martedì 28 febbraio 2012

Piove sul nostro amore

DET REGNAR PA VAR KÄRLEK ( t.l.: Piove sul nostro amore, 1946). Regia: Ingmar Bergman. Soggetto: da un dramma di Oskar Braathen. Sceneggiatura: Ingmar Bergman e Herbert Grevenius. Fotografia: Hilding Bladh e Göran Strindberg. Musica di Mozart (il carillon) Musiche originali di Erland von Koch. Interpreti: Birger Malmsten (David), Barbro Kollberg (Maggie), Gösta Cederlund (il Destino), Ludde Gentzel (il padrone di casa) Gunnar Björnstrand (l’esattore) Erland Josephson (un impiegato), Bengt-Ake Benktsson (accusatore) Douglas Hage e Hjördis Pettersson (proprietari della serra), Julia Caesar (vicina anziana), Sture Ericson e Ulf Johansson (i due ambulanti), Torsten Hillberg, Ake Frydell (parroco e aiutante). Durata: 90’

- E’ un carillon?
- Sì. E’ un po’ stonato, ma credo che dovrebbe essere una melodia. Forse una volta era una melodia bellissima.
- Lo terrai?
- Sì. Ammaccato e arrugginito e privo di valore: però suona una melodia. (passa il carillon alla ragazza). Il parroco della prigione parlava di una melodia perduta, e tutti capivano che stava parlando di noi. Dobbiamo tenere questo carillon. (pausa) Adesso mi sento bene.
- Che facciamo domani?
- Quella è un’altra storia.
(dialogo al minuto 24 da “Piove sul nostro amore” di Ingmar Bergman)
E’ il secondo film da regista di Bergman, subito dopo “Crisi”: somiglia a un film di Frank Capra, anche per i temi che va a toccare, sia pure in termini di commedia temi sociali importanti, come il recupero di un giovane uscito di prigione e l’assistenza ad una ragazza madre (i due protagonisti del film). Come nei migliori film di Capra, c’è molto di favolistico e di soprannaturale, ben calato nella vita quotidiana; il soggetto non è di Bergman ma viene da un romanzo di Oskar Braathen. Lo stile è comunque molto lontano sia da Capra che dal neorealismo, è già lo stile del primo Bergman, che da giovane era più leggero e da commedia rispetto a quello che siamo abituati a conoscere e che arriverà solo dopo la metà degli anni ’50, con l’autore vicino ai quarant’anni (Bergman era nato nel 1919).
Il soggetto è interessante e originale, e il film è piacevole per la presenza di attori simpatici e di ottima presenza, che ricordano molto alcuni nostri attori di quegli anni, come Paolo Stoppa o Gino Cervi o Sergio Tofano, che in questo film sarebbero stati molto a loro agio. Protagonisti sono i due giovani di cui accennavo sopra, un ragazzo appena uscito di prigione per piccoli reati e una ragazza che – come scopriremo in seguito – aspetta un figlio in seguito ad un incontro occasionale. Motore del film sono però due altri personaggi, che nel volume del “Castoro Cinema” vengono chiamati “il Destino” o “lo spirito buono e lo spirito maligno”, due belle definizioni che però rischiano di essere fuorvianti. Più semplicemente, in “Immagini” di Ingmar Bergman (ed. Garzanti) lo spirito buono è definito come “il signore con l’ombrello”, definizione tutt’altro che riduttiva visti il ruolo di questo attore e il titolo del film. Lo “spirito buono” che fa da narratore, e che diventerà avvocato difensore, è interpretato da Gösta Cederlund; lo “spirito maligno”, cioè il signor Hakansson, l’uomo che vende la casetta ai due protagonisti, è Ludde Gentzel. Due attori che non conoscevo, e due personaggi molto belli, da favola giapponese o da mito nordico (Loki?). Lo “spirito maligno” non è poi così maligno, e anzi spinge il giovane a darsi da fare in senso positivo, a superare i suoi dubbi; anche se gli provoca dei guai, alla fine non si può dire che sia per davvero maligno. Il carillon è suo: era stato dei suoi figli e dei suoi nipoti, ormai morti o lontani. L’uomo ora vive da solo, il carillon arrugginito e ammaccato viene ritrovato nei campi dal giovane protagonista del film.
I due giovani sono interpretati da Birger Malmsten e da Barbro Kollberg, molto brava; erano entrati nella casetta forzando la porta, ma solo per ripararsi dal freddo. C’è anche un cagnolino decisamente simpatico, ma la sua parte non è gran cosa, da lui ci si aspetterebbe molto di più ma il suo personaggio non è stato sviluppato. Si vede anche Gunnar Björnstrand, in una parte ridicola da caratterista buffo (Malmsten gli fa un occhio nero). Altri attori: l’ottimo Bengt-Ake Benktsson è il grasso pubblico accusatore al processo (lo si rivedrà all’inizio di “Sogni di donna”, dieci anni dopo). Douglas Hage e Hjördis Pettersson sono marito e moglie, proprietari della serra che dà lavoro al protagonista; Julia Caesar è la vicina di casa anziana, Sture Ericson e Ulf Johansson sono i due ambulanti. Nel cast anche Torsten Hillberg e Ake Fridell e pare che ci sia anche Erland Josephson, uno degli impiegati all’anagrafe (dovrò andare a cercarmelo). Molto bella la melodia del carillon, tutt’altro che stonato, e che si sente bene soprattutto all’inizio del film – uno dei concerti di Mozart, si direbbe.
Su questo film ho trovato solo dei resoconti molto frettolosi, probabilmente era molto difficile da vedere prima della messa in commercio dei dvd. Bergman non ne parla nei suoi libri, e questo silenzio è probabilmente dovuto al fatto che non si tratta di un suo soggetto originale. E’ un peccato non poter approfondire ulteriormente, perché su queste “personificazioni del destino” e sui motivi delle scelte che ognuno di noi compie nella sua vita, il prendere o non prendere una certa strada, lasciarsi o sposarsi, rimanere in un posto o rimettersi in cammino, e sulle loro conseguenze, ci sarebbero molte cose da dire.

domenica 26 febbraio 2012

La copista di Beethoven

Copying Beethoven (Io e Beethoven, 2006). Regista: Agnieszka Holland. Sceneggiatura: Stephen J. Rivele, Christopher Wikinson Fotografia: Ashley Rowe Scenografia: Caroline Amies. Costumi: Jany Termine. Girato in Ungheria e a Londra. Musiche: Ludwig van Beethoven. Interpreti: Ed Harris, Diane Kruger, Ralph Riach, Nicholas Jones, Joe Anderson, Phyllida Law, Matthew Goode, George Mendel Durata: 104'

Un film biografico su Beethoven è una rarità, e il fatto che ne fosse uscito uno, oltretutto girato da un’ottima regista, mi ha subito incuriosito molto. L’idea di partenza sembra essere quello che si fece con Mozart in “Amadeus”, metà invenzione e metà ricostruzione fedele; intento discutibile ma che può dar luogo a risultati piacevoli, come nel caso del film di Forman.
“Copying Beethoven” è piuttosto bello, interessante. Il titolo corretto sarebbe “La copista di Beethoven”, quello italiano, facilotto e un po’ stupido, è diventato “Io e Beethoven”. Si parte da un personaggio di fantasia, una giovane donna che sarebbe stata scelta da uno dei collaboratori di Beethoven per copiare i suoi manoscritti, un mestiere fondamentale in un’epoca in cui si faceva ancora tutto a mano. Schlemmer (Wenzel Schlemmer) è il nome del collaboratore di Beethoven; la ragazza del film si chiama Anna Holtz, e di lei – come è facile immaginare - non si trova alcuna traccia nelle cronache d’epoca.
Però è più che probabile che molti dei dialoghi che ascoltiamo siano tratti dai Quaderni di Conversazione, realmente esistenti, nei quali Beethoven a causa della sordità sempre più avanzata scriveva le domande e le risposte delle sue conversazioni così da poter comunicare con il suo prossimo. Molti di questi quaderni sono stati conservati, e in alcune parti pubblicati in volume. Si tratta di battute come “io e Dio siamo come due orsi chiusi nella stessa stanza” e “Dio sussurra nelle orecchie un po’ a tutti, con me invece grida: è per questo che io sono sordo”. Purtroppo io non sono un esperto di Beethoven, ascolto tutta la sua musica e conosco qualcosa della sua biografia, ma non sono mai andato molto al di là del toccante “Testamento di Heiligenstadt” e quindi mi riesce difficile separare quello che nel film è vero da quello che è inventato; e va aggiunto che non è facilissimo trovare testi che spieghino qualcosa di preciso su questo film. Avrei dovuto conservare qualche articolo di quelli usciti sulle riviste specializzate, ma non appena sono riuscito a realizzare l’idea che questo film fosse uscito me lo sono trovato già in dvd e circolante sulle tv: colto di sorpresa, quindi. Dato che il film non sembra essere un evento “da Oscar” come fu Amadeus, trovarne un’analisi attenta non sarà facile e quindi conviene diffidare di tutto ciò che si vede nell’ora e quaranta della sua durata.
Il personaggio Beethoven ne esce comunque bene, Ed Harris è molto bravo e pur essendo un attore famoso non lo avevo riconosciuto. E’ sicuramente vero il dettaglio della forza fisica di Beethoven, così come la sua ruvidezza nei rapporti umani e i difficili rapporti col nipote. Vere sono anche le reazioni sconcertate del pubblico davanti alla Grande Fuga, una composizione magnifica capace ancora oggi di sorprendere; ovviamente inventate sono le scene del bagno di Beethoven davanti alla fanciulla, quelle con i vicini, eccetera. Non so da dove venga la scena del modellino del ponte distrutto, è una curiosità che mi è rimasta dentro e magari qualcosa di vero c’è; ma ovviamente essendo Anna un personaggio di fantasia anche il suo fidanzato finisce necessariamente con il perdere di consistenza.
Il periodo della vita di Beethoven di cui si parla nel film è quello della composizione della Nona Sinfonia e della sua prima esecuzione, e della composizione e prima esecuzione della Grande Fuga per Quartetto d’Archi. La ricostruzione è buona: il teatro che si vede è in Ungheria, e dunque non accade qui come per “Amadeus” che fu girato nei veri teatri delle prime esecuzioni mozartiane, a Vienna e a Praga. Risibili e poco credibili sono soprattutto le scene della direzione d’orchestra, con la copista a sbracciarsi dietro le quinte; ma è vero il fatto che Beethoven fosse in quel periodo ormai quasi completamente sordo, pur ostinandosi a dirigere personalmente l’orchestra. Gli aiuti quindi c’erano veramente, ma non occorre essere esperti di musica per sapere che un buon primo violino è comunque in grado di dare gli attacchi giusti, anche senza ricorrere a questi artifici.
Beethoven è Ed Harris, la copista è Diane Kruger, il nipote Carl è Joe Anderson, Martin l’architetto del ponte è interpretato da Matthew Goode, Schlemmer è Ralph Riach. Il film è diretto molto bene dalla Holland, con la solita grande bravura e partecipazione affettiva (qualità che la rendono una dei miei registi preferiti). Un po’ goffe le scene in cui Anna Holtz dirige, ma era giusto dare molto spazio alla Nona Sinfonia, che è proprio al centro del film.
da http://www.wikipedia.it/
Il film mescola aspetti reali della vita di Beethoven con altri deliberatamente inventati. In particolare, il personaggio di Anna Holtz è puramente fittizio, come è frutto di fantasia il fatto che Beethoven accettasse eventuali alterazioni dei propri manoscritti da parte dei copisti.
Di sicuro, il compositore fu aiutato durante la prima direzione della Nona Sinfonia, e precisamente da Michael Umlauf, direttore musicale del Teatro Kärntnertor, dove l'esecuzione ebbe luogo. Esso non avvenne tuttavia nel modo rocambolesco descritto nel film: Umlauf si limitò ad affiancare Beethoven sul podio, perfettamente visibile agli spettatori. È invece probabile che il maestro non si accorgesse degli applausi se non al momento di rivolgersi verso la platea. Negli anni in cui è ambientato il film, la sua sordità era certamente molto più grave e limitante di quanto appaia sullo schermo, e sembra che il compositore si esprimesse preferibilmente per iscritto.
Beethoven, inoltre, non avrebbe mai chiamato la propria Sonata per pianoforte n. 14 con il nomignolo "Sonata al chiaro di luna", che fu utilizzato per la prima volta dal poeta Ludwig Rellstab nel 1832, ma piuttosto con l'appellativo "Quasi una Fantasia" che egli stesso appose al titolo originale. Wenzel Schlemmer non è stato l’impresario di Beethoven come si può intendere nel film, ma ne è stato il copista di fiducia.
Arriva finalmente in Italia il libro su Beethoven privato. Generoso, antimilitarista, incurante dell’opinione della gente: così lo ricorda un amico che lo ha frequentato a Vienna.
LUDWIG, IL MIO VICINO DI CASA
di Andrea Jacchia, L’Europeo 31 marzo 1990
« L’uomo era di aspetto robusto, di statura media, energico nel portamento come nei suoi animati movimenti: indossava abiti appena borghesi, privi di eleganza, e tuttavia dalla sua figura emanava un qualcosa di eccezionale». Verso la metà di ottobre del 1825, nel vecchio sobborgo viennese di Alser, a Gerhard von Breuning, figlio dodicenne di Stephan von Breuning (in privato «Steffen»), consigliere aulico di guerra presso la corte e buon violinista dilettante, tocca di realizzare una circostanza davvero insolita: quell'uomo robusto di 55 anni è il suo nuovo vicino di casa, è intimo della sua famiglia, soprattutto è Beethoven. Da allora, e per i successivi due anni, fino alla morte del musicista, diventa anche «intimo» suo. Lo può andare a trovare dalle tre alle quattro ore al giorno, può sottoporgli i propri esercizi al piano, può arrivare a dargli addirittura del tu: perché Beethoven non se ne cura, e poi, come scriverà, è «costretto a vivere in esilio», cioè è assolutamente sordo. Può vederselo spesso ospite a pranzo dai suoi genitori e loro compagno di passeggiata. Per Beethoven, Gerhard è «Ariel», cioè lo spirito dell'aria shakespeariano, o «hosenknopf», vale a dire «bottone dei pantaloni», tanto ama stare attaccato al padre. In pratica, una famiglia allargata e due case: Steffen e Ludwig, renani di Bonn entrambi, sono vecchi amici d'infanzia e di giovinezza, a Vienna si sono sempre frequentati, sia pure a fasi alterne, e il Rothes Haus, dove abitano i Breuning, sta proprio «all'angolo di fronte» alla Casa degli Spagnoli neri (la Schwarzspanierhaus), un ex convento di benedettini catalani, dove è finalmente arrivato Beethoven.
Finalmente, perché Ludwig, oltre ad apprezzare luminosità e spazio di questo appartamento (l'ultimo della sua vita), ha sulle spalle ben trenta traslochi. Vienna e i suoi affittacamere (baroni, sarti, fabbri, signorine nubili) sono stati sensibili fino a un certo punto, alle «solite ragioni» del grande e riconosciuto musicista: la distrazione, l'inosservanza delle norme esteriori, i conseguenti conflitti a catena fra lui e i vicini, i portieri, i padroni di casa. Tutto il contrario nel caso di Constanze Ruschowitz, seconda moglie di Steffen nonché madre di Gerhard: perfetta padrona di casa, si prende cura anche della vita domestica di Ludwig. Gli trova cameriera e cuoca-governante, la «Sali», celebre per fedeltà e distrazione (un giorno ha avvolto il burro con il «Kyrie» della Missa Solemnis). Per Ludwig la Casa degli Spagnoli neri è un punto d'arrivo; per Gerhard è un punto di partenza. Parte nella vita col privilegio di poter avvertire, a dodici anni, che cosa voglia dire essere un «genio». Se quel genio si chiama poi Beethoven, cioè «il titano del regno dei suoni», l'esperienza va fermata in modo stabile. E Gerhard lo fa 44 anni dopo, medico affermatissimo e socio degli Amici della musica, pubblicando questo bellissimo libro di memorie Dalla Casa degli Spagnoli neri, oggi proposto per la prima volta in Italia dalla SE con note e appendici e una postfazione di Artemio Focher.
Il Beethoven «intimo» (e vero) di Gerhard spazza via ogni cliché titanico-retorico: «non è per nulla rosso né butterato ma solo punteggiato da cicatrici del vaiolo. Non è assolutamente schivo, ma genuino e autentico nel modo di parlare, nei movimenti e nello sguardo. E' generoso d'animo e delicato nei sentimenti». Anche con chi non lo merita: come lo sciagurato nipote Carl, suo erede, che gli riserva fra l'altro, negli ultimi anni di vita, un tentato suicidio. Quello stesso Carl che «disdegna di uscire con lo zio per il suo aspetto da “pazzo"». L'aspetto di Ludwig è il carattere che coincide con la sua arte e la sua musica: «facilmente irascibile, distaccato dal mondo esterno, anche diffidente per la sciagurata sordità, ma subito pronto a riconoscere, anche esagerando, le sue mancanze verso gli altri». Chi lo ascolta è soprattutto il gruppo dei pochi amici a lui assolutamente devoti «di cui ha bisogno per la sua scarsa dimestichezza con la vita di società»: oltre ai Breuning, Anton Schindler, violinista e suo futuro biografo, e poi il buon principe Lichnowsky che aveva inviato Fidelio alla regina di Prussia perché «le rappresentazioni di Berlino potessero mostrare ai viennesi quale uomo avevano qui». E ancora: l'arciduca Rudolf e il principe Lobkovitz che gli avevano garantito una pensione e Bettina Brentano, di Francoforte, che gli presta 2.300 gulden per aiutare il fratello in difficoltà finanziarie. Ad alcuni di questi amici, il «Titano» può comunicare senza problemi stranezze e rimpianti: a Schindler dice di aver composto Cristo sul monte degli ulivi in sella a una pianta, con Steffen si duole di non essere mai stato in Inghilterra e di non essersi mai sposato. Anche se, sempre stando a Steffen, «con le donne aveva sempre avuto fortuna».
L’amarezza per la menomazione fisica non lo chiude a una tagliente ironia: a un biglietto d'auguri del fratello in cui è stampato «Johann, proprietario terriero», risponde con un «Ludwig, proprietario di cervello». E’ libero di pensiero anche nei confronti delle istituzioni, lui che «trova braccia aperte soprattutto presso l'aristocrazia» ed è quasi ignorato dalla gente. Vienna gli conferisce la cittadinanza onoraria e lui commenta di non aver mai saputo che in città «ci fossero anche cittadini disonorari», passa accanto a un soldato di fanteria e dice «ecco uno schiavo che per cinque corone al giorno ha venduto la sua libertà», precisa che «le parole sono proibite mentre per buona sorte i suoni, i potenziali rappresentanti delle parole, sono liberi». Non sente più nessun suono da quasi trent'anni, ma ai suoi amici riesce a far ascoltare la sua «vera» verità: «So di essere un artista. Una seconda e un'avanzante terza generazione mi ricompenserà dei torti che ho dovuto sopportare dai miei contemporanei». L'enorme folla viennese ai suoi funerali, il 29 marzo 1827, gli dà già ragione.
O uomini, voi che mi considerate e mi chiamate un essere astioso, caparbio e misantropo, quanto siete ingiusti verso di me! Ignorate la ragione segreta che mi fa apparire così a voi. Il mio cuore, il mio spirito erano inclini fin dall’infanzia al delicato sentimento della benevolenza. Io mi sono sempre sentito pronto a compiere grandi azioni. Ma pensate che da sei anni sono colpito da un male insanabile, peggiorato da medici incapaci. Illuso di anno in anno di poter migliorare, e infine costretto ad accettare l’eventualità di un’infermità duratura...
( Ludwig van Beethoven, dal “testamento di Heiligenstadt”, 6 ottobre 1802 )

lunedì 20 febbraio 2012

Il piccolo Buddha ( I )

Il piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) Regia di Bernardo Bertolucci. Scritto da Bernardo Bertolucci, Mark Peploe, Rudy Wurlitzer. Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche tradizionali tibetane, di Arvo Part (Sarah was 90 years old), canzoni americane. Musiche per il film di Ryuchi Sakamoto. Girato a Seattle (Usa), nel Bhutan e in Nepal.
Interpreti: a Seattle: Chris Isaak (Dean Conrad), Bridget Fonda (Lisa), Alex Wiesendanger (Jesse), Jo Champa (Maria). I monaci: Ying Ruocheng (Lama Norbu) ven. Geshe Tsultim Gyelsen (Lama Dorje), Jigme Kunsung (Champa), Thubtem Jampa (Punzo), Sogyal Rinpoche (Kenpo Tenzin, monaco di Seattle), ven. Khyongla Rato Rinpoche (Abbot). A Katmandu e in Nepal: Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita). La Storia di Siddharta: Keanu Reeves (Siddharta), Rajeshwaree (la moglie di Siddharta, Yasòdhara), Santosh Bangera (Channa, amico di Siddharta) Anupam Shyam (il demone Mara), Rudaprasad Sengupta (padre di Siddharta, re Suddhodana), Kanika Pandey (madre di Siddharta, regina Maya) Durata: 141 minuti

“Il piccolo Buddha” è un film pensato e uscito in un un momento molto diverso da quello in cui stiamo vivendo, quando ancora si parlava di spiritualità e c’erano gli ultimi flussi della grande attenzione per la filosofia e le religioni orientali che aveva pervaso l’Europa e l’America a partire dagli anni ’60. Da vent’anni in qua, dagli anni ’90 in poi, qui da noi si è parlato solo di denaro, con i bei risultati che abbiamo tutti sotto gli occhi. Oggi succede questo: che la religione è vista come un mezzo di contrapposizione e di “scontro di civiltà” (che è più che altro uno scontro di barbarie, come è stato rettificato da osservatori attenti), e che non solo non si parla più di spiritualità (nemmeno quella cristiana) ma che perfino lo yoga sta per diventare un brevetto made in Usa, c’è chi vuole trarne profitto brevettandone le parole più importanti, e anzi ormai è molto avanti su quella strada.
In questo momento di cambiamento Bertolucci propose il suo film su Buddha, nel quale lascia da parte il suo stile grande e sempre un po’ ruvido e aggressivo per cercare di essere il più semplice e diretto possibile, senza dare o pretendere nulla ma limitandosi a raccontare una storia. Da questo punto di vista, vero protagonista del film è il libro per bambini, illustrato, che il lama dona al bambino americano. La semplicità di una storia spiegata a un bambino: è questo che voleva fare Bertolucci, e direi che in questo intento è riuscito benissimo, probabilmente chiarendo le idee a se stesso prima che agli altri. Sarebbe bello, oggi, trovare un altro Bertolucci provi a spiegare in questo modo Cristo e il Vangelo ai bambini arabi, o indiani...e senza voler fare proselitismo, ma solo per desiderio di maggiore conoscenza.
Tornando al film in sè, si tratta di una vera mutazione stilistica di Bertolucci: che con questo film vira decisamente verso Jean Renoir (“Il fiume”, ma non solo) conservando però tutta la sua forza narrativa abituale. Il debito di Bertolucci verso Jean Renoir è antico e risale ai suoi primi film, e già in “Novecento” le citazioni da “La regola del gioco” (il capolavoro di Renoir, del 1939) erano molto esplicite. “Il fiume” di Jean Renoir è girato in India (nel 1951) e alterna parti di narrazione vera e propria, riguardanti una famiglia occidentale, a rielaborazioni dei miti induisti: ed è lo stesso schema del “Piccolo Buddha”. Il titolo si riferisce ai tre bambini protagonisti, ma non solo: “piccolo” ha anche il senso di una spiegazione semplice, lineare, comprensibile a tutti come il libro per bambini che vediamo scorrere per tutto il film.
In questo aprirsi all’Oriente dei nostri anni ‘60 molti videro superficialità e moda; e in parte era vero, ma da qui a disprezzare religioni e filosofie orientali ce ne corre. L’ignoranza in proposito è profonda, e coltivata con cura anche da persone insospettabili. Prevale l’approccio “alla Alberto Sordi”: molti ti vedono con in mano un libro sul buddhismo, e pensano che tu sia o voglia farti buddhista; l’idea che ci sia qualcosa oltre le mode, che qualcuno abbia desiderio di conoscere e di confrontarsi, è diventata cosa remota. E’ purtroppo finito da molto tempo lo spirito d’apertura del Concilio Vaticano II, anche gli incontri di Papa Woytila e Papa Ratzinger con i rappresentanti delle altre religioni finiscono per sembrare qualcosa di esteriore, di non sentito, una cosa che si fa perché si deve e perché ci si fa bella figura, però pronti a cambiar cavallo e atteggiamento tornando all’antica diffidenza appena tira aria diversa.
Il film comincia così, aprendo un libro illustrato: è un libro tibetano, non rilegato ma fatto di fogli sovrapposti da tenere in ordine con cura, come si è fatto per secoli in tutte le civiltà (i papiri egizi seguivano lo stesso principio, non erano libri cuciti e rilegati) e come nei monasteri buddhisti si continua a fare ancora oggi. La storia che si racconta, e che parte subito dopo i brevi titoli di testa, è questa:
C’erano una volta, in un villaggio dell’antica India, un sacerdote e una piccola capra. Il sacerdote voleva sacrificare la capretta agli dei, e aveva già sollevato la mano per tagliarle la gola quando tutto a un tratto la capra si mise a ridere. Il sacerdote si fermò stupefatto e domandò alla capra: «Perché ridi? Non lo sai che sto per tagliarti la gola?» La capra rispose: «Oh, sì: dopo 499 volte che sono morto e poi rinato come capra, questa volta rinascerò come essere umano.»
Poi la capretta si mise a piangere, e l’alto sacerdote disse: «E perché piangi, adesso?». La capra rispose: «E’ per te, povero sacerdote. 500 vite or sono, anch’io ero un Gran Sacerdote e sacrificavo le capre agli dei.» Allora il sacerdote cadde in ginocchio e disse: «Perdonami, ti prego. D’ora in avanti sarò guardiano e protettore di tutte le capre di questo paese.»
Questa storia viene raccontata ai bambini di una scuola buddhista, il libro è nelle mani di Lama Norbu, che sarà uno dei protagonisti del film. Dopo la storia della capretta e del sacerdote, i bambini fanno molte domande, e finiscono col ridere tutti insieme alle buffonerie di Lama Norbu e di Champa, il suo giovane assistente.
La piccola storia è spiegata con disegni buffi, ma è serissima; la reincarnazione è una delle principali differenze fra noi cristiani e i buddhisti, e sarà uno dei temi portanti di tutto il film. Per noi occidentali il ciclo delle rinascite è una cosa strana, per le religioni orientali è qualcosa di ovvio, perfino banale, che si insegna a scuola nell’equivalente del nostro catechismo. A pensarci bene, però, noi abbiamo nel nostro catechismo delle cose molto meno comprensibili (la Trinità, per esempio) che ognuno di noi sarebbe in difficoltà dovendola spiegare a terzi.
La storia della capretta è un bell’esempio di cosa si intende per reincarnazione; è facile da ricordare, è molto chiara e comprensibile, e per questo Bertolucci la pone proprio all’inizio del film. La capra non è vista come qualcosa di diabolico o di faunesco, come accade spesso da noi (il diavolo zoppo della nostra iconografia) ma come una presenza quotidiana, un capretto in un’economia di pastori.
La storia dell’umanità è piena di sacrifici compiuti da sacerdoti, non solo di animali ma anche umani (a questo si riferisce la storia di Abramo e Isacco); qui in Occidente la macellazione è stata completamente laicizzata e industrializzata, non vediamo più morire gli animale e nessuno prega per loro quando li immoliamo in ambiente più o meno sterile e appartato; forse anche per questo l’apertura con questo piccolo “cartone animato” può lasciare sorpresi e farci sentire estranei. Ma la difficoltà di immedesimazione, per questa e per altre sequenze del film, è tutta nostra, che non veniamo da quel mondo. Insomma, per vedere bene a apprezzare “Il piccolo Buddha” bisogna mettere da parte un bel po’ di pregiudizi grandi e piccoli, compreso quello sul cinema “politico e violento” di Bernardo Bertolucci.
Le prime sequenze del film sono state girate in Bhutan, nel monastero di Paro: dove arriva la notizia che è stato forse trovato il bambino in cui si è reincarnato Lama Dorje (si pronuncia, più o meno, Doh-ge), un importante monaco della comunità, maestro molto amato da Lama Norbu. La cosa sorprendente è questa: il bambino è un piccolo americano biondo e anglosassone, che abita a Seattle.
(continua)

Il piccolo Buddha ( II )

Il piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) Regia di Bernardo Bertolucci. Scritto da Bernardo Bertolucci, Mark Peploe, Rudy Wurlitzer. Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche tradizionali tibetane, di Arvo Part (Sarah was 90 years old), canzoni americane. Musiche per il film di Ryuichi Sakamoto. Girato a Seattle (Usa), nel Bhutan e in Nepal.
Interpreti: a Seattle: Chris Isaak (Dean Conrad), Bridget Fonda (Lisa), Alex Wiesendanger (Jesse), Jo Champa (Maria). I monaci: Ying Ruocheng (Lama Norbu) ven. Geshe Tsultim Gyelsen (Lama Dorje), Jigme Kunsung (Champa), Thubtem Jampa (Punzo), Sogyal Rinpoche (Kenpo Tenzin, monaco di Seattle), ven. Khyongla Rato Rinpoche (Abbot). A Katmandu e in Nepal: Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita). La Storia di Siddharta: Keanu Reeves (Siddharta), Rajeshwaree (la moglie di Siddharta, Yasòdhara), Santosh Bangera (Channa, amico di Siddharta) Anupam Shyam (il demone Mara), Rudaprasad Sengupta (padre di Siddharta, re Suddhodana), Kanika Pandey (madre di Siddharta, regina Maya) Durata: 141 minuti
Alla partenza di Lama Norbu, in direzione Seattle (USA), viene iniziato un mandala: per vederlo finito bisognerà aspettare i titoli di coda, e farli scorrere tutti con molta pazienza. Bisogna fare attenzione, perché quell’ultimissima sequenza, inattesa, è facile da perdere ma è quella che dà il senso a tutto il film.
La sequenza prima della partenza di Lama Norbu è tra le più belle del film: l’apparizione con la ciotola di legno, i bambini che le girano intorno. E poi Seattle e una canzone americana, e i monaci tibetani in automobile. A Seattle Bertolucci e Storaro usano una luce blu molto particolare, che quasi non si nota durante la visione del film ma che è molto visibile nei fermo immagine; nella seconda metà del film, in Bhutan e in Nepal, il colore prevalente sarà invece la luce rossa; nelle sequenze dedicate alla storia di Siddharta prevale invece il giallo. Penso che si tratti di filtri per obiettivo, e del lavoro di Vittorio Storaro; ma questo film è già girato con i “trucchi” odierni computerizzati, io non sono un esperto e mi fermo a quest’unica osservazione, aggiungendo che invece Jean Renoir, nel girare “Il fiume”, si era affidato quasi completamente alla luce naturale dell’India, cercando con cura una pellicola che ne potesse rendere la bellezza senza manipolarla.
I monaci sono diretti verso la casa dei Conrad, marito e moglie, genitori del bambino che sospettano possa essere la reincarnazione di Lama Dorje: la vicenda è spiegata con molta chiarezza nel film, e non sto a ripeterla. A pensarci bene, la cosa più irreale del film è probabilmente la gentilezza con cui Mrs. Conrad accoglie in casa i due monaci tibetani: più probabilmente, nella vita reale, sarebbe partita una segnalazione alla polizia e magari una fuga inorridita stringendo il bambino fra le braccia. Ma questo è un film, e nei film è concesso ampio spazio alla fantasia.
Si può far notare un certo divertimento nei nomi scelti da Bertolucci per i suoi personaggi: il cognome Conrad è quello del grande scrittore Joseph Conrad, e Champa è il monaco giovane, ma nel film c’è anche Jo Champa, nome e cognome dell’attrice che interpreta la baby sitter di casa Conrad. Punzo è il nome dell’altro monaco giovane, e si tratta di un cognome napoletano molto diffuso: forse sono davvero due nomi tibetani, ma è facile immaginare uno scherzo con qualche amico.
I dialoghi del film sono spesso brillanti e mai banali, divertono ma rischiano di perdersi nella memoria, dato il contesto serio del film, che offre molti stimoli e riflessioni. Per esempio, quando i genitori del bambino sono da soli e parlano fra di loro dei monaci e di quello che hanno detto, escono battute come queste: “Sono venuti qui come i re magi” (minuto 22). Oppure: “Quello tondo è un astrologo” “E quello quadrato?” “È il suo maestro”.
Al minuto 17, nell’uscire da casa Conrad, Lama Norbu regala il libro al bambino: è la storia di Siddharta, scritta e disegnata in modo da essere comprensibile anche a un bambino. Da qui comincia la parte del film dedicata alla storia di Buddha, dove il giovane Siddharta è interpretato da Keanu Reeves, e che è un film dentro il film. Da qui in avanti, con molta bravura e senza mai stancare, nel montaggio vengono alternate sequenze della vita di Siddharta con quelle della storia principale del film.
Le immagini “antiche” girate da Bertolucci e Storaro sono molto belle, nitide; i rimandi cinematografici possibili sono molto precisi, ci si muove tra Narciso Nero di Powell e Pressburger (1947) e il Mahabharata di Peter Brook (1989, quindi pochi anni prima), senza dimenticare il cinema indiano di Bollywood, e soprattutto con un occhio di riguardo, soprattutto per la semplicità della narrazione, “Il Fiume” di Jean Renoir (1951). Luce chiara, colori nitidi, grande bellezza delle immagini, ci accompagneranno da qui in avanti nel racconto della storia di Siddharta, dalla sua nascita fino all’illuminazione (“risveglio”) come Buddha.
La storia di Siddharta, come è noto, è molto simile a quella di San Francesco: nato in una famiglia ricca (qui addirittura principesca) quando si rende conto della malattia e della sofferenza che esistono nel mondo abbandona tutto, agi e ricchezze, perfino gli abiti che ha indosso, e si dedica a una vita da asceta.
Al minuto 33 è una canzone “in una lingua sconosciuta” che per prima fa balenare l’idea della sofferenza in Siddharta. Questo dettaglio della “lingua sconosciuta” mi ha colpito molto, rivedendo il film: la lingua della nostra infanzia, le parole della madre non ancora ben intese dal neonato, una lingua conosciuta in una vita precedente; o forse soltanto la nostalgia per un paese lontano e per un tempo felice, cioè riferimenti alla nostra nascita e alla nostra infanzia...
Le riflessioni che sorgono sono molte, e a me è venuto da pensare questo: che “Il piccolo Buddha” sia piuttosto un film sulla maternità e sulla nascita. Non so quanto sia un risultato voluto e cercato, ma alcuni dettagli me lo fanno pensare: per esempio la perfetta corrispondenza dell’inquadratura fra il ventre della madre di Siddharta al minuto 30 e il ventre della madre di Jesse nel finale, sulla barca, a Seattle. E, inoltre, la presenza costante e fondamentale di così tanti bambini in questo film: dettaglio tutt’altro che trascurabile.
(continua)

Il piccolo Buddha ( III )

Il piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) Regia di Bernardo Bertolucci. Scritto da Bernardo Bertolucci, Mark Peploe, Rudy Wurlitzer. Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche tradizionali tibetane, di Arvo Part (Sarah was 90 years old), canzoni americane. Musiche per il film di Ryuichi Sakamoto. Girato a Seattle (Usa), nel Bhutan e in Nepal.
Interpreti: a Seattle: Chris Isaak (Dean Conrad), Bridget Fonda (Lisa), Alex Wiesendanger (Jesse), Jo Champa (Maria). I monaci: Ying Ruocheng (Lama Norbu) ven. Geshe Tsultim Gyelsen (Lama Dorje), Jigme Kunsung (Champa), Thubtem Jampa (Punzo), Sogyal Rinpoche (Kenpo Tenzin, monaco di Seattle), ven. Khyongla Rato Rinpoche (Abbot). A Katmandu e in Nepal: Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita). La Storia di Siddharta: Keanu Reeves (Siddharta), Rajeshwaree (la moglie di Siddharta, Yasòdhara), Santosh Bangera (Channa, amico di Siddharta) Anupam Shyam (il demone Mara), Rudaprasad Sengupta (padre di Siddharta, re Suddhodana), Kanika Pandey (madre di Siddharta, regina Maya) Durata: 141 minuti.

Siamo a 35 minuti circa dall’inizio, i genitori del bambino sono da soli e discutono su quello che è appena successo. Lui è molto pensieroso, lei appare più curiosa, per il bambino (che ha otto anni) questa storia dei monaci è un bel gioco e ci si diverte molto, come vedremo anche nelle scene successive. Gli piace molto soprattutto l’idea di essere la reincarnazione di Thunderball, “Lama Fulmine”, che è l’esatta traduzione del nome di Lama Dorje.
- Io sono attratta dall’idea della reincarnazione. Non mi dispiacerebbe ritornare, ritrovare i posti che amo, le persone che amo...
- E se torni come formica?
- (sorride) Perché, che cos’hai contro le formiche? Vita di comunità, grandi picnic...
- (serio) Potresti essere schiacciata.
- (seria) Anche le persone vengono schiacciate.
- Sì, è vero.
Non è infatti per i monaci che lui è in pensiero, ma per il fallimento del socio Evan (che nel film non si vede). L’ombra della morte che appare nella nostra vita serena, come in Renoir nel “Fiume”. Evan non appare mai nel film, ma verremo a sapere più tardi che il fallimento della società è stato dichiarato, con esiti tragici. Grattacieli e speculazione edilizia sono stati la fortuna di Mr. Conrad, che però adesso rischia di perdere anche la casa dove abita.
Al minuto 37 lei dice che tutto questo, alla fin dei conti, è interessante: perché della cosa più importante, del perché si nasce e del perché si vive, non ne sappiamo niente. Lui invece è sempre più perplesso, ed è anche preoccupato perché il bambino ha molta fantasia, non è che ci crede per davvero? In queste sequenze, al minuto 36, vediamo anche che Mr. Conrad (cioè l’attore Chris Isaak) sa muovere le orecchie, cosa che non è da tutti.
Sempre al minuto 37, di seguito, vediamo il bambino che mette il Tibet nel mappamondo, come se fosse il pezzo di un puzzle: il Tibet a tutt’oggi è parte della Cina, che lo invase quando l’attuale Dalai Lama era molto giovane; questa breve sequenza penso che valga da sola la censura al “Piccolo Buddha”, a Pechino. Il pezzo che rappresenta il Tibet è colorato in maniera molto diversa dal resto della Cina, e ben visibile (quasi evidenziato, un corpo a sè) anche dopo essere stato appoggiato al suo posto; penso quindi che si tratti di un omaggio esplicito di Bertolucci al Dalai Lama e alla Resistenza dei tibetani.
Nella sequenza successiva vediamo il bambino che gira per Seattle con i monaci e con la babysitter, e che poi viene lasciato da solo con i monaci. Ad essere sinceri mi sembra piuttosto irreale che dei genitori lascino da solo il loro unico figlio in questo modo, sappiamo purtroppo che la realtà dei monasteri e dei collegi è spesso diversa, quasi sempre ci sono dietro brutte storie, ma questa madre lascia il bambino da solo con i monaci (io non lo farei), e quindi dobbiamo accettare il film così come è, tanto più che Lama Norbu e Champa sono personaggi del tutto positivi. Il padre porterà via deciso suo figlio solo quando Lama Norbu gli dice che c’è un altro bambino candidato come reincarnazione di Lama Dorje: dunque è tutto una grande fesseria, lo stanno prendendo in giro? Ma si tratta solo di un momento, la rottura si ricompone quando Mr.Conrad, in auto con suo figlio per le strade di Seattle, viene a sapere del suicidio del suo socio Evan: un momento di grande commozione, che Bertolucci ci mostra con grande rispetto.
Qui riprende la storia di Siddharta, così come è tratta dal libro che sta leggendo il bambino Jesse. E’ il momento in cui più si vedono le somiglianze fra la storia di Siddharta e quella di San Francesco d’Assisi. La differenza principale è che Siddharta non è soltanto il figlio di un ricco mercante, è il figlio di un re. Suo padre lo ha cresciuto in un ambiente felice, senza mai farlo uscire dalla città, senza mai mostrargli malattie e dolori, e nemmeno la vecchiaia e la decadenza fisica delle persone. Ma ormai Siddharta non è più un bambino, sta per diventare padre a sua volta, e quando in mezzo al trionfo del corteo vede due vecchi mendicanti, portati via dalla polizia di suo padre, ne rimane colpito. E’ la seconda volta che la felicità del giovane viene turbata, la prima è stata con la canzone “in una lingua sconosciuta” ascoltata nel suo palazzo, e che avevamo visto nella sequenza precedente. Siddharta, inseguito dall’amico Channa, abbandona il ricco corteo e va a visitare la città da solo. Per la prima volta è fuori dalla città del Re suo padre, e Siddharta scopre il lavoro: gli oggetti belli, i vestiti, richiedono lavoro, fatica e sofferenza, oltre alla vecchiaia c’è questa scoperta, l’abilità, la costanza nel lavoro. Scopre anche la morte: dopo la morte il corpo diventa rigido come il legno, e come legno va bruciato. Cenere alla cenere, in citazione esplicita, al minuto 48 e poi al minuto 54 con il padre.
Dal minuto 49 non è più la mamma ma è il padre di Jesse a occuparsi del bambino. Adesso Mr. Conrad è libero da ogni impegno: dopo il fallimento e la morte del suo socio, è rimasto senza lavoro e non gli resta che attendere le decisioni degli avvocati e del tribunale fallimentare. Qui c’è una delle scene più belle e significative del film, quella con Lama Norbu e la tazza di tè; mente e corpo, contenuto e contenitore. La tazza si rompe e il tè si disperde, ma continua a rimanere tè: metafora di ciò che succede alla nostra mente dopo la morte.
Da qui in avanti Mr. Conrad, pur rimanendo perplesso, si convince ad accettare la proposta di Lama Norbu: accompagnerà suo figlio in Bhutan, per completare l’indagine sulla reincarnazione di Lama Dorje. La mamma di Jesse, però, non può partire: è un’insegnante, non ha diritto alle ferie, in Bhutan andranno padre e figlio. Ecco, questo è un dettaglio che mi ha colpito, il fatto che la madre resti a casa e partano invece padre e figlio da soli: appare come una cosa molto bella ma non me la spiego del tutto, tanto più che l’elemento femminile, da qui in avanti, sarà ancora ben presente e ben rappresentato. Una bambina, che si chiama Gita, è infatti il terzo candidato ad essere la reincarnazione di Lama Dorje. La conosceremo più avanti, prima bisogna partire da Seattle, e per farlo sarà necessario salire sull’aereo per il Bhutan.
Nan-in, un maestro giapponese dell'èra Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n'entra più!». «Come questa tazza,» disse Nan-in «tu. sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza? ».
(da “101 STORIE ZEN” a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi Edizioni; racconto n.1, Una tazza di tè)
(continua)