sabato 30 maggio 2020

Il tempo si è fermato



Il tempo si è fermato (1959) Regia di Ermanno Olmi. Scritto da Ermanno Olmi e Carlo Bellero. Fotografia di Lamberto Caimi. Interpreti: Natale Rossi, Roberto Seveso, Paolo Quadrubbi. Durata: 100 minuti

Siamo in montagna, sul cantiere di una diga; è inverno, c'è neve dappertutto e non si può lavorare. A controllare i lavori rimangono solo due persone, due operai, praticamente isolati dal mondo se non fosse per un telefono, una teleferica e una radio. L'anno è il 1958, la montagna è sull'Adamello, diga del Venerocolo. Uno dei due operai, due montanari esperti, ha finito il suo turno e sta tornando a casa; si salutano e quello che rimane si dispone ad aspettare l'arrivo del turnista subentrante, il Pedrazzini. Ma c'è una sorpresa: il Pedrazzini non c'è perché sua moglie ha avuto un bambino, e al suo posto arriva un ragazzo molto giovane, uno studente lavoratore, uno di città. Questo film di Ermanno Olmi, che segnerà il suo debutto nel cinema importante con un lungometraggio, racconta dell'incontro fra il "vecchio" montanaro e il giovane cittadino: ma è meglio lasciar parlare lo stesso Olmi, che racconta la nascita del film in una bella intervista disponibile qui on line:
Conversazione con Ermanno Olmi, di Tatti Sanguineti
Olmi: (....avevo girato) tanti documentari, tutti ambientati nel mondo del lavoro, e naturalmente poi l'interesse si focalizzò soprattutto sulla presenza degli uomini nelle attività lavorative (...) la scoperta del mondo di queste valli che erano rimaste isolate, direi da secoli, rispetto ai grandi centri dove avveniva tutto ciò che si considerava progresso; improvvisamente in queste valli incominciarono a suonare sirene e a rombare motori, e arrivarono le attrezzature per costruire questi monumenti giganteschi, ciclopici, che erano le dighe che sbarravano l'intera valle (...) Gli abitanti di queste valli si sono sentiti improvvisamente investire dal progresso, lì dove per secoli non si era mosso nulla. Quell'umanità conservava in quegli anni un dato distintivo rispetto all'umanità delle città. Direi che nelle valli vedevi l'uomo nella sua accezione più alta, l'uomo in rapporto con la Natura, l'uomo in rapporto con i problemi della sopravvivenza (...) lì si aveva bisogno solo dell'essenziale. Nelle città del dopoguerra, a Milano, c'era già il boom economico (...) Volevo rappresentare l'uomo come era prima che avvenissero tutti questi grandi cambiamenti (...) mettevo vicino queste due generazioni perché avvertivo, allora forse inconsapevolmente o non con la consapevolezza di oggi, che quella era una linea storica di demarcazione: finiva un'era dell'uomo e ne cominciava una nuova. Direi che addirittura il mondo industriale, cominciato con il Ballo Excelsior all'inizio del secolo, non ha segnato così il processo di mutamento storico della società a venire. Nell'ultimo dopoguerra è finito l'Ottocento ed è cominciato il Duemila. (...) sento che quella è proprio una data di nascita, di questo nuovo mondo che oggi vediamo poi esprimersi attraverso tecnologie di immensa raffinatezza, allora assolutamente inimmaginabili (...)
(Conversazione con Ermanno Olmi, a cura di Tatti Sanguineti, Cineteca di Bologna)

E' un'intervista molto bella, dura 23 minuti e Olmi continua raccontando il silenzio dopo il fermo del cantiere, l'enorme quantità di neve, l'immobilità, le figure minime degli uomini nel cantiere deserto. Un film sulla pausa, dopo i rumori delle macchine e l'andirivieni dei lavoratori dei mesi precedenti; ed è nella pausa che emergono le differenze prima non avvertibili. C'erano tutti i motivi per cui queste due persone non si conoscessero: d'estate, con il cantiere aperto, non si sarebbero nemmeno parlati, ma ora i due cominciano a scoprirsi e a riconoscersi. Olmi dice ancora che "il tratto preciso del film è che pur nella diversità ci si può intendere" e sottolinea la presenza di uno studente lavoratore, figura tipica degli anni '50 e '60: molti figli di operai si sono laureati così, perché altrimenti non avrebbero potuto pagarsi gli studi. E' molto bello anche il discorso sulle pellicole cinematografiche e sul montaggio cinematografico; alla fine Olmi decide di girare in Cinemascope, cioè nel formato dei kolossal, per dare il giusto risalto al panorama e alla diga e anche perché all'inizio pensava di fare un documentario, ma si era accorto che il piccolo formato dei documentari, nelle sale cinematografiche, veniva penalizzato nella proiezione. Dopo il Duemila, girando "Cantando dietro i paraventi", Olmi si dichiarerà entusiasta delle nuove tecnologie e anche questa può essere una sorpresa per chi non conosce Ermanno Olmi se non attraverso luoghi comuni e stereotipi nati dalla pigrizia di chi scrive di cinema con superficialità. Per quanto mi riguarda, trovo l'analisi di Olmi sul Novecento molto migliore di quelle del tipo "il secolo breve", che si occupano solo di guerre e di ideologie: Olmi coglie il momento vero del cambiamento (nei primi anni '60 arrivano anche le materie plastiche e l'elettronica), e indica un altro cambiamento epocale che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Sta scomparendo il lavoro manuale, sempre meno persone sono in grado di fare lavori con le proprie mani, e ce ne accorgiamo quando c'è bisogno di un idraulico o di un muratore; e stanno scomparendo anche le persone, un lavoratore vale ormai pochissimo in termini economici, le macchine hanno tolto spazio e lavoro agli umani, e stiamo facendo di tutto per non vederlo.


In anni passati mi ero segnato queste righe di appunti su "Il tempo si è fermato":
- Un Olmi del 1959, un film che avrei voluto scrivere io. Anche se può apparire ormai datato, è un film che apre il cuore; bisogna proprio dirlo, Olmi non è un regista come tanti altri, è un poeta del dettaglio e la sua grandezza va cercata nei particolari minimi, e nella scelta dei luoghi e degli attori. Natale Rossi, per esempio, me lo ricorderò, anche perché di persone così belle e semplici ne ho conosciute anch’io, e mi dispiace che siano di una razza in via d’estinzione. (maggio 1993)
- "Il tempo si è fermato" racconta di neve e solitudine, ma non è "Shining": è il mondo del lavoro e delle persone buone e semplici, dei lavoratori; sono le persone che mandano avanti il mondo in cui viviamo, in silenzio, anche con sacrifici personali, mentre gli altri si mettono in vista e non fanno niente, o fanno solo confusione. E' grazie alle persone come Natale Rossi (il "vecchio" del film) se viviamo in un mondo confortevole, ma purtroppo di Natale Rossi ne sono rimasti ormai pochissimi. Visto dopo tanti anni, è sempre molto bello; sembra a tratti un film di Disney degli anni '50, dove il cucciolo chiassoso irrompe nella vita dell'uomo maturo, l'uomo silenzioso, il montanaro paterno e un po' bambino ancora nell'anima, in soggezione verso il ragazzo "che ha studiato" e che veste abiti di marca, non fatti in casa. Ricorda un po', quindi, anche il "Balthasar" di Robert Bresson, dove c'è l'irruzione della radiolina nel silenzio del tempo di Pan, il rumore elettronico (qui è un disco di Celentano) che interrompe una quiete ancestrale, però questo è un film buono con una storia positiva. Mi sono divertito anche nel vedere Natale Rossi, nell'attesa che arrivi il Pedrazzini (non arriverà, gli è nato un figlio) giocare schizzando acqua sulla stufa, come facevo anch'io quando avevamo in casa una stufa simile (un gesto ritrovato, dimenticato da tempo). Per un ragazzo di città, sulla neve si va per sciare; per un montanaro gli sci servono per spostarsi nella neve; ed anche questa è una differenza notevole, della quale abbiamo dimenticato tutto. Film da conservare con cura, molto amato, della mia stessa età, girato sull'Adamello, diga del Venerocolo. (anno 2014)




domenica 24 maggio 2020

Tre operai


 
Tre operai (1980) Regia di Francesco Maselli. Tratto da un romanzo di Carlo Bernari. Scritto da Carlo Bernari, Francesco Maselli, Enzo Siciliano. Consulenza storica di Paolo Spriano. Musiche di Giovanna Marini. Interpreti: Stefano Santospago, Nunzia Greco, Imma Piro, Nello Mascia, Paolo Falace, Elena Da Venezia, e molti altri. Durata: quattro puntate di un'ora circa ciascuna

"Tre operai", romanzo di Carlo Bernari, diventa un film in quattro puntate per la regia di Francesco Maselli, trasmesso dalla Rai nel 1980. Il romanzo è del 1934, Carlo Bernari nasce nel 1909 e racconta una storia che inizia a Napoli nel 1914, con un giovane che viene condotto dal padre a lavorare in fabbrica, una tintoria di tessuti che è anche lavanderia, dove le condizioni di lavoro sono pessime (bisolfito, ipoclorito e acido solforico sono delle brutte compagnie) e dove non esiste ancora il sindacato, che c'era già nei siderurgici e negli edili, nei ferrovieri e nei metalmeccanici. E' un ambiente dove anch'io ho iniziato a lavorare, nel comasco, e dove sono rimasto fino ai primi anni '80; le condizioni di lavoro erano molto migliori di quelle che vediamo nel film, e mi verrebbe da scrivere "ovviamente" ma poi non è così ovvio, questo miglioramento, non lo è affatto. Il miglioramento delle condizioni di vita, sul posto di lavoro, non è mai ovvio e non dipende dal passare degli anni: non nasce da solo ma è stato ottenuto con dure lotte e con rischi notevoli da parte di chi si è impegnato per farlo cambiare in meglio. Carlo Bernari e Francesco Maselli ci mostrano come è andata, e io mi segno una frase detta nella prima puntata: che magari ci vorranno cinquant'anni per ottenere dei risultati ma non per questo bisogna scoraggiarsi. Io sono arrivato cinquant'anni dopo queste lotte, e ho visto i risultati. Non tutto era perfetto neanche negli anni '80 e '90 del Novecento, ho conosciuto persone che avevano subìto danni derivati dall'uso dell'idrosolfito e so come vengono prodotti i coloranti (quasi tutti hanno intermedi cancerogeni, e anche quelli naturali richiedono trattamenti pericolosi per l'estrazione e per l'uso), ma i miglioramenti ci sono stati e bisogna ringraziare chi si è impegnato per ottenerli anche a rischio della propria incolumità personale. Bisogna ricordare queste persone, soprattutto in questo inizio di Nuovo Millennio in cui tante di quelle conquiste sono già andate perdute.

 
C'è molto spazio anche per il privato dei protagonisti, "Tre operai" è un romanzo e non un saggio storico; alcune sequenze fecero nascere problemi, perché davvero spinte per l'epoca (per esempio quello che si direbbe un ménage à trois, e per due volte) e viene da pensare che oggi passerebbe tutto inosservato, data la delicatezza con cui viene trattato il tema e visto tutto quello che passa ogni giorno in tv in ogni ora del giorno.
Il primo contatto del giovane protagonista con il sindacato è questo: a una riunione, dove sono presenti dei ferrovieri, espone i suoi problemi e uno dei presenti gli risponde "devi guardarti allo specchio e dirti che sei un coglione, perché non devi aspettare che i tuoi problemi li risolva qualcun altro" e cioè che spetta a lui e ai suoi compagni di lavoro iniziare la lotta per migliorare le loro condizioni. La stessa sera si ferma a parlare con un dirigente sindacale che gli spiegherà con più educazione e comprensione i rudimenti della presa di coscienza operaia.
Nella lavanderia il giovane, interpretato da Stefano Santospago, conosce un altro operaio con cui diventerà amico (Nello Mascia) e la giovane Anna (Nunzia Greco) con la quale nasce subito un grande affetto. Anna ha una sorella, Maria (Imma Piro) bella e spregiudicata, che si fa mantenere da un avvocato; questo è il quartetto dei protagonisti, un 3 + 1 come in Dumas, di cui seguiamo le vicende fino all'avvento del fascismo - quindi il finale non può essere in positivo (il libro di Bernari è del 1934).
Il protagonista studia, s'impegna, tenta la carriera sindacale ma ne verrà respinto con grande delusione perché gli operai sono spesso nati servi e alcuni sono anche traditori; verrà arrestato e mandato in guerra (tre anni in prima linea, 1915-1918) e al ritorno, dopo un'esperienza in Calabria, verrà coinvolto nell'occupazione delle fabbriche (lo storico Paolo Spriano è tra i consulenti di Maselli) con finale negativo perché saranno altri operai a mettere fine all'occupazione aprendo i cancelli ai carabinieri. Proprio in quei giorni, Anna muore di tbc. Nel mezzo, c'è anche la nascita dell'ILVA di Taranto, e tante altre cose.
 
 
"Tre operai" è stato quasi dimenticato, anche cercando in rete si trova poco; ed è un peccato perché Bernari è un autore importante e perché Maselli fa un'ottima regia, molto originale e con tocchi da maestro. "Tre operai" è importante anche perchè ci mostra cosa c'è dietro il mondo della moda, dei vestiti e delle scarpe e borsette che portiamo: le industrie tessili e le concerie sono ai primissimi posti per l'inquinamento delle acque, ma è un dato di fatto che tendiamo a rimuovere. Si è soliti pensare al mondo della moda come a qualcosa di elegante e ovattato, ma dietro c'è questa realtà; in campo tessile e tintoriale qualcosa si è fatto, con i depuratori soprattutto, ma le concerie sono ancora altamente e pesantemente inquinanti. In Italia le concerie sono concentrate in Campania e nel  Veneto, nella zona di Arzignano; molte fabbriche hanno chiuso e sono state delocalizzate negli ultimi decenni, proprio per non dover sopportare i costi della depurazione. E' di questi giorni la notizia che il fiume Sarno, in Campania, era tornato ad avere le acque limpide durante il "lockdown" della primavera 2020; era il fiume più inquinato d'Europa, era tornato pulito ma sono bastati pochi giorni di produzione industriale per farlo tornare morto e avvelenato. "Tre operai" ha il merito di farci riflettere su questa realtà: da dove vengono gli oggetti che usiamo, come vengono prodotti, quale è il loro impatto sull'ambiente?

 
Gli attori sono molto bravi e molto ben condotti dal regista Francesco Maselli. In primo luogo, i tre operai protagonisti: Stefano Santospago è Teodoro, Nello Mascia è Marco, Nunzia Greco è Anna. E poi la sorella di Anna, interpretata da Imma Piro, e molti altri attori tra i quali spiccano Paolo Falace ed Elena Da Venezia, padre e madre di Teodoro.
A Paolo Falace, come padre del protagonista, spettano alcuni dei punti chiave del romanzo e del film: l'inizio, con la presentazione del figlio ai padroni della tintoria dove lui è capoturno, e la scena al minuto 40 della prima puntata, quando spiega al figlio la sua vita e perché è importante che rimanga anche lui a lavorare in mezzo ai veleni. E' una scena toccante, un monologo che andrebbe portato nelle scuole, interpretato in maniera esemplare da Falace.
Le musiche sono di Giovanna Marini, molto adatte e molto originali, dietro c'è la formazione classica della Marini, soprattutto Johann Sebastian Bach. Mi segno ancora l'impianto teatrale, molto bello da vedere nelle scenografie e da ascoltare nella recitazione. Il film è scritto da Maselli insieme allo stesso Bernari e ad Enzo Siciliano, con Paolo Spriano come consulente.

 
Altri miei appunti presi durante la visione:
1) il protagonista si chiama Barrin di cognome, pronunciato Bàrrin alla napoletana; è un cognome di origini francesi e più avanti glielo rinfacceranno. E' un dettaglio autobiografico, perché anche Bernari è uno pseudonimo, il cognome all'anagrafe è Bernard, di origini francesi. 2) Carlo Bernari visse fra il 1909 e il 1992, il romanzo viene terminato nel 1934. 3) i dialoghi sono molto interessanti, anche la storia è ben raccontata: due battute all'inizio sono molto significative, "nessuno vuole più stare al suo posto", perché i figli degli operai adesso vogliono studiare, e "ce ne è voluta per fargli lasciare la scuola" 4) il giovane quando viene assunto si presenta in giacca, cravatta e gilet, ma sarà un lavoro duro; in queste sequenze iniziali dovrebbe avere quindici anni, ma questo bisogna immaginarselo e comunque non disturba. 5) è una tintoria di tessuti, anche se poi si parla di lavanderia e del sindacato dei lavandai; nelle tintorie i tessuti vengono lavati prima di ogni altra lavorazione, perché escono dalle tessiture impregnati di appretti, cioè di colle applicate per evitare che il filato si logori durante la tessitura. 6) a un certo punto arriva un bastimento inglese, ed è probabile che si tratti di cotone. Il cotone, per tutto l'Ottocento, significava tratta degli schiavi; e a inizio Novecento non è che le cose fossero migliorate di molto, nonostante l'abolizione dello schiavismo. 7) "non si resiste più di nove ore su questa vasca" dicono a Teodoro nel suo primo giorno di lavoro. Nove ore: le giornate lavorative che ho conosciuto io erano di otto ore, ma sono state necessarie lotte dure e molti sacrifici per arrivare a questo risultato, sempre messo in discussione. Quella vasca contiene acido solforico, concentrato: è il vetriolo dei film horror. 8)  le sostanze pericolose menzionate nel film, oltre all'acido solforico, sono ipoclorito, bisolfito, e il colorante blu di metilene. L'ipoclorito di sodio è la candeggina; il bisolfito è un forte riducente che serve per decolorare eventuali sbagli di tintura, mentre l'idrosolfito di sodio è usato nel metodo per tingere i jeans, i colori indanthren: ha un odore molto pungente, fortemente irritante, e va usato ad alte temperature. Molti intermedi per coloranti, quasi tutti, sono cancerogeni: non lo sono i coloranti finiti, ma gli intermedi sì, e da qualcuno vengono quindi maneggiati. 9) il vapore, indispensabile in fabbrica: qui siamo nel 1914, vediamo la caldaia con il fuoco acceso, probabilmente alimentata a carbone. 10) nelle sequenze dedicate al mondo del lavoro si vede la scuola di Roberto Rossellini, i grandi film documentari girati da Rossellini negli anni '60 e '70. 11) si può notare anche l'elaborazione elettronica del colore, tipica dei film di questo periodo, simile a quella del "Che fare" di Gianni Serra: erano i primi anni del computer applicato al cinema e alla tv. 12) si faceva cenno alla bravura tecnica di Francesco Maselli: sono da ricordare la camminata per Napoli di Teodoro nella prima puntata, quella analoga di Anna nella terza, e nell'ultima puntata la casa rotonda vicino al mare e la cinepresa che la percorre in una lunga sequenza, nelle scene che precedono la morte di Anna.
 
In conclusione, anch'io mi sono chiesto spesso, come il protagonista di "Tre operai", se abbia davvero senso imparare, conoscere, impegnarsi. La risposta che mi verrebbe, oggi, è no: che non serve, di lasciar perdere i libri e di non informarsi, perché troverai sempre qualcuno che è nato servo e che non vuole cambiamenti, nemmeno in meglio, e magari è qualcuno che è vicinissimo a te. Ho pensato spesso, e non solo durante la visione del film, a quella certa destra che prende posizione contro queste lotte operaie, che giustifica l'ascesa del fascismo con l'occupazione delle fabbriche, che reputa il sindacato come colpevole di ogni cosa, e che in definitiva non vuole che gli operai e i contadini possano studiare, e che non si respirino veleni, e che nelle acciaierie non capitino incidenti come alla Thyssen di Torino (già nel Nuovo Millennio, questa), che a Taranto o a Casale Monferrato non si debba morire di amianto o di polveri e fumi d'acciaieria - ma questo è un discorso ampio, ed è da discussioni su questi temi che nasce il mio pessimismo. Una presa di coscienza è nuovamente necessaria, ma io ormai sono troppo vecchio per ricominciare, e di delusioni ne ho avute molte. Buona fortuna, ma dovrete darvi da fare se volete riottenere ciò che avete perso.
 

 
 
"Tre operai" è visibile, almeno in teoria, su Raiplay. Dico "in teoria" perché Raiplay si blocca di continuo (io abito nella zona di Milano, quindi ben servito dal wifi). A me è andata così: bene con la prima puntata, con la seconda ho dovuto ricominciare da zero per cinque volte (su un'ora...), con la terza puntata ho dovuto rinunciare per due giorni di fila, la terza sera infine è andata.
Così va su Raiplay, ma nessuno tiene conto delle segnalazioni e delle lamentele, anche on line è difficile trovare risposte al disservizio. Pagato con il canone, oltretutto.
 

lunedì 18 maggio 2020

Faust di Marlowe


 
Il Fausto di Marlowe (1977) Regia di Leandro Castellani. Tratto dal testo teatrale di Christopher Marlowe. Traduzione di Rodolfo Wilcock. Musiche di Guido e Maurizio De Angelis. Interpreti: Tino Buazzelli, Antonio Salines, Gastone Pescucci, Nino Fuscagni, Sergio Fiorentini, e molti altri che purtroppo non sono riuscito a recuperare. Durata: due ore circa.

Faust: E com'è che ora sei fuori dell'inferno?
Mefistofele: Ma questo è l'inferno, non ne sono fuori.
(minuto 16)
Non avevo mai letto il Faust di Marlowe, ed è stata una mia grave dimenticanza: a farmelo incontrare è stato Tino Buazzelli, grandissimo interprete con Antonio Salines per un film Rai del 1977, con regia di Leandro Castellani.
Christopher Marlowe (1564-1593) visse nel periodo elisabettiano, coetaneo di William Shakespeare (1564-1616); è rimasta famosa la sua morte, a 29 anni, ucciso in circostanze rimaste ancora oggi ignote. Su Marlowe si è molto romanzato, soprattutto per la sua influenza su Shakespeare (si veda il film famoso "Shakespeare in love"), ma io suggerirei di saltare tutto e di andare direttamente ai suoi testi, soprattutto questo Faust che abbiamo la fortuna di poter vedere e ascoltare in un'ottima edizione italiana. Il titolo originale è "The tragical history of Doctor Faustus", fu pubblicato nel 1604 ma risale a prima del 1590; è considerato il primo testo teatrale dedicato al mito di Faust anche se sicuramente la storia circolava già da tempo, forse da sempre: il mito ancestrale del patto con il diavolo. In Marlowe non c'è redenzione: Faust rimane dannato. Non c'è una Margherita a salvarlo, come poi sarà nel "Faust" di Goethe, ma c'è già l'incontro con Elena di Troia; non ci sono streghe per il sabba, ma uno spirito buono e uno cattivo a consigliarlo (un angelo e un diavolo, si potrebbe dire, ma hanno nomi diversi). C'è anche una satira verso Roma e il cattolicesimo, con le beffe di Faust al Papa, ma la parte più interessante è sicuramente nei dialoghi tra Faust e Mefistofele, come quello che ho riportato all'inizio: l'inferno non è altrove, ma è qui tra noi e basta un minimo di osservazione per rendersene conto. Non riguarda noi tutti, per alcuni di noi c'è forse un Purgatorio (stiamo male perché non ci è concessa la visione di Dio, ma la nostra vita scorre in maniera serena o accettabile), ma per altri c'è davvero l'inferno in terra, e non necessariamente in zone diverse del pianeta.
 
"Il Fausto di Marlowe", secondo la traduzione di Rodolfo Wilcock, è un film a basso costo, ma molto ben fatto innanzitutto per la scelta degli attori, ed è facile pensare che il progetto sia nato intorno alla presenza di Tino Buazzelli come protagonista. Buazzelli è al suo penultimo film, (l'ultimo sarà "Il balordo" tratto da un romanzo di Piero Chiara) e la sua interpretazione è straordinaria, di quelle da non perdere. Molto bravo è anche il suo Mefistofele, Antonio Salines, un attore di teatro ancora in attività che ha recitato in molti film per la tv. Sergio Fiorentini è Lucifero; Gastone Pescucci, che interpreta Wagner, assistente di Faust, è un buffo: un clown shakespeariano (si potrà dire, in Marlowe?) che fa da contraltare alle imprese del suo padrone, ma in modo molto goffo. Purtroppo non sono in grado di elencare gli altri interpreti, perché sono stati tagliati i titoli di coda e non sono riuscito a recuperarne i nomi neanche cercando su internet.

 
Il regista Leandro Castellani non va confuso con Renato Castellani, quasi omonimo e realizzatore per la Rai di altri sceneggiati famosi. Leandro Castellani ha diretto per la Rai "L'affare Dreyfus", "Le cinque giornate di Milano", "Don Minzoni", e molto altro ancora; è un ottimo regista, e meriterebbe maggiore attenzione da parte delle critica e di chi si occupa di storia del cinema (e della televisione). Le musiche dei fratelli De Angelis sono molto adatte al film. Una piacevole sorpresa è scoprire che Elena di Troia, la donna più bella del mondo, ha la pelle scura: purtroppo non posso aggiungere il nome dell'interprete, sempre per la pessima abitudine di tagliare i titoli di coda. Un difetto del film può essere la sfilata dei protagonisti con la Morte che li guida, ripresa dal "Settimo sigillo" ma realizzata in maniera un po' goffa; molto belle invece le maschere e i costumi, alcuni dei quali ispirati ai mammutones sardi.

 
Gli esterni sono girati nelle Marche, posti ben conosciuti dal regista Leandro Castellani che era nativo di Fano: dal sito marchecinema.cultura.marche.it prendo l'elenco completo:
- Il film TV, girato a Urbania (PU): (Chiesa dei Morti, cantine del Palazzo Ducale) nella Cripta di S.Vincenzo del Furlo (PU), nel Palazzo Brancaleoni di Piobbico (PU) e sulle sponde del fiume Candigliano, è ispirato ad un classico del Teatro elisabbettiano: il Faust di Cristopher Marlowe.
Lo sceneggiato è stato programmato in tv, nel marzo del 1977, in due puntate.
- Risalendo il corso del Metauro ci dirigiamo verso Urbania, l’antica Castel Durante. Qui Lattuada nel 1965 con La Mandragola , con l’aiuto della vena dissacrante ed indimenticabile di Totò, ha reso un omaggio cinematografico alle mummie conservate nella cripta della Chiesa dei Morti, come del resto ha fatto anche il regista Castellani che le ha volute come comparse nel suo “Fausto di Marlowe” del 1977. A poche centinaia di metri dalla chiesa troviamo il Palazzo Ducale nelle cui segrete Tino Buazzelli ha fatto rivivere, appunto, il mito di Faust nel già menzionato film di Castellani. La strada del nostro itinerario ora s’inerpica, costeggiando per un tratto il Rio Candigliano, verso Piobbico , sulle tracce delle truppe napoleoniche che nella finzione cinematografica , presso il “Borghetto” , sconfiggono l’esercito austriaco in “Rossini! Rossini!” di Monicelli (1991). Osserva severo dall’alto il Castello di Brancaleone , altro set del film che ha fatto da sfondo anche alle vicende del “Fausto di Marlowe” . (...) sosta ad Acqualagna (ennesima location di “Rossini! Rossini!” e “Qualcosa in cui credere” ) e a San Vincenzo al Furlo (ambientazione di un episodio del “Fausto di Marlowe” ) da dove già s’intravedono le imponenti pareti della Gola del Furlo (...)

 
Sul "Faust di Marlowe" di Leandro Castellani non ho molto di più da dire, se non il consiglio di non perderne la visione e la speranza di poter rivedere questo film in condizioni decenti, cioè restaurato con la cura e l'affetto che meriterebbe. La Rai nasconde spesso le sue produzioni più importanti, è un atteggiamento che non riesco a capire ma così va in questo inizio di Millennio; per intanto ringrazio chi lo ha reso disponibile su youtube.
 
 
Faust: Ah, è così. Anche voi soffrite le torture...
Mefistofele: Più di quanto ne soffrano le anime umane.
(minuto 27)

Faust: Ma lui non ti disse di presentarti a me?
Mefistofele: No, sono accorso per volontà mia.
(il diavolo arriva da solo quando si fa del male, non c'è bisogno di invocarlo o di evocarlo)

- La corsa è inarrestabile, mio Mefistofele, che il tempo segue con calma e muto piede; mi accorcia i giorni e il filo della vita e mi rammenta la scadenza finale. Perciò, mio buon Mefistofele, ti prego, torniamo subito a Wittenberg.
- Vuoi fare il viaggio a piedi, o a cavallo?
- Direi, fin dove arriva questo prato verde e piacevole, a piedi.
(minuto 21 seconda parte)

 


 

giovedì 14 maggio 2020

Roma imago urbis


Roma imago urbis (documentario, 1987-1994). Regia di Luigi Bazzoni. Fotografia di Vittorio Storaro. Sceneggiatura di Franco Barbaresi. Montaggio di Attilio Vincioni. Musiche di Ennio Morricone. Produttore esecutivo Giorgio Pezzali. Consulenza di Giulio Carlo Argan, Carlo Lizzani, Paolo Portoghesi. Altri consulenti: Marcello Fagiolo, Clotilde D'Amato, Piero Anchisi, Filippo Coarelli, Paolo Fedeli, Anna Zevi Gallina, Adriano Ossicini, Carlo Pietrangeli, Salvatore Settis, Anna Mura Sommella, Paolo Sommella, Voci fuori campo: Pino Colizzi, Luca Ward, Riccardo Cucciolla. Durata: 15 puntate da 50 minuti ciascuna

"Roma imago urbis" è una lunga e bella serie di documentari, con regia di Luigi Bazzoni e immagini di Vittorio Storaro. Durano 50 minuti l'uno, il soggetto non è tanto la città di Roma quanto l'influenza che ha avuto sullo sviluppo della società come la conosciamo oggi. Si ripercorre la storia romana e l'influenza che ebbe sul Rinascimento, e che dura ancora oggi, attraverso immagini e testi, non limitandosi ad autori classici, come Tito Livio e Virgilio, ma anche con autori come Stendhal, Goethe, rinascimentali, settecenteschi, fino agli scrittori del Novecento. Un difetto è che mancano spesso punti di riferimento, anche nei titoli di coda: si vorrebbe sapere dove sarà quel luogo, dove trovare quel testo, e sarebbe stato giusto mettere almeno i titoli dei libri citati. I documentari sono stati girati fra il 1987 e il 1992, l'edizione definitiva è del 1994 ed era destinata a Rai Uno; l'elenco dei patrocinatori è lungo e corposo, l'Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato, la Presidenza della Repubblica e quella del Consiglio dei Ministri, il sindaco di Roma, la Regione Lazio, l'Iri, l'Agip, l'Unesco, una lista molto lunga che comprende anche le Sovrintendenze alle Belle Arti (i Musei) e all'Archeologia, e gli Stati esteri (la Libia, l'Inghilterra, la Siria, l'Egitto, la Spagna, la Francia, la Grecia, la Turchia, la Jugoslavia...) dove si trovano importanti vestigia romane o greche.
Di "Roma imago urbis" esistono dvd e videocassette, ma io sono riuscito a vedere questi documentari solo grazie a youtube; porto qui i miei appunti, sperando che siano utili e facendo presente che c'è molto di più, sia da vedere che da ascoltare. Sempre sul mio piano personale, aggiungo che è bello vedere finalmente queste immagini senza un presentatore lì davanti a mulinare le mani e a nascondercele (a impallarle, come avrebbe detto Vittorio Gassman).
 

Parte I - Il mito
Un percorso storico attraverso le religioni e le divinità greche, romane, etrusche. Si inizia dal rapporto con la Natura, i fauni e il dio Pan, i centauri e le ninfe, le driadi, l'acqua, la semina e il raccolto, la fecondità, la guerra. Si parte da Pompei e si risale nel tempo fino ad arrivare alla reggia di Caserta e a Bomarzo.
Parte II - L'immortalità
Si parla delle sepolture e del rapporto con l'aldilà. E' uno dei documentari più belli della serie, con molte informazioni. Si comincia dagli Etruschi e si arriva alle catacombe e al Pantheon, monumento aperto alla luce e dedicato a tutti gli dei. Si dice anche che il 29 giugno si festeggiano Pietro e Paolo perché in quella data furono traslati i resti dei due santi, non perché sia la data del loro martirio; i loro resti furono per lungo tempo sepolti altrove, tenuti nascosti per il timore che potessero essere distrutti. Ne traggo due citazioni da Cicerone:
- Se sbaglio a credere immortali le anime degli uomini, sbaglio volentieri; ma anche se non siamo destinati all'immortalità è desiderabile che l'uomo a suo tempo si spenga. La Natura ha per il vivere, come per tutte le cose, una sua misura. (minuto 25)
- Ricordati che non tu sei mortale, lo è il tuo corpo. Sappi che sei un dio, se è un dio che vive, sente, ricorda, prevede. (minuto 50)
E un'iscrizione sepolcrale: «Sono fuori. Speranza, fortuna, vi saluto. Non ho più nulla a spartire con voi, prendetevi gioco di qualcun altro.» (minuto 31)


Parte III - Gli acquedotti
E' la più spettacolare, gli acquedotti e le fontane, il trasporto dell'acqua, con immagini splendide in esterni da tutta Europa, in Spagna Merida, in Francia il Pont du Gard, fino alla distruzione di alcuni acquedotti iniziata durante le invasioni barbariche.
Parte IV - Le mura
Un altro percorso attraverso la storia di Roma, da Romolo e Remo (il solco tracciato, inizio delle cinte murarie) fino a Porta Pia nel 1870 e alla difesa dei partigiani contro i nazisti nel 1944 a Porta San Paolo. Molto bello e ricco di informazioni, le Mura Aureliane, le invasioni e il sacco di Roma, i tempi di Michelangelo e Giordano Bruno con le fortificazioni erette dai papi, i lanzichenecchi del 1527, e molto altro. Vi si dice anche che Aureliano prese modello dalle mura di Palmira, che aveva visto difendersi strenuamente.
Parte V - I volti
Una carrellata sugli imperatori romani, e sul Potere, attraverso gli innumerevoli busti o statue intere che sono arrivati fino a noi. Si parte da Silla e si arriva a Costantino; la parte finale è per Canova e per Napoleone.
Parte VI - Le gesta
Percorre le guerre di Roma, da Romolo e Remo in poi, attraverso Tito Livio e altri, tramite i monumenti, la Colonna Traiana, gli archi di trionfo, la statuaria. Il finale è con le città fortificate del Rinascimento, Machiavelli che deplora i mercenari, Firenze, Urbino, eccetera. Le ultime immagini sono per Castel del Monte, né fortezza né palazzo d'abitazione.
Parte VII - La casa
Parte da Piazza Armerina, passa poi alle ville pompeiane e non trascura le prime abitazioni, grotte, case di fortuna o provvisorie. E' un altro percorso storico, che dopo 30' circa approda ai castelli medievali e ai palazzi rinascimentali (Mantova, Palazzo Te) che spesso richiamano quelli romani, come il palazzo di Diocleziano a Spalato. Si fa cenno anche agli abitanti, attraverso nomi celebri come quello di Messalina. Il finale è tutto per il Palladio.


 
Parte VIII - Gli dei
E' molto ricco di notizie, da rivedere. Mi segno qualcosa: 1) Giano è divintà locale, non greca o d'importazione; ha qualche similitudine con l'induista Ganesh, nel senso che è il dio delle porte, degli inizi, ma è anche legato alla guerra, perché anche la guerra è un mutamento. Quando si era in guerra, le porte del tempio di Giano rimanevano aperte. 2) Esculapio, che riprende il greco Asclepio, è legato ad Apollo ma è anche sul lato oscuro di Giove; ha il suo tempio nell'Isola Tiberina, non nelle zone di Apollo ma in quella del Giove oscuro. 3) Fortuna: chi si rivolge a Fortuna sa che il futuro può essere solo subìto, perché ci si sta affidando al caso, mentre chi si rivolge a Giove ha una sua decisione già presa e cerca solo un assenso o un diniego. La Fortuna ha il suo tempio a Preneste; ci si rivolgeva a Fortuna un po' come con l'I-Ching, con il lancio dei dadi o tramite sorteggi, vaticini con piccoli rami, eccetera.
Parte IX - Le opere
Segue ancora la storia romana ma da un punto di vista più periferico, un percorso costruito intorno alle lettere di un personaggio d'invenzione, Gaio Dalmazio che si immagina come un esule che non può tornare a Roma e che scrive all'amico Tullio da distanti province dell'Impero, nel corso degli anni, ricevendo notizie delle invasioni barbariche (lo si immagina nel 400 d.C.) dei saccheggi di Roma, etc. Ho pensato che fosse un personaggio della Yourcenar, spesso citata, ma nelle Memorie di Adriano è Adriano stesso a parlare. Altri testi sono di sant'Agostino (sul teatro, dalle Confessioni).
Si parte dall'Egittto (le piramidi) poi la Libia, i Balcani, si arriva a Palmira (dove i morti vengono sepolti in alto, su colonne rivolte al sole: sembra Calvino) passando in rassegna teatri, acquedotti, cloache (importantissime, al pari degli acquedotti), palazzi, etc.
« Nel Pantheon la cupola evoca la volta celeste, l'oculo è il disco del sole, il cerchio è la perfezione, la sfera è l'universo. Attraverso geometrie semplici, princìpi pitagorici e platonici, si esprime l'ordine cosmico di Roma. » Anche i barbari prenderanno il Pantheon a modello (siamo subito all'inizio del documentario).


Parte X - Natura e mito
Nella versione disponibile su youtube è identica alla puntata "Il mito" (n.1) Un errore?
Parte XI - Lo Stato e il diritto
Inizia nel 1200 con il ritrovamento dei Digesta voluti da Giustiniano, a Bisanzio, nel VI secolo d.C. Il ritrovamento avviene a Bologna, con Irnerio (1060-1130), e dà vita alla rinascita del Diritto. "Digesta" è una selezione di testi di diritto, spesso arbitraria ma molto vasta, che ha permesso di ricostruire il Diritto romano e farne le basi per i nuovi Stati che stavano sorgendo. Il documentario prosegue con un percorso di storia romana, che arriva fino a Carlo Magno, al Barbarossa, e altro ancora.
Parte XII - Gli spettacoli
Parte da Parma, dove il Teatro Farnese è visto come punto di passaggio architettonico fra il teatro greco e ciò che verrà, cioè i teatri rinascimentali e settecenteschi e poi il teatro come lo intendiamo oggi. Più di metà del documentario è dedicato ai gladiatori e al "circo": i romani provarono a importare la cultura greca, ma erano molto più grossolani e il tentativo fallì. Non piacevano le tragedie greche, così come non piacevano le gare olimpiche, la corsa, il giavellotto. A Roma piaceva il pancrazio, pugilato violentissimo, che poi sarebbe diventato la lotta dei gladiatori, con le armi, contro animali o tra uomini. Si dice che i gladiatori derivano dai sacrifici umani, che gli Etruschi avevano abolito passando a un combattimento mortale fra due prigionieri. Solo Tiberio, fra gli imperatori romani, si oppose decisamente ai gladiatori, ma senza mai vietarli per timore del grande seguito popolare. Al minuto 13 si parla delle gare con i cavalli: " Dagli Etruschi, che l'hanno portata a Roma, la corsa dei carri trae un carattere sacro su cui si innestano significati cosmici: i 4 cavalli sono le stagioni, i 4 colori delle squadre sono gli elementi del creato, i 7 giri di pista sono i giorni, le 12 corsie sono i mesi dell'anno e lo zodiaco."
Dopo 30 minuti (su 50) si passa al teatro: i romani costruiscono teatri come quelli greci, ma alla gente la tragedia greca e il teatro dei greci non piacciono, preferiscono cose più ruspanti e volgari. Hanno successo Plauto e Terenzio, poi si afferma il mimo, antenato della Commedia dell'Arte, con canovacci ridotti al minimo, un comico senza maschera intorno a cui ruotano tutti gli altri attori. Nel mimo recitano anche le donne, subito tacciate come prostitute. Da questi spettacoli arriva anche Nerone. Con l'avvento del Cristianesimo le cose cambiano, e nel VI secolo Giustiniano abolisce il teatro. Si riprenderà nel Rinascimento, sul modello greco ma con scrittori nuovi e originali. L'immagine di chiusura è su uno stadio di calcio, il tifo esasperato era già quello dell'antica Roma, compresa l'idolatria per i colori delle squadre e per i campioni.


Parte XIII - I colli sacri
Si parte dalla Grecia, da Atene, Corinto, Delfi, e si arriva fino ai papi con i colli romani attraverso citazioni da Stendhal, Goethe, De Brosse, Zola, etc. Di Stendhal è la pagina che riporto qui sotto, dove parla della chiesa di San Clemente, "dove il Sancta Sanctorum" è separato dal resto del tempio quasi come nel rito greco e sotto la quale è conservato un mitreo: «... sappiamo ben poco sul Cristianesimo dei primi secoli perché dal grande san Paolo a oggi la religione cristiana ha cambiato strada ogni due o tre secoli come i grandi fiumi che aggirano gli ostacoli lungo il percorso. Si lascia dunque credere che l'attuale liturgia sia antica, e non rielaborata dopo il Concilio di Trento; ciò fa comodo a chi ne ricava, citando san Carlo Borromeo, "morbide carrozze e il godimento del potere"» (al minuto 35)
Parte XIV - Le vie dell'impero
Parla delle grandi strade romane, compreso il Vallo di Adriano; fa ancora cenni sugli acquedotti e termina con ampio spazio per Palmira e per Petra, per il collegamento con l'Oriente, Egitto incluso. Molto spettacolare, tutto in esterni.
Parte XV - L'immagine
Forse la più affascinante, l'immagine di Roma raccontata da poeti antichi e moderni, con Vittorio Storaro in gran forma. Si comincia con le sculture in legno di Ceroli (del '900), passando poi per Roma, Costantinopoli, Efeso. Tra gli altri testi, ascoltiamo Giovanni Pascoli e la poesia di Kavafis sull'arrivo dei barbari. Si prosegue con Poussin e i dipinti "romani" del '700 e '800, John Ruskin e il fascino delle rovine; si passa poi a una lettera di Raffaello al Papa sulle vestigia romane distrutte o inglobate. Si continua con le impressioni di Goethe, Stendhal, Montaigne, e di altri viaggiatori celebri, arrivando a Napoleone, e al Campidoglio di Washington. Si parla dello scultore americano di origine norvegese Hendrik Christian Andersen e della sua casa museo a Roma, si legge un breve testo di Tommaso Campanella, si mostrano alcuni dipinti dell'inglese Alma-Tadema, sempre in tema di romanità. Si termina con l'altare della Patria a Roma, il Vittoriano, progettao dall'architetto Giuseppe Sacconi, davanti al quale viene letto un momento del Faust di Goethe, il dialogo fra l'impresario e il poeta.

 
 


(i fotogrammi vengono dalle puntate III e XV )
(il cavallo alato è di Mario Ceroli)

martedì 12 maggio 2020

Ho camminato con uno zombie (1943)


 
I walked with a zombie (Ho camminato con uno zombi, 1943) Regia di Jacques Tourneur. Tratto da un romanzo di Inez Wallace. Sceneggiatura di Curt Siodmak e Ardel Wray Fotografia di J. Roy Hunt Musiche di Roy Webb Interpreti: Frances Dee, James Ellison,Tom Conway, Edith Barrett, Christine Gordon, Teresa Harris, Sir Lancelot, Darby Jones, Jeni Le Gon Durata: 1h10'

"I walked with a zombie", film del 1943, è più dramma psicologico che un horror come lo intendiamo oggi; la regia è di Jacques Tourneur, il suo film successivo a "Cat people".
Il soggetto è questo: una giovane infermiera trova un posto di lavoro ben pagato in un ambiente da favola, esotico; scoprirà che il malato che deve assistere è una donna giovane che però è come sonnambula, in catalessi, si alza e cammina ma è come se fosse senza volontà. I medici danno la colpa a una febbre tropicale che può lesionare anche il cervello, ma siamo in zona vudù e quindi il sospetto che ci sia sotto qualcosa d'altro è lecito. Dietro c'è il conflitto fra due fratelli, stessa madre ma cognomi diversi (la madre era rimasta vedova) entrambi innamorati della stessa donna che però si è sposata al maggiore dei due fratelli; questa donna è adesso la malata da assistere. La madre dei due, medico, è sul posto, e anche se è vedova di un missionario cristiano è in contatto stretto con i sacerdoti vudu, che ha iniziato a frequentare per farsi obbedire dai locali che non volevano seguire le norme igieniche più elementari e poi si è fatta sempre più coinvolgere.
Gli zombi e il vudu però restano sullo sfondo, forse settant'anni fa alcune scene potevano fare impressione ma comunque non ci sono scene davvero terrificanti e prevale il dramma psicologico. Il film andrebbe visto in lingua originale e dopo un buon restauro della pellicola, l'edizione che passa in Rai è un po' disastrata e troppo scura. Nel sonoro originale hanno parte importante canzoni e ballate qui rese quasi inintellegibili dal pessimo doppiaggio anni '80: belle le voci dei doppiatori, ma pessimo il sonoro nel suo complesso, tutto azzerato o appiattito.

 
Alcuni dettagli interessanti:
1) nel viaggio in nave si parla dei pesci volanti e della luminescenza del mare; il maggiore dei due fratelli spiega alla giovane infermiera che i pesci volano per sfuggire ai predatori, e che la luminescenza è dovuta a organismi in putrefazione. Ciò che sembra così bello è in realtà legato alla morte, e questo dialogo riporta alla citazione di John Donne in "Cat people" (Il bacio della pantera, sempre per la regia di Jacques Tourneur):
... but black sin hath betrayed to endless night
my world, both parts, and both parts must die.
(ma il nero peccato ha tradito ad una notte perpetua
entrambe le parti del mio mondo, ed entrambe dovranno morire)
Holy Sonnets, n.2, da “Divine poems” di John Donne (1572-1631)

 
2) nella casa dove abitano i due fratelli c'è la polena di una nave negriera, un San Sebastiano trafitto dalle frecce; siamo nella zona di Haiti, dove la tratta degli schiavi provenienti dall'Africa fu particolarmente feroce.
3) i locali, discendenti di schiavi, piangono quando nasce un bambino e fanno festa ai funerali: qui la vita è solo sofferenza, e c'è il ricordo delle navi negriere e delle condizioni di quei viaggi. La loro vita è per il resto normale, povertà e riti vudu a parte.
4) i testi delle ballate locali raccontano le storie di due fratelli rivali in amore, e di sortilegi
5) la sceneggiatura del film è un testo che si potrebbe recitare in teatro, senza cambiare una virgola.

 
Gli attori: Frances Dee è l'infermiera, James Ellison e Tom Conway sono i due fratelli, la madre medico è Edith Barrett, Christine Gordon è la moglie malata. Più difficile risalire agli attori afroamericani, come era d'uso a quel tempo la lista degli interpreti non è completa ed è difficile ricordarsi i nomi dei personaggi.
Il soggetto è di Inez Wallace, la sceneggiatura è di Curt Siodmak e Ardel Wray; il produttore è Val Lewton, a cui si devono molti film di fantascienza o horror di quel periodo. Si vede bene la mano del regista Jacques Tourneur, e ci sono diverse somiglianze con "Cat people" al di là del soggetto esotico. Il finale è tragico, però rende liberi i due innamorati, il fratello maggiore ormai vedovo e la giovane infermiera. Sul soprannaturale rimane solo qualche dubbio, la spiegazione medica è più che plausibile; molto bravo comunque l'attore che cammina nell'oscurità a occhi sbarrati, e che è l'unico effetto speciale di questo film.
 
Gli esperti, soprattutto i medici, spiegano che dietro agli zombies, quelli veri di Haiti, c'è una droga o un mix di droghe che spengono la volontà; sottoposti a quella droga gli esseri umani non hanno più coscienza di se stessi ma possono comunque lavorare, e come schiavi vengono impiegati. Non sono un esperto e non posso quindi aggiungere dettagli, ma questo è ciò che si vede nel film e corrisponde a ciò che si racconta da sempre sugli zombies, collegati alla religione voodoo (che in realtà è molto più complessa di come si vede nei film, non è solo magia nera). Il racconto degli zombies come cadaveri che escono dalla terra e mangiano carne umana è invece molto recente, e si è diffuso a partire dagli anni '70, con il film di George Romero; la confusione nasce probabilmente dalla definizione di "morti viventi" collegata alla parola zombie. Io c'ero negli anni '70, ero già appassionato di cinema ma non ho mai voluto guardare i film horror (Romero mi è bastato e avanzato); ho conosciuto di persona miei coetanei che facevano uso di droghe pesanti, e purtroppo in molti casi la definizione di "morti viventi" era molto vicina alla realtà. Con l'eroina, e con altre droghe simili, diventa perfino difficile riconoscere un amico, un'amica, una persona che si conosce. E' una cosa davvero triste, e forse per questo motivo, e per tanti altri, non ho mai amato il genere horror così come è diventato dagli anni '70 in su, non capisco cosa ci si possa trovare. Per queste cose, per impressionarsi o per spaventarsi, basta e avanza la realtà: provate a leggere la descrizione dei sintomi del virus Ebola, tanto per dirne una, e vi passerà la voglia di scherzare. O, magari, le cronache dalla ex Jugoslavia negli anni '90, o dal Ruanda nel 1994, o anche soltanto da un normale servizio di Pronto Soccorso in uno dei nostri sabato sera. Forse, bisogna essere molto giovani per aver voglia di spaventarsi con i film di zombie e di vampiri, con i serial killer e i morti ammazzati.
 


(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )

sabato 9 maggio 2020

L'idiota (1941, Gerard Philipe)


 
L'idiota (1941) Regia di Georges Lampin. Liberamente ispirato al romanzo di Fiodor Dostoevskij. Sceneggiatura di Charles Spaak e Georges Raevskij. Fotografia di Christian Matras. Musiche per il film di Vladimir de Butzow e Maurice Thiriet, con inserti di Mozart. Interpreti: Gerard Philipe (Myskin), Lucien Coedel (Rogozin), Edwige Feuilliere (Nastassia), Nathalie Nattier (Aglaia), Michel André (Gania), Jean Deboucourt (Tostky), Sylvie (madame Ivolghin), Jeanne Marken (Naria), Maurice Chambreuil (generale Epancin), Tramel (generale Ivolghin), Elisabeth Hardy (Sophie), Roland Armontel (l'ivrogne-Lebedev), Mathilde Casadesus (Adelaide), Marguerite Moreno (Lizaveta Prokofievna), Janine Vienot (Alexandra). Durata: 1h33'

L'idea di un film tratto da "L'idiota" di Dostoevskij, con un grande interprete come Gerard Philipe nella parte del principe Myskin, è di quelle che accendono la fantasia e fanno sperare nel capolavoro. Purtroppo, non è così.
Il film inizia con Myskin che arriva a casa del generale Epancin, saltando tutta la scena iniziale sul treno, ed è già un errore perché la sequenza iniziale, cioè l'incontro di Myskin con Rogozin, è fondamentale per capire quello che succederà, oltre ad essere un capolavoro di scrittura. Viene cancellato anche il personaggio di Lebedev, ridotto a poco più di un predicatore ubriaco, quasi un mendicante.

 
Il Myskin di Gerard Philipe è un bel giovane con la barbetta bionda, e si presenta davanti al domestico di casa Epancin non con un fagotto in mano, come nel libro, ma con un bauletto da viaggio; poco più avanti, a casa di Gavril Ardalionovic, scopriremo cosa contiene il bauletto: un orologio a cucù. Eh sì, Myskin viene dalla Svizzera e quindi si è portato un ricordo; il generale Ivolghin, padre di Gania, lo aiuta ad appenderlo alla parete. Ancora più avanti, verso il finale, troveremo Rogozin intento a costruire un castello di carte: Nastassia sta parlando con Myskin, è una scena cruciale, ma Rogozin evidentemente si annoia e non sa come passare il tempo. Sono solo due dei dettagli che rendono deludente "L'idiot" del regista Georges Lampin, girato in tempi difficili (si era già in guerra) ma sceneggiato da autori solitamente professionali come Charles Spaak e Georges Raevskij.

 
Molte scelte sbagliate anche tra gli attori: Lizaveta Prokofievna sembra la nonna di Aglaia, e non sua madre; Nastassia è una dark lady molto convenzionale, anche se la Feuilliere è brava. Il Rogozin di Lucien Coedel è un vilain molto convenzionale, non ha la follia necessaria al personaggio (si vedano Toshiro Mifune e Gianmaria Volonté, nello stesso ruolo, nei film del 1951 e del 1959), ed è troppo anziano per la parte. Aglaia è una smorfiosa elegante, anche lei un po' troppo avanti con l'età (i protagonisti principali de "L'idiota" sono molto giovani, soprattutto le donne). Rogozin e Myskin sono solo due rivali in amore, c'è la scena in cui si scambiano le croci ma manca il dipinto di Holbein (il "Cristo morto") che rende potente il loro rapporto, quasi uno stesso personaggio diviso in due. Lebedev diventa un mendicante e predicatore, un ubriaco che importuna Rogozin in trattoria; e nel complesso è tutto troppo sbrigativo per risultare credibile, la fratellanza fra i due e la violenza, lo scambio di croci, la rivalità fra le due donne, tutto finisce per sembrare convenzionale e "L'idiota" è ridotto a uno dei tanti film passionali che andavano per la maggiore in quegli anni. 
(qui sotto, l'Aglaia di Nathalie Nattier: l'avevate immaginata così?)

 
La musica è firmata da Vladimir de Butzow e Maurice Thiriet, ma più che altro rimane in memoria Mozart, con due lunghi estratti: una Sonata per pianoforte eseguita a quattro mani dalle sorelle Epancin e "Eine kleine Nacht musik" suonata dall'orchestra nella scena della festa. I costumi sono di Marcel Escoffier, come poi sarà per lo sceneggiato Rai del 1959.
In conclusione, è un film che può ancora piacere, a patto però di non conoscere il libro di Dostoevskij.
 

 
 
 

martedì 5 maggio 2020

Così è andata - Gente di montagna


Così è andata - Gente di montagna (Rai, 1987) Regia di Ermanno Olmi, Toni De Gregorio, Maurizio Ricci. Fotografia: Fabio Olmi, Maurizio Zaccaro, Fabrizio Borelli. Testi di Mario Rigoni Stern, Emilio Lussu, Piero Jahier, Filippo Sacchi, Alberto Fumagalli, Nuto Revelli. Durata: 40' circa

"Così è andata - Gente di montagna" è un documentario del 1987, a colori, firmato da Ermanno Olmi con Toni De Gregorio e Maurizio Ricci. Si parte da Rigoni Stern e dal suo libro "Il bosco degli urogalli": Un giorno incontrai per la montagna un tale che aveva inciso sul cinturino del cappello questa frase: l’è andà così. Gli chiesi: com’è andata? E lui, guardando lontano e stringendosi nelle spalle rispose: "mah, così è andata.” (Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli, Einaudi 1962.)

"Così è andata" è un documentario realizzato con immagini di archivio e fotografie alternate a riprese filmate recenti; il montaggio di questi materiali è eccellente, le musiche sono ben scelte ed è ottima la scelta dei testi, presi da Mario Rigoni Stern, Emilio Lussu, Piero Jahier, Filippo Sacchi, Nuto Revelli. Non ho trovato indicazioni sulla voce che legge i testi fuori campo, ed è un peccato.
E' una breve storia della vita in montagna: per secoli un lungo isolamento, con la gente che vi abitava quasi ignorata, poi il trauma della prima guerra mondiale, che rese famosi i nomi di molte località: Pasubio, Ortigara, Adamello, Monte Grappa. A tratti sembra di vedere uno dei documentari che resero celebre Werner Herzog, con immagini di Natura, terra, acqua, con l'organo in sottofondo a rendere tutto lievemente ipnotico.

La guerra è raccontata attraversi brani di "Un anno sull'altipiano" di Emilio Lussu, un capolavoro ben noto a chiunque sia andato a scuola (almeno, lo spero). Segue un lungo estratto da un libro meno noto, di Piero Jahier, sempre sul tempo di guerra: il soldato Luigi Somacàl, dapprima deriso, si scopre ottimo tiratore e buon soldato: viene da pensare al Kubrick di "Full metal jacket", Somacàl come il soldato Pyle ma senza follia, né in lui né in chi gli sta intorno.
Piero Jahier, da "Con me e con gli alpini"
... il soldato Somacàl Luigi da Castiòn, recluta dell'84, terza categoria, era stato cretino dalla nascita, e manovale fino alla chiamata. Cretino vuol dire trascurato da piccolo, denutrito, inselvatichito. Manovale vuol dire servo, operaio, mestiere sprezzato. Il suo lavoro consiste in nulla essere, tutto fare: ne porta i segni il corpo presentato alla visita militare. Somacal ha offerto alla patria un mucchio d'ossa in posizione da manovale. Sporge in fuori l'osso dell'anca, che aiuta a camminare sciancati quando si deve equilibrare la secchia della calcina. Gli ingranaggi dei suoi ginocchi pesanti, gonfi di noccioline reumatiche, empiono i pantaloni. Il suo busto è una groppa che aspetta in eterno di ricevere pesi; la testa si rannicchia fra le spalle come cosa ingombrante perché, a un uomo che porta, la testa gli dà noia. Le sue mani di corame chiaro stringono sempre il badile; lo sguardo cerca terra per non inciampare. Questa è la posizione di manovale in cui Somacal si è presentato. Somacal deve stare sulla posizione di attenti, invece la posizione di attenti è la negazione della sua vita. Somacal vorrebbe essere un buon soldato: prova l'attenti, prova il saluto, ma quando gli par d'esser riuscito, la mano non resiste più a mantenersi tesa, le ginocchia cominciano a tremare, e quando il caporale arriva a lui tutto ha ceduto. E' tornata la posizione da manovale. Somacal in uniforme è un burattino, e ridono tanto i suoi paesani, cottimisti come lui per la Germania che era anche allora una macia (?) , ci vuole un carovana per sopportar la fatica. Somacal gli hanno impedito di imparare l'operaio perché era un così buon manovale; ora gli impediranno di imparare il soldato per serbarlo ridicolo. E' vero che Somacal s'infagotta, che si mette il cappello torto, ma se c'è una giacca macchiata alla vestizione finirà certo sulla groppa di Somacal Luigi; e la scarpa del gigante che nessuno ha voluto, e la borraccia che geme - ma appunto perché si sente un burattino diventare un soldato a modo è la gloria. C'è speranza. (...)(Piero Jahier, citato da Olmi in "Gente di montagna")
Piero Jahier (1884-1966), alpino dal 1916, sottotenente, alla fine della guerra da antifascista fu bastonato e imprigionato; in seguito lavorò come ferroviere, e collaborò a "La Voce" di Prezzolini.


Segue un brano di Filippo Sacchi, sui cinque alpini ritrovati sull'Adamello col disgelo; il titolo è "I cinque alpini", trovati ancora in ordine di marcia: "andarono alla guerra ma odiando la guerra".
Filippo Sacchi (1887-1971), giornalista del Corriere della Sera, dal 1914 inviato in tutto il mondo (Australia e Nuova Zelanda comprese), firma di punta del Corriere, fu antifascista e per questo cacciato dal giornale; gli amici lo aiutarono facendogli pubblicare sotto pseudonimo critiche cinematografiche, attività che continuò poi anche dopo la caduta del fascismo; fu direttore di "La Lettura".
Il testo successivo è di Nuto Revelli: "L'anello forte" sui contadini di montagna . Nuto Revelli (1919-2004) alpino, fu volontario nell'Armir, partigiano dopo l'8 settembre, autore di libri e inchieste sulla realtà contadina e sul mondo del lavoro. In queste pagine si parla dello spopolamento della montagna. Le pagine di Revelli sono abbinate a quelle di Alberto Fumagalli, da "La casa e il contadino": si parla del cibo scarso e povero, la polenta, le patate, il burro, niente carne. Le famiglie erano numerose, sul confine piemontese c'era una forte emigrazione in Francia (a Barcellonette); anche i bambini e le bambine (c'è la testimonianza di un'undicenne) venivano "affittati" per lavorare come pastori, sui pascoli. Le donne e le bambine vendevano i capelli: c'era un florido commercio e i capelli, per fare parrucche, erano ben pagati. Si parla poi della musica, del ballo, delle società mandolinistiche molto diffuse; il ballo era fondamentale per i fidanzamenti, la vita in montagna era poi molto dura sia per i mariti che per le mogli.

Arriva poi la seconda guerra mondiale, che stavolta si svolge in luoghi lontani: la Russia, l'Albania, l'Africa, la Grecia... Soprattutto la disfatta dell'Armir porterà segni profondi tra la gente di montagna. Dopo l'otto settembre del 1943 arriveranno sulle montagne i partigiani, la Resistenza che porterà alla democrazia e alla Repubblica.
Un documentario da vedere e da far conoscere, e che è disponibile anche su youtube.