo».
(continua)

Ken Loach ( IV )

Nell’anno 2000, uno strano incontro: un dialogo fra Ken Loach e Susanna Tamaro, per un incontro all’Istituto di Cultura Italiana di Londra, moderato da Enrico Palandri. Il testo integrale si trova sul sito della Tamaro, io lo avevo letto su La Repubblica del 22 dicembre 2000; ne riporto qui qualche estratto, con l’attenzione ovviamente rivolta a quello che dice Ken Loach.
Ken Loach - Prima di tutto grazie per avermi invitato e per parlare in inglese! Mi pare che tu ti sia riferito a me come a un autore, cosa che in realtà non sono; comunque sono abbastanza fortunato da poter lavorare con ottimi autori. A volte i registi si prendono meriti che non hanno, mentre io sento di dover riconoscere il loro ruolo. Credo però che la domanda sia molto interessante: da una parte direi che si cerca di fare film sulla classe operaia, ma la classe operaia non è certo al margine, è anzi il nucleo stesso della società. Quindi da questo punto di vista non mi sento assolutamente di fare film su persone emarginate. Forse su persone che hanno difficoltà, magari escluse dal mainstream culturale, ma senz'altro al centro della società. Mi pare sia una distinzione importante perché chiarisce qualcosa sulla classe dominante, quella che prende le decisioni, perché ci dice qualcosa sul loro modo di vedere il mondo e anche sul fatto che oggi la vita culturale riflette il mondo per come lo vedono loro, mentre la vasta maggioranza delle persone è diversa, con i suoi drammi, i suoi divertimenti, la sua vita, che spesso non ha spazio per essere rappresentata. Perciò credo che in qualche modo noi cerchiamo di dare voce a persone che non hanno la possibilità di essere sentite, ma non credo siano emarginate.
Susanna Tamaro - Per quel che mi riguarda, come scrittrice la cosa che più m'interessa è raccontare le persone che sono in un momento di fragilità; i miei libri parlano quasi esclusivamente di anziani, adolescenti con problemi, di bambini, che non so se siano marginali, ma che sicuramente non fanno parte della vita attiva del mondo che produce. Dalla loro posizione i miei soggetti possono permettersi di riflettere sulla vita e sul suo senso, sempre da un punto di vista di povertà interiore, di esclusione perché penso che in una persona in questa posizione ci sia più possibilità di riflessione sulla società.
EP - Siete stati entrambi esposti nella vostra carriera ad alterne fortune. Cosa vuol dire per voi essere dentro o fuori questo mainstream culturale?
KL - Personalmente penso non si dovrebbe mai essere all'interno del mainstream culturale. Non so se sia lo stesso in Italia, ma la House of Lords è piena di persone ritenute scrittori o registi e completamente assorbite nell'establishment, e una volta che si è lì si assume il loro punto di vista, si smette di fare domande, mentre per me essere scrittore o regista vuol dire essere sovversivo, vuol dire poter fare le domande che loro non vogliono che si facciano. È ironico dire questo a Belgrave Square, perché non si potrebbe essere più vicini all'establishment, ma è nostra responsabilità continuare a mettere il mondo sotto sopra e a fare domande, paragoni e connessioni che loro non vogliono vengano fatti. Perciò penso sia importante per me rimanere al di fuori del mainstream culturale, perché nel momento in cui si accettano gli onori dello stato ci si compromette, si viene assorbiti e fagocitati dallo stato e dal suo punto di vista.
....
EP - Pensate che sia più o meno difficile per un artista opporsi al mondo che ritrae? Vi sentite in una posizione privilegiata per giudicare questo mondo rispetto alle persone che raffigurate?
KL - No, chiunque faccia un film si trova in una posizione molto diversa da quella della gente che cerca di ritrarre. Credo si debba cercare di essere un buon giornalista, con buone orecchie e buoni occhi, capace di osservare, di ascoltare, di cercare di mettere il soggetto al centro del proprio lavoro e renderlo la cosa più importante. Spesso in un film, a seconda del genere o dello stile, l'argomento si ritrova relegato in fondo alla scena, e questo è un peccato perché è il soggetto che deve essere davvero discusso e analizzato prima di essere presentato al pubblico. Bizzarramente, più che i critici, è il pubblico a preoccuparsi dell'argomento del film, i critici parlano di tutto il resto ma mai del contenuto. Qualche anno fa ho fatto un film sull'Irlanda e sul comportamento inglese nei confronti della questione irlandese e a una visione del film è stato impossibile riuscire a parlare della questione centrale del film. L'argomento centrale del film è spesso ignorato, si parla di trucchi letterari, di stili di regia, ma il contenuto dell'opera viene sorvolato. È lo stesso in Italia?
...
KL - Se si fanno piccoli film inglesi questo non è davvero un problema. Se facessi film a grande budget, all'americana, la domanda avrebbe più senso, ma non è esattamente un problema quando si fanno film a piccolo budget per Channel 4. Comunque credo sia anche una questione personale, bisogna essere consapevoli del fatto di lavorare con delle persone, tener conto della loro vulnerabilità e del fatto che sono sempre più importanti dei film. Abbiamo appena finito di girare un film su ferrovieri, e molte delle persone presenti nel film sono veri ferrovieri. La cosa più importante è stata per me far sentire che erano loro gli esperti, erano loro che ne sapevano più di noi. Non si può pensare di andare da alcune persone a dare ordini su come debbano recitare, su dove debbano mettersi. Bisogna diventare amici delle persone che lavorano in un film, e in questo modo tutto può diventare facile. In un certo senso fare un film non è la cosa più importante di tutte, il modo in cui viene presentata la gente che lavora nel cinema, tutta l'importanza che viene loro data è davvero esagerata, immeritata da molti punti di vista. Bisognerebbe evitare di credere alla pubblicità che circonda il mondo del cinema e mantenere un'umiltà di fondo che ti permetta di evitare molti problemi e molte incomprensioni.
EP - La cosa importante è dunque la vita stessa, la realtà?
KL - Sì, penso che questo dovrebbe influenzare tutto il proprio modo di lavorare; certo, immagino sia diverso per uno scrittore che non deve tener conto di altre trenta o quaranta persone che lavorano con lui, ma penso che per noi sia importante conservare al minimo l'aspetto tecnico del fare film, bisogna avere chiara l'idea che si sta lavorando su una realtà da riprodurre, e questo è l'obiettivo principale.
...
KL - La cosa peggiore nell'essere un regista, e invidio gli scrittori per non doverlo fare, è alzarsi alle quattro del mattino per filmare un'alba, o lavorare di notte, davvero si perde la voglia di vivere filmando alle due di notte. Mi piacerebbe diventare uno scrittore per evitare quell'aspetto del mio lavoro. Penso che la cosa migliore del fare cinema sia invece collaborare con un gruppo, ed è per questo che ammiro gli scrittori che sono in grado di lavorare con la sola compagnia di un foglio di carta. La cosa più bella del fare film è la collaborazione, lanciare un'idea e poterne discutere, lavorare con un attore e vederlo diventare il personaggio, osservare una scena trasformarsi sotto i propri occhi in qualcosa che non si era pensato da soli. Posso raccontare un breve aneddoto in proposito? Qualche anno fa ho girato un film sulla guerra civile spagnola, "Land and Freedom"; c'è una scena nel film in cui la milizia repubblicana marxista si trova costretta a lasciare le armi a causa dell'arrivo delle truppe staliniste. Il modo in cui lavoriamo di solito consiste nel non dare agli attori l'intera sceneggiatura, ma lasciare piuttosto che la storia si svolga sotto i loro occhi. Quando abbiamo girato quella scena, la milizia aveva appena finito di combattere e si stava riposando su un prato, e le persone che erano lì per imporre il disarmo arrivano e ordinano loro di abbandonare le armi. Nella scena, la milizia pensa all'inizio che questi soldati, meglio equipaggiati di loro, siano arrivati come rinforzo, perciò li accolgono con gioia. Mentre la scena va avanti, però, questi nuovi soldati fanno capire le loro vere intenzioni, addirittura arrivano a minacciare gli altri soldati per farsi consegnare le armi. Nella sceneggiatura c'era a questo punto un dialogo fra le due fazioni, ma quando abbiamo girato la scena, i soldati della milizia, nel momento in cui vengono minacciati dall'esercito regolare, sono scappati e si sono nascosti. Ricordo che avevo la cinepresa puntata sul campo, e di colpo non c'era più nessuno in scena, si erano tutti nascosti fra i cespugli e non avevamo potuto girare nulla. Ma gli attori ci avevano fatto capire che era quella la vera reazione di soldati che si trovano di colpo minacciati da chi credevano essere loro amico. Abbiamo così riscritto la scena in maniera diversa. Penso sia molto utile poter utilizzare le reazioni degli attori sul set. Quando abbiamo scritto e poi letto quella scena, tutto sembrava funzionare alla perfezione, ma ci sbagliavamo, quella non era la realtà. Lavorare con questo tipo di emozioni immediate è in un certo senso un'arma terribile, affascinante e inafferrabile, essere in grado di usare l'istinto dell'attore ha un grande valore, credo che questo mi mancherebbe dovendomi da scrittore confrontare solo con un foglio di carta.
...
KL - Penso che possa essere un problema se i film sono dominati dalla trama; quando questo accade, si tende a ignorare il punto di vista dei personaggi, quel che loro farebbero, e questo è il problema del cinema commerciale, che non ha riguardo per le sfumature del comportamento umano in certe situazioni.
....
EP - Vorrei tornare indietro a quello che si diceva prima sul mainstream e sulle realtà invece marginali. Entrambi avete spesso scelto di ambientare le vostre storie al di fuori di grandi centri, mi chiedevo che tipo di vantaggio avesse dato questa scelta al vostro lavoro.
KL - Personalmente non la vedo proprio così, quel che m'interessa sono le implicazioni della storia, che sono più importanti della trama generale. Se le implicazioni personali riescono a guadagnare l'importanza che spetta loro allora tutto il resto, compresa l'ambientazione, passa un po' in secondo piano. Poi trovo sia importante fare film su persone che ti piacciono: può suonare stupido, ma fare un film diventa una sorta di viaggio sentimentale, mentre riuscire a farne uno su qualcuno che non ti piace credo sia un compito estremamente difficile. Un'altra cosa che per me è molto importante è lavorare con qualcuno che parla la propria lingua, con questo intendo dire che, ad esempio, non trovo intrigante pensare di fare un film su gente ricca perché non la sento parlare la mia lingua, parlano male, non per quanto riguarda la grammatica, ma parlano in modo piuttosto arido. Bisogna scendere in una miniera, andare fra gli operai, su un molo, dove la lingua è divertente, piena di metafore, di immagini, trovo che quello sia importante. L'anno scorso abbiamo fatto un film a Los Angeles, "Bread and Roses", che è il cuore dell'industria cinematografica, ma è un posto davvero terribile, cercate di non andarci, se potete! Abbiamo fatto questa storia sui domestici messicani che lavorano in America e che sono così umani, gentili e in qualche modo trascendevano il luogo dove ci trovavamo, non sembrava di essere in questa metropoli così importante per il cinema. Perciò non credo si tratti semplicemente di una questione di geografia, quanto, e voglio proprio dirlo, di classe sociale. Non potevo resistere, dovevo dirlo!
...
Pubblico (1) (a KL) - Volevo sapere cosa pensa del fatto che ormai la retorica liberista che crea marginalità sia propugnata in Europa per lo più da governi di sinistra.
KL - Credo sia vero, e che se ci si guarda indietro questo sia stato purtroppo il corso della politica europea negli ultimi vent'anni almeno. Pensiamo al caso della Thatcher e al suo progetto di ristrutturazione della società, che ha causato disoccupazione di massa e grandi difficoltà di sviluppo. I sindacati sono stati emarginati e così il Labour Party, tutto questo per fare dell'Inghilterra, e lo dico fra virgolette, un "Paese progredito" e tutti gli altri Paesi europei hanno seguito lo stesso trend, che era poi quello dell'America reaganiana. Sembrava fosse sexy a un certo punto essere di destra: ricordo una pubblicità su Channel 4 all'inizio degli anni Ottanta, in cui si cercavano dei produttori di destra.
Pubblico (2) - Io sono venuto qui, e tutto quello che ho sentito sono chiacchiere inutili. Jerry Springer è un eroe per la mia generazione perché sa far vedere alla gente quanto è stupida senza bisogno di essere così paternalistico e arrogante. Vogliamo risposte e non chiacchiere. Tutti i tuoi film fanno la stessa domanda "perché la società è fallita?" Secondo me quella è la domanda sbagliata, dovresti chiederti perché tu, e la tua generazione, avete fallito. Siamo stufi ormai.
KL - Non credo sia un problema di generazioni che falliscono, la questione è più generale, la società ha fallito, magari può essere stata colpa della mia generazione, ma non credo davvero sia solo quello il problema. Mi dispiace vedere che tu non abbia imparato nulla da questi fallimenti e che continui a vivere con le loro conseguenze. Leggendo i libri di Susanna mi è sembrato di vedere delle persone che cercano di combattere contro i propri errori, per non farli di nuovo, e che cercano di imparare qualcosa di importante dai propri sbagli. Mi pare che i suoi libri si occupino molto di questi problemi. Non riuscire a venire a patti con i propri errori, non riuscire ad ammetterli, porta solo molte altre discussioni e, probabilmente, ulteriori errori.
...
Pubblico (6) - Come riesce a difendere il suo essere radicale e incisivo da quella parte di società, progressista e radicale, che, pur non avendo alcun interesse per il contenuto, segue molto volentieri i suoi film così da potersi sentire "rivoluzionaria"?
KL - Penso che la prima responsabilità di un autore sia verso le persone su cui decide di girare un film o fare una ricerca; in questo senso non c'è spazio per un atteggiamento auto-adulatorio o per altre cose del genere. Qualche anno fa abbiamo fatto un film, "My Name is Joe", a Glasgow e abbiamo girato in un sobborgo della città, dove le condizioni di vita sono molto dure; il nostro primo interesse era fare in modo che la gente del posto potesse riconoscersi nel nostro lavoro - quella, come ho già detto, è l'unica cosa davvero importante. Tutto il resto è propaganda. Credo che la condizione delle persone sia così bisognosa di attenzione che non c'è niente altro da tenere in considerazione. Riuscire a guardarli negli occhi dopo aver finito è la più grande soddisfazione professionale. E poi c'è sempre un altro lavoro, qualcos'altro a cui prestare la propria attenzione.
...
KL - Penso che, parlando di comunismo, il problema ora sia quello di avere davanti agli occhi quasi novant'anni di fallimenti, diciamo dall'inizio degli anni Venti. Trovo però che si abusi del termine e che si indichi come comunismo qualcosa che forse comunismo non è mai stato. Se la allontaniamo definendola semplicemente come un'utopia, sarebbe troppo facile per le persone che guidano le grandi corporazioni. Se decidessimo di abbandonare qualsiasi forma di resistenza, sarebbe come commettere un suicidio collettivo. Per quel che mi riguarda, l'unica alternativa alla resa è il potere collettivo, questa è l'unica alternativa al potere delle corporazioni. E non credo che mi arrenderò tanto facilmente.