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“Roma” non è un film difficile. Ci si può perdere dentro, perché non è un racconto lineare, ma procede a strappi; e l’unico tema conduttore è il piacere del raccontare, quasi una chiacchierata tra amici dove prevale il comico, ma lo sfondo è spesso drammatico.
E’ un po’ come i temi che si danno a scuola: “Parlare di Roma”. E Fellini inizia così, da bravo scolaro: con i ricordi di quand’era bambino. Il primo ricordo di Roma, all’apertura del film, scorre via veloce e si rischia di perderlo: un’antica pietra romana, in mezzo ai campi, nelle campagne vicino a Rimini. E’ una sequenza buia, poco definita, come i nostri ricordi da bambini, quando si è molto piccoli: ci si ricorda tutto, ma è difficile mettere a fuoco i particolari.
Il film vero e proprio inizia con la scuola, dove Roma è parte integrante della ridicola retorica fascista, quella che porterà alla “morte della Patria” dell’8 settembre 1943. Sono sequenze dove si ride molto: per un bambino – come Fellini ha spiegato più volte (si veda “Intervista sul cinema”, editore Laterza, a cura di Giovanni Grazzini) - quei ceffi in camicia nera facevano paura ma erano davvero ridicoli, e non si può certo dargli torto.
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Il cinema di Fellini può essere letto come una sua autobiografia personalissima, che comprende anche i sogni notturni e qualche visione fantastica. Al bambino Fellini appartengono per intero “La strada” e “I clowns”, e molti frammenti di “Roma”e di “Amarcord”; al Fellini ventenne, “I Vitelloni” e altri momenti di “Roma”; al mondo dei sogni, “La città delle donne”; a quello delle visioni “Toby Dammit”, “Giulietta degli spiriti”, “Le notti di Cabiria”, “La voce della Luna”, il mai girato “Mastorna”...
Merita forse un cenno la sequenza del cinema, che può sembrare strana alle nuove generazioni ormai tristemente abituate ai multisala con il posto numerato, che somigliano tanto (troppo) al salotto di casa o alla sala d’attesa del dentista, con in più la tortura degli spot a tutto volume e senza la possibilità di azionare il telecomando. Il cinema vero era questo, soprattutto in provincia e nei cinema più popolari, ma anche nei cinema di prima visione: questo casino qua, né più né meno. Gente che entrava a film iniziato e aspettava in piedi che si liberasse un posto, nel buio; posti scassatissimi proprio sotto allo schermo, roba da torcicollo e mal di testa, eccetera. Fellini ci si diverte molto, e ripeterà il divertimento più avanti, con la ricostruzione del teatro di varietà a Roma, in tempo di guerra: ma non esagera più di quel tanto, anche se può sembrare strano. Il cinema era allora un’arte viva e vitale, dell’essere vivi fa parte anche la confusione.
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Gonzales non è un nome noto, è molto giovane e sembra molto spaesato, come se fare l’attore non fosse il suo mestiere: quasi soltanto un bel ragazzo. Che l’abbia scelto Giulietta Masina? Bellino come lei vedeva il suo Federico, conosciuto proprio in quegli anni? Gonzales è indubbiamente un bel ragazzo, ma quasi inespressivo, un figurino da vignetta di Novello, una comparsa (sarà così anche il giovanissimo Sergio Rubini in “Intervista”, negli anni ‘80). Forse Fellini non voleva che ci identificassimo troppo nel suo protagonista, forse ha volutamente scelto di non avere un protagonista (qualcosa di simile farà Andrej Tarkovskij in “Nostalghia”, però con un attore affermato e molto bravo come Oleg Jankovskij, costretto spesso all’inespressività). Un attore più espressivo avrebbe dirottato su di sè tutta l’attenzione, ma Fellini vuole che si guardi tutto il resto, è Roma e i romani che gli stanno a cuore, non il ricordo di se stesso.
Anche su questa lunga sequenza, molto divertente, c’è poco da raccontare: basta guardare e si capisce tutto. Mi soffermo anche qui su un dettaglio: quel tram che passa sferragliando in mezzo alla gente, quasi in mezzo ai tavolini della trattoria. Magari qualcuno ne avrà raccapriccio, ma vorrei ricordare cosa succede oggi a Milano con tutti i nostri bei discorsi moderni sulla sicurezza: ci si riempie la bocca di discorsi sulla sicurezza, ma a Milano gli incidenti sui tram viaggiano alla media di uno a settimana, anche gravi. E questo nell’anno 2009: per il 2010 è ancora presto, intrecciamo le dita, facciamo gli scongiuri, e speriamo in bene.
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Alla fine di questa sequenza, vediamo Fellini dire qualcosa a dei giovani che lo hanno riconosciuto (“penso che sia giusto che ognuno faccia quello che si sente di fare”). Fellini non ha mai voluto parlare apertamente di politica, però si può far notare che in “Roma” dimostra più volte aperta simpatia verso questi giovani del ’68 e dintorni. Nel finale, mostrerà una carica della polizia verso un gruppo di ragazzi che stavano solo seduti tranquillamente in piazza; e sembra invidiare molto la libertà sessuale e la naturalezza dei comportamenti delle giovani generazioni, contrapposte ai mille impacci, all’ignoranza e alle goffaggini dell’educazione da lui ricevuta.
Oggi sono passati quarant’anni, quei giovani sono più vecchi del Fellini di allora, il ’68 viene spesso ridicolizzato o demonizzato: ma quanti vorrebbero davvero tornare a quell’epoca di braghettoni nella quale crebbe Fellini? Fellini ci racconta un momento di passaggio, e lo fa senza prendere una decisa posizione, ma con uno sguardo molto attento a quello che succede.
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Qui mi fermo, faccio una pausa e auguro buona visione (continuo nel prossimo post).
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