lunedì 30 maggio 2011

L'attimo fuggente (Dead poets society) n.3

Dead Poets Society (L’attimo fuggente, 1989) Regia di Peter Weir. Soggetto e sceneggiatura di Tom Schulman. Fotografia: John Seale. Musica: Maurice Jarre. Girato in esterni nel Delaware (USA). Con Robin Williams (professor Keating); i ragazzi: Robert Sean Leonard (Neil Perry, il ragazzo che vuol fare l’attore), Ethan Hawke (Todd Anderson, compagno di stanza di Neil), Josh Charles (Knox Overstreet, innamorato di Cris), Gale Hansen (Charlie “Nuanda” Dalton), Dylan Kussman (Cameron), James Waterston (Pitts), Allelon Ruggiero (Meeks); Kurtwood Smith (il padre di Neil), Carla Belver (la madre di Neil), Alexandra Powers (Cris), Norman Lloyd (Mr. Nolan), Leon Pownall (Mr. Mc Allister), Melora Walters e Welker White (le due ragazze nella grotta). Durata: 128 minuti

Sul dvd originale di “L’attimo fuggente” c’è il commento al film a tre voci: il regista Peter Weir, lo scrittore Tom Schulman, il direttore della fotografia John Seale. Si tratta di un commento molto interessante, con sottotitoli in italiano, che accompagna la visione del film. John Seale interviene quando si parla della parte tecnica, ed è ovviamente da non perdere, ma non posso riassumerla qui; Tom Schulman si sofferma sulla storia raccontata e sul suo incontro con Weir, ed anche qui è difficile riassumere qualcosa, però posso ricordare che la sceneggiatura originale di Schulman era ambientata alla fine degli anni ’60, e fu Peter Weir a spostarla indietro di dieci anni.
La parte più bella, anche letterariamente, è ovviamente quella di Peter Weir: ne riporto qui tre momenti.
minuto 23, per la scena famosa in cui si strappano le pagine dal “Pritchard”.
Peter Weir: ...ho frequentato l’università (...) solo per un anno, per loro fu una liberazione quando smisi, e lo fu anche per me. Era una facoltà umanistica, e ricordo un brutto episodio legato a una poesia di Blake. Ci avevano chiesto di leggerla, e di preparare qualcosa. Credo che fosse “La rosa malata” di William Blake, non ricordo bene quale ma ricordo tutto il resto.
O Rose, thou art sick.
The invisible worm,
That flies in the night
In the howling storm:
Has found out thy bed
Of crimson joy:
And his dark secret love
Does thy life destroy
(O rosa, tu sei ammalata. L’invisibile baco (in inglese “worm” è verme, ma anche drago) che vola nella notte, nella tempesta urlante, ha trovato il tuo letto di gioia color cremisi: e il suo scuro e segreto amore sta distruggendo la tua vita.)
William Blake, da “Songs of Experience.”
Eravamo 15 studenti, all’università di Sydney, io avevo diciotto anni. Amavo molto quella poesia, mi aveva dato molto, la adoravo. Sono solo quattro versi: il professore nell’aula la scrisse sulla lavagna, ricordo lo stridore del gesso mentre scriveva la poesia. Poi si spolverò le mani, si girò verso di noi, e disse: “Questa poesia di Blake è scadente. Perché? Vediamo, e poi sentiamo i vostri commenti.”. Io iniziai ad arrossire, perché per me era molto bella. Lui sottolineò la struttura debole, la metafora alquanto scontata e la banalità del senso. Mi guardavo attorno mentre gli altri prendevano appunti, ero diventato rosso come un fiammifero, anche se nessuno lo aveva notato. Il pensiero che quella poesia mi fosse piaciuta mi imbarazzava. “Sono uno stupido”, pensavo. Uscii dall’aula e non ci misi più piede. Non ho più letto poesie per...non so quanto, forse fino a questa sceneggiatura. Il solo pensiero mi dava quasi la nausea.
L’istruzione può avere effetti devastanti. Molti dovrebbero abbandonare gli studi, meglio per loro impegnarsi in un altro mestiere, fare scarpe, qualcosa d’altro. Cose del genere: cucinare, lavorare in un ristorante, vivere diversamente dedicandosi ad un mestiere. All’università c’è molta gente infelice, gente che ci va solo perché ci vanno tutti, per la mamma e per il papà. E’ gente a cui interessa solo il voto. (...) La scuola dà solo un’infarinatura, ma per noi è diventata una religione, oppure un mezzo per raggiungere dei fini, il che fa un po’ tristezza. Non si studia per ottenere un buon lavoro, o per guadagnare un sacco di soldi e andare a fare le vacanze in Florida. Se così fosse, che senso avrebbe? Il piacere dell’istruzione è conseguire i mezzi per comunicare, per operare, e per continuare ad apprendere in modo da affrontare la vita e i suoi problemi. (...) L’arte apre a nuove esperienze, che sia estasi o coinvolgimento intellettuale ed emotivo....
La poesia di Blake non viene citata direttamente da Peter Weir, l’ho inserita io nella narrazione; il disegno che la accompagna è di mano dello stesso Blake.
minuto 50, Peter Weir, scena della falsa lettera scritta da Neil, e poi le poesie in classe. I riferimenti di Weir sono alla famosa favola del “fagiolo magico”: un bambino vende tutti i suoi pochi averi per un fagiolo magico, e per questo viene deriso e castigato. Però poi dal fagiolo buttato per terra nasce una pianta enorme, e in cima a quella pianta c’è un mondo meraviglioso, abitato da un gigante. Il ragazzo riesce a raccogliere i tesori di quel mondo, ma poi è costretto a tornare a terra e deve abbattere quella pianta meravigliosa a colpi d’ascia, per evitare di essere raggiunto dal gigante.
Peter Weir:  E’ molto importante tenere viva la fiamma della passione. La motivazione iniziale è molto fragile, se si aspira ad una lunga carriera, o se si ha la fortuna di averla. Nel mio caso, prendo delle precauzioni: consciamente o inconsciamente, cerco di mantenermi... non dico “pulito”, che suona strano, ma intendo pulito nel senso del nucleare, liberare il mio corpo dalle radiazioni; e per farlo devo vivere fuori dal circuito cinematografico. Cerco di leggere molto. Mi piace il cinema, ci vado spesso. Ascolto musica. Preferisco vivere fuori dalla comunità cinematografica. Vivo a Sydney, a nord della città. Naturalmente, ho degli amici nel settore; ma trovo che questo mi aiuti a conservare l’entusiasmo dei primi tempi. Ho visto sin dai miei inizi come si possa arrivare ad odiare il cinema, il suo processo di realizzazione è molto difficile, ci si scontra con le persone, si condividono esperienze intense. Si può finire per provarne noia.
Ero determinato a non uccidere la gallina dalle uova d’oro, una cosa buffa perché, vivendo in Australia, mi sembrava di essere Jack (sul fagiolo magico) con una fattoria, l’ascia, e una grande pianta di fagioli. Avevo trovato il castello e il gigante, non proprio Hollywood ma potevo andare lassù e suonare la cetra, e il gigante mi avrebbe dato un uovo d’oro ogni tanto, poi sarei tornato alla mia fattoria. Ho sempre l’ascia pronta, ma non abbatto mai la pianta. Spostarmi dal palazzo alla fattoria giova alla mia mente, alla mia creatività. Oggi si va in palestra, ma credo che la palestra migliore sia quella della creatività: il corpo sa badare a se stesso.
a 1h53’, Peter Weir, sequenza di Todd davanti al preside.
Peter Weir: Le emozioni dello spettatore si uniscono a quelle del regista per creare un grande effetto. Non bisogna essere didascalici (spiegare troppo). E’ sufficiente presentare una storia per dare spazio agli spettatori, il che rende l’esperienza più ricca. Si evita di fare propaganda, di cercare di vendere come nella pubblicità.
Il film deve essere aperto. Alcuni non lo apprezzano, diranno “Non l’ho capito, è vuoto, è noioso”. Ma qualcun altro dirà “Non è ovvio e scontato come molti altri film, ti dà da pensare”. E se entri nello spirito del film è un’esperienza bellissima. Di conseguenza, per chi partecipa al film, diventano importanti anche i dettagli più piccoli...
La cosa più emozionante del film, rivedendolo con calma e pensando di essere al cinema, sono forse le immagini della natura, il cambiare delle stagioni, il paesaggio, gli uccelli, l’albero nella neve del finale. Ma, conoscendo Weir, tutto questo non può sorprendere.

domenica 29 maggio 2011

L'attimo fuggente (Dead poets society) n.2

Dead Poets Society (L’attimo fuggente, 1989) Regia di Peter Weir. Soggetto e sceneggiatura di Tom Schulman. Fotografia: John Seale. Musica originale: Maurice Jarre. Con Robin Williams (professor Keating); i ragazzi: Robert Sean Leonard (Neil Perry, il ragazzo che vuol fare l’attore), Ethan Hawke (Todd Anderson, compagno di stanza di Neil), Josh Charles (Knox Overstreet, innamorato di Cris), Gale Hansen (Charlie “Nuanda” Dalton), Dylan Kussman (Cameron), James Waterston (Pitts), Allelon Ruggiero (Meeks); Kurtwood Smith (il padre di Neil), Carla Belver (la madre di Neil), Alexandra Powers (Cris), Norman Lloyd (Mr. Nolan), Leon Pownall (Mr. Mc Allister), Melora Walters e Welker White (le due ragazze nella grotta). Durata: 128 minuti

Guardando “L’attimo fuggente”, un film di grande successo che tutti ricordano, sul quale si è detto e scritto moltissimo, mi sono sempre chiesto: quanti sono quelli che capiscono veramente quello che succede? Non è una domanda banale, il film è apparentemente semplice e va a colpire tutti noi, perché tutti noi siamo stati a scuola, le scuole sono diverse ma le situazioni che si creano sono ancora oggi molto simili a quelle che vediamo nel film, quindi ognuno di noi è tentato a sovrapporre se stesso al film. Il che non è male di per sè, anzi è buon segno (guai ai film che non ci toccano dentro, almeno un po’...), ma davanti a un autore vero, come Peter Weir, bisogna sempre stare attenti ai particolari.
Per esempio: quanti sono, fra quelli che hanno visto il film e ne hanno parlato, quelli che sanno cosa va a recitare Neil, il ragazzo che vuol fare l’attore nonostante il parere contrario di suo padre?
Si tratta di “Sogno di una notte di mezza estate”, di William Shakespeare: che è una commedia, e quindi non vi sono tragedie con morti ammazzati. Anzi, “Sogno di una notte di mezza estate” è molto divertente, a tratti anche di un umorismo piuttosto grossolano (volutamente grossolano, sia ben chiaro).
Un po’ di confusione la fa lo stesso Neil, nel film, quando dice di aver ottenuto la parte del protagonista: in “Sogno di una notte di mezza estate” i protagonisti sono tanti, è una commedia corale di quelle scritte apposta per far lavorare tutti e far fare bella figura a tutti. Non è “Romeo e Giulietta”, per intenderci, e nemmeno “Otello”; però la parte di Puck è davvero importante, è lui il motore dell’azione, ed è a Puck che spetta il finale, come si vede bene nel film.
Forse si può dire che il vero protagonista è il bosco, la foresta incantata abitata da fate, spiriti, elfi folletti: nella foresta vanno a rifugiarsi due coppie di innamorati, i cui genitori sono contrari al matrimonio. Nella foresta, un’altra coppia: Oberon e Titania, re e regina delle fate e degli elfi e degli spiriti tutti. Oberon e Titania hanno litigato, come succede in tutte le coppie, per futili motivi; di conseguenza Oberon chiama il folletto Puck e lo manda a prendere un fiore, il cui succo spremuto sugli occhi di una persona che dorme la farà innamorare della prima persona che vedrà al suo risveglio. Così Oberon spera di risolvere velocemente il problema con Titania; ma Puck è un folletto molto svelto ma anche un po’ pasticcione, e con quel fiore magico creerà un bel po’ di confusione. Nel film vediamo Puck all’inizio dell’atto secondo, a colloquio con una Fata, una delle tante e quindi senza nome; però questa Fata canta una canzone, e quindi è anch’essa un bel ruolo da interpretare. Nel film la canzone non c’è, incontriamo Puck e la Fata quando la canzone è già finita; però la scena è molto bella e la riporto qui per intero, prima in italiano e poi in inglese (purtroppo per noi, la traduzione usata nel doppiaggio è quasi incomprensibile, e i doppiatori sono molto impacciati; con il sonoro originale si va un po’ meglio).
ATTO SECONDO - SCENA PRIMA
Un bosco nei pressi di Atene. Entrano, da parti opposte, una FATA e PUCK.
PUCK Ehilà, spirito! dove vai errando?
FATA Vado per monti e valloni, per orti e roveti, per fiumi e canneti, tra vampe e burroni, rapido come s'alza la Luna di balza in balza, di collina in collina; e cabale sull'erba disegno con la brina per lei, per la regina delle fate, superba fra le primule snelle, sue dame e sue donzelle, che in lor veste leggera portan la primavera. Devo andar cercando qua e là delle gocce di rugiada e appendere una perla all'orecchio di ogni primula. Addio, spirito screanzato, me ne vado. La nostra regina, con il corteggio di tutti i suoi elfi, sta per giungere a questa volta.
PUCK Il re vorrà dare una festa proprio qui, stanotte: bada che la regina se ne stia lontana dai suoi sguardi, ché Oberon è al colmo dell'ira: e tutto questo a causa d'un ragazzo bellissimo ch'ella ha rubato a un re indiano e che s'è presa come paggio. Non ne ha mai avuto uno più caro e l'invidioso Oberon vorrebbe averlo lui, invece, tutto per sé, fra i cavalieri del suo seguito, per batter la foresta selvaggia innanzi al suo passaggio. Ma essa trattiene a forza il bel ragazzo, lo incorona di fiori e vi concentra tutto il suo piacere. E così accade che quei due non si posson mai più incontrare in boschi o radure, presso limpide fonti, o al vivido splendore delle stelle senza dar sfogo ad aspre liti: al punto che, per la paura, tutti i loro elfi corrono a rannicchiarsi nelle coccole delle ghiande e vi si tengon celati.
FATA O io m'inganno affatto sulla tua forma e sul tuo sembiante, ovvero tu sei proprio quella birba malandrina d'uno spirito che vien chiamato Robin Goodfellow. Non sei tu forse proprio quel tale che spaventa le fanciulle del villaggio, che screma il latte, che s'affanna alla mola del mulino, e che rende vana l'opera laboriosa della massaia nella zàngola per ottenere il burro, e impedisce talvolta alla birra di lievitare, e fa smarrir la strada ai pellegrini notturni per ridere della loro peripezia? Mentre quegli altri che ti vezzeggiano con il nome di Hobgoblin, di Buon Puck, li aiuti nel loro lavoro, e si assicurano la buona sorte. Non sei tu forse proprio colui?
PUCK Dici bene, fata, io son proprio quell'allegro nottambulo, e faccio da buffone a Oberon e gli eccito il riso quando inganno uno stallone ben nutrito di fave imitando il nitrito della puledra. E talvolta mi appiatto nel boccale d'una comare prendendo l'aspetto d'una mela cotta, e quand'ella beve, balzo alle sue labbra e le rovescio la birra sulla giogaia avvizzita. La più assennata fra le matrone, mentre racconta la più seria fra le storie, mi scambia talvolta per un tréspolo; e allora io le sguscio di sotto alle natiche e quella va a gambe all'aria e grida: «All'anima del sarto! » in un accesso di tosse. E tutti gli ascoltatori della compagnia si tengono i fianchi dal ridere, e mentre monta il buon umore giurano in mezzo agli scoppi degli sternuti che non s'era mai data un'ora di più pazza allegria. Ma fatti da parte, fata, perché arriva Oberon.
FATA E arriva anche la mia padrona. Volesse il cielo ch'egli se n'andasse subito.
Entrano, da un lato OBERON con il suo seguito, e dall'altro TITANIA con il suo.
OBERON Cattivo incontro al lume della luna, fiera Titania.
TITANIA Sei tu, invidioso Oberon? Fate, andiamo via subito: ho rinnegato il suo letto e la sua compagnia. (...)
(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, traduzione di Gabriele Baldini, ed. BUR Rizzoli)
ACT II - SCENE I
A Wood near Athens. Enter a FAIRY at one door, and PUCK at another.
PUCK. How now, spirit! Whither wander you?
FAIRY. Over hill, over dale,
Thorough bush, thorough briar,
Over park, over pale,
Thorough flood, thorough fire,
I do wander everywhere,
Swifter than the moon's sphere;
And I serve the Fairy Queen,
To dew her orbs upon the green.
The cowslips tall her pensioners be,
In their gold coats spots you see;
Those be rubies, fairy favours,
In those freckles live their savours.
I must go seek some dew-drops here,
And hang a pearl in every cowslip's ear.
Farewell, thou lob of spirits; I'll be gone;
Our Queen and all her elves come here anon.
PUCK. The King doth keep his revels here tonight;
Take heed the Queen come not within his right;
For Oberon is passing fell and wrath,
Because that she as her attendant hath
A lovely boy, stol'n from an Indian king
She never had so sweet a changeling;
And jealous Oberon would bave the child
Knight of his train, to trace the forests wild:
But she perforce withholds the loved boy,
Crowns him with flowers, and makes him all her joy.
And now they never meet in grove or green,
By fountain clear, or spangled starlight sheen,
But they do square; that all their elves for fear
Creep into acorn-cups, and hide them there.
FAI. Either I mistake your shape and making quite,
Or else you are that shrewd and knavish sprite
Called Robin Goodfellow. Are not you he
That frights the maidens of the villagery,
Skim milk, and sometimes labour in the quern,
And bootless make the breathless housewife churn,
And sometime make the drink to bear no barm,
Mislead night-wanderers, laughing at their harm?
Those that Hobgoblin call you, and sweet Puck,
You do their work, and they shall bave good luck.
Are not you he?
PUCK. Thou speak'st aright;
I am that merry wanderer of the night.
I jest to Oberon, and make him smile
When I a fat and bean-fed horse beguile,
Neighing in likeness of a filly foal;
And sometime lurk I in a gossip's bowl
In very likeness of a roasted crab,
And when she drinks, against her lips I bob,
And on her wither'd dewlap pour the ale.
The wisest aunt, telling the saddest tale,
Sometime for three-foot stool mistaketh me;
Then slip I from her bum, down topples she,
And 'tailor' cries, and falls into a cough;
And then the whole quire hold their hips and loffe
And waxen in their mirth, and neeze, and swear
A merrier hour was never wasted there.
But room, fairy! Here comes Oberon.
FAI. And here my mistress. Would that he were gone!
Enter OBERON, at one door, with his Train; and TITANIA, at another, with hers.
OBE. Ill met by moonlight, proud Titania.
TITA. What, jealous Oberon? Fairies, skip hence; I have forsworn his bed and company.
(...)
(William Shakespeare, A midsummer night’s dream)
Nel film si vede bene, ma solo per pochi istanti, anche Bottom, con la testa d’asino: Bottom è un attore che si è recato con i suoi colleghi nel bosco per le prove di una tragedia greca, “Piramo e Tisbe”; siccome non sono propriamente dei grandi attori la recita diventa molto comica, e il consiglio per chi ancora non la conosce è di andarsela a leggere, perché è molto divertente. I folletti assistono agli sproloqui di Bottom e degli attori, e decidono che una testa d’asino gli dona molto di più di quella sua naturale; Oberon per vendicarsi di Titania (con la quale ha nuovamente litigato) la fa innamorare perdutamente dell’asino. Il quale asino, cioè l’attore Bottom, non si è accorto di niente e non si capacita né della fuga dei suoi spaventatissimi compagni né dell’amore di questa bellissima signora, ma comunque sia prova ad adattarsi.
Una gran confusione: ma poi tutto si sistemerà e si andrà verso un finale lietissimo.
La commedia viene chiusa da Puck, spirito burlone, con un epilogo che è un classico del teatro: il monologo finale, scritto per attirare gli applausi. Se l’attore è bravo, funziona sempre.
PUCK. If we shadows have offended,
Think but this, and all is mended,
That you have but slumber'd here
While these visions did appear.
And this weak and idle theme,
No more yielding but a dream,
Gentles, do not reprehend:
If you pardon, we will mend.
And, as I am an honest Puck,
If we have unearned luck
Now to 'scape the serpent's tongue,
We will make amends ere long;
Else the Puck a liar call.
So, goodnight unto you all.
Give me your hands, if we be friends,
And Robin shall restore amends.
Exit.
(William Shakespeare, A midsummer night’s dream)
PUCK : Se l'ombre nostre v'han dato offesa, voi fate conto che queste visioni così a sorpresa v'abbiano colto mentr'eravate in preda al sonno, in lieve sonno sopiti; ed era ogni visione vaga chimera. Non ci dovete rimproverare se vana e sciocca sembrò la storia; ne andrà dissolta ogni memoria, come di nebbia se il sole appare; se ci accordate vostra clemenza, gentile pubblico, faremo ammenda. E com'è vero ch'io son folletto onesto e semplice, sincero e schietto, se pure ho colpe, non mai ho avuta lingua di serpe falsa e forcuta; pago l'ammenda senza ritardo, o mi direte che son bugiardo. Ora vi auguro sogni felici, se sia ben vero che siamo amici, e ad un applauso tutti vi esorto, poiché ho promesso che ad ogni torto a voi usato per insipienza, gentile pubblico, faremo ammenda.
Exit. Sipario.
(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, traduzione di Gabriele Baldini, ed. BUR Rizzoli)
Si può far notare una cosa: l’originale è in versi, molto musicali; e quando siamo davanti alla poesia, ogni traduzione fa perdere molto fascino all’originale. Non conosco bene l’inglese, men che meno quello di fine ‘500: ma quel poco che so mi consente di cogliere il ritmo dell’originale, ed è musica vera.
La messa in scena che si vede nel film è di buon livello, c’è perfino un’orchestra con musicisti che suonano dal vivo; è ovviamente una delle tante messe in scena possibili, i costumi così pieni di rami e di foglie sembrano pensati per suggerire che i folletti fanno parte del bosco, sono anzi parte stessa del bosco. Non sono sicuro che sia un’idea felice, però questa corona di spine, che fin lì era sembrata un semplice costume di scena, la vedremo poi sulla testa di Neil nella scena più drammatica del film.

domenica 22 maggio 2011

L'Opera al cinema ( I )

I rapporti fra l’opera lirica e il cinema, o la televisione, sono sempre stati difficili. Direi che il problema è irrisolvibile, perché l’opera nasce per il teatro, e il teatro non ha primi piani. Il teatro non ha i microfoni, l’acustica è quella naturale, identica da millenni; l’amplificazione elettrica ha una storia recentissima, meno di cent’anni. L’acustica naturale, da teatro, ha un fascino irraggiungibile che è impossibile riprodurre: anche il migliore dei dischi non riuscirà a recuperare che in piccola parte l’emozione del teatro. Il movimento degli attori, la loro presenza fisica, l’esecuzione unica e irripetibile, diversa ad ogni rappresentazione, non è catturabile se non con molta approssimazione; ed è l’essenza vera del teatro, sia nell’opera lirica che in prosa.
Ne consegue che la maggior parte dei film d’opera sono inguardabili, con poche eccezioni, alcune delle quali (va detto) felicissime. Per quanto mi riguarda, riesco a guardare quasi soltanto le riprese documentarie, quelle fatte senza troppi svolazzi e senza troppi primi piani e con movimenti di camera limitati al minimo indispensabile, cioè quelle fatte con le inquadrature che rispettano il punto di vista dello spettatore in teatro (penso la stessa cosa delle riprese tv delle partite di calcio, detto en passant). Ma, anche qui, rimane sempre un problema irrisolto: a teatro io sono libero di guardare dove voglio, in qualsiasi momento. Posso decidere di ignorare il palcoscenico e di guardare il direttore d’orchestra, per esempio: a teatro lo facevo spesso, lo facciamo in tanti. Alle volte, persino, si ascolta chiudendo gli occhi: ma questo lo si può fare anche davanti alla tv, è l’unica opzione che ci è rimasta. Ma l’acustica del teatro, quella non l’avremo mai: né con i dischi né con i video né con il cinema.
Al cinema, inteso nel senso della sala cinematografica, però qualche volta a questa magia ci si è andati vicini. I cinema di una volta, intendo: che erano molto simili ai teatri, e che spesso erano davvero dei teatri (l’Odeon a Milano, il Sociale a Como, eccetera) adattati al cinema. La sala grande dell’Odeon di Milano, se non è stata toccata di recente, dovrebbe essere ancora identica alla platea di quello che fu uno storico teatro.
I capolavori del teatro d’opera al cinema non sono molti, però ci sono: di questi film ho già parlato a suo tempo. In ordine di mia preferenza personale, li elenco qui sotto:
- Il flauto magico di Mozart, regia di Ingmar Bergman (1974).
- Il ballo delle ingrate di Monteverdi, regia di Ingmar Bergman (1974).
- I racconti di Hoffmann di Offenbach, regia di Powell e Pressburger (1951).
- Mosè e Aronne di Schoenberg, regia di Straub e Huillet (1972).
- La piccola volpe astuta di Leos Janacek, regia di Geoff Dunbar (animazione, 2000)
- Don Giovanni di Mozart, regia di Joseph Losey (1978).
- Orfeo di Monteverdi, regia di Claude Goretta (1985).
La magia e l’emozione del teatro, non solo d’opera, sono state rese molto bene da alcuni film che non parlano strettamente dell’opera lirica: per esempio Jean Renoir e “La Carrozza d’Oro” (1953), “Una notte all’opera” dei Fratelli Marx (1935, favoloso), “Scarpette rosse” di Powell e Pressburger (1948; l’inizio, con l’ingresso di corsa al loggione, è più vero del vero), “Le soulier de satin” di Manoel de Oliveira, (1970, con meravigliose riprese fatte in teatro), “Topsy-turvy” di Mike Leigh (1999, sulle operette inglesi di Gilbert and Sullivan, un altro miracolo di verità teatrale), “E la nave va” di Fellini (1983), tutti film dei quali ho già parlato diffusamente in questo blog.
Non si può non fare almeno un accenno ad “Amadeus” di Milos Forman (1984), film per molti versi discutibile ma con riprese in teatro davvero eccellenti, anche perché girate negli stessi luoghi e negli stessi identici teatri (a Vienna e a Praga) dove Mozart diresse le prime esecuzioni delle sue opere più importanti. Anche di “Amadeus” ho parlato molto, proprio all’inizio di questo blog.
Molto particolare è anche il rapporto di Orson Welles con l’opera lirica: regista di teatro come pochi altri (forse solo Bergman gli sta alla pari) non ha mai filmato opere liriche, ma curiosamente ha scelto gli stessi titoli shakespeariani messi in musica da Giuseppe Verdi, e nello stesso ordine temporale: Macbeth (1948), Othello (1952), Falstaff (1966). Non credo che sia una coincidenza...
Due opere liriche sono state portate al cinema anche da Stan Laurel e Oliver Hardy: “Fra Diavolo” di Auber (1933) e “The Bohemian Girl” di Balfe (anche questi film sono già qui in archivio).
Werner Herzog rappresenta l’opera lirica in “Fitzcarraldo” (1981), e in seguito diventerà regista anche in teatro, così come Ermanno Olmi. Le regie teatrali di Olmi e di Herzog sono molto buone, e anche rispettose del testo; molto più della media dei registi teatrali di oggi, che tendono a mettere in scena se stessi piuttosto che Verdi o Mozart o Pergolesi.
Di altri registi e altri film (con Bernardo Bertolucci in prima fila) parlerò nei prossimi post, ma con il solo intento di fare un piccolo inventario, un mio personale pro memoria che ovviamente non ha nessuna intenzione di esaurire l’argomento e che spero possa essere utile come punto di partenza personale per chi mi legge.
(Le immagini di questo post vengono tutte da “Il flauto magico”, regia di Ingmar Bergman.)
(continua)

L'Opera al cinema ( II )

Parlando del teatro d’opera al cinema, è impossibile dimenticarsi di Luchino Visconti, e in particolare delle prime sequenze di “Senso” (1954): cioè il Trovatore di Giuseppe Verdi, al Teatro La Fenice di Venezia, in riprese che definire leggendarie è decisamente riduttivo. Ma questo è un film che ha fatto la storia del cinema, e non solo: a parlare di Visconti mi sento molto in soggezione, ed è questo l’unico motivo per cui non ho ancora messo nessun film di Visconti in questo blog. Per oggi mi limito a ricordare che Luchino Visconti, come Ingmar Bergman e come Orson Welles, alternava regolarmente l’attività di regista in teatro con quella di regista di cinema, e con esiti straordinari in entrambi i campi. Non è da tutti: per esempio qui da noi Giorgio Strehler e Luca Ronconi, registi grandissimi in teatro, non hanno mai fatto cinema. Di Luchino Visconti si cita ancora oggi (per fare un solo titolo) la leggendaria regia della “Traviata” di Giuseppe Verdi negli anni ’50, alla Scala: direttore Carlo Maria Giulini, protagonista Maria Callas.
Non mi sono invece mai piaciuti i film-opera degli anni ’40 e ’50, quelli con la Loren che fa Aida (doppiata da una vera cantante), o i film con Mario Lanza (che non è mai stato un vero cantante d’opera, ma solo un cantante di musica leggera, come da noi Claudio Villa o Al Bano), e via discorrendo, film che vedevo spesso in tv quand’ero bambino o ragazzo e che per lungo tempo mi hanno fatto detestare l’opera lirica. Qualcosa di buono c’è anche lì, s’intende: ma se fosse stato per quei film non mi sarei mai e poi mai appassionato all’Opera. Mi ci sono appassionato quando ho scoperto cos’era davvero l’Opera, e l’ho fatto dapprima grazie alla radio e poi grazie ai dischi: la parte visiva non aiuta a capire, l’opera va vista e ascoltata in teatro. Altrimenti, meglio i dischi, meglio la radio: e – aggiungo – anche alla radio, meno commenti ci sono e più si capisce (con le dovute eccezioni, naturalmente: oggi sempre più rare, purtroppo si parla troppo, e quasi sempre ripetendo a pappagallo una valanga insopportabile di luoghi comuni).
Sul filone “storico”, ho trovato orribili anche i film dedicati ai castrati, per esempio Paolo Ferrari e “Le voci bianche”(1964, regia di Pasquale Festa Campanile), e il film biografico sul famoso Farinelli, “Farinelli voce regina” di Gérard Corbiau (1999). La storia dei cantanti castrati è terribile, ed è durata quasi fino ai giorni nostri: l’ultimo cantore evirato, Domenico Moreschi, ha fatto in tempo ad incidere un disco. Cent’anni fa Moreschi era già anziano e la registrazione vale solo come testimonianza, la sua voce ormai era molto precaria; la cosa che fa impressione è che i cantanti come lui sono durati fino all’Unità d’Italia, nel 1870 lo Stato Pontificio aveva ancora cantori evirati, e si tratta di Roma, del Papa. Non sto qui a fare tutta la loro storia, che occuperebbe un volume intero: per indicarne l’orrore basterà dire che l’operazione andava fatta prima della muta della voce, cioè su bambini di 10-12 anni. Il senso dell’intervento era questo: evitare la muta della voce, mantenere anche da adulti un timbro di voce simile a quello delle donne, e questo soprattutto perché alle donne era vietato cantare in chiesa. Una donna in chiesa era considerata peccaminosa, un uomo evirato da bambino no: erano altri tempi, si dirà, e la vita di un bambino valeva poco. Non è detto che l’operazione andasse a buon fine: nei casi migliori, il cantante evirato faceva forse una vita migliore dei suoi coetanei, che in quei tempi morivano precocemente di fame e di malattie; e alcuni dei “castrati” fecero grande carriera anche in teatro, nel Settecento, diventando vere e proprie star, richiestissimi in ogni teatro d’Europa. Ma tutto questo a me fa impressione lo stesso: gli ultimi castrati, in teatro, cantarono nel primo Ottocento, poi il gusto cambiò, e – soprattutto – era arrivata la Rivoluzione Francese, stava cominciando il mondo come lo conosciamo oggi. Gli ultimi castrati (in teatro) risalgono ai tempi di Mozart e di Rossini, e di Meyerbeer: ma nessuno di questi compositori scrisse mai volentieri per loro, preferendo altre voci. La leggenda del “do di petto” nasce proprio dalla fine dell’epoca dei castrati: nel primo Ottocento i tenori seguendo il loro esempio eseguivano ancora gli acuti più estremi in falsetto, e il primo tenore che emise quelle note a voce piena fece scalpore. L’epoca d’oro per i castrati (è un termine di cui mi scuso, ma è quello comunemente usato dai musicologi) fu quella di Haendel, la prima metà del Settecento; e oggi le parti scritte per castrato vengono comunemente eseguite da donne, senza troppa fatica. Del resto, già Haendel (che a Londra fu impresario teatrale) scritturava senza problemi sia donne che castrati, a Haendel interessava solo che cantassero bene, dato che la partitura rimaneva invariata.
Nel cinema, quando si vede un castrato (cantante maschio con voce di timbro femminile) si passa da un eccesso all’altro, dalla caricatura becera in chiave checca fino al tombeur de femmes, ma i castrati non erano omosessuali o effeminati, erano persone come le altre; ci saranno sicuramente stati omosessuali ed effeminati tra di loro, ma questo accadeva nella stessa percentuale del resto della popolazione.
Dal punto vista musicale, con questi film siamo quasi sempre in chiave commedia degli orrori, sia con Festa Campanile che con i francesi di “Farinelli”, che mischiarono al computer due voci, una femminile e una di un maschio che canta in falsetto, per cercare di avere la voce di Farinelli come se si trattasse di mostruosità – ma invece bastava rivolgersi ad una voce di donna, a una voce naturale, ai dischi di Marilyn Horne, di Bernadette Manca di Nissa, di Nathalie Stutzmann, ad Ann Hallenberg, o magari alla sublime Kathleen Ferrier...
Incontriamo falsettisti e castrati (in brevi apparizioni) anche nei film romaneschi d’epoca, quelli di Sordi e di Celentano degli anni ’70 (cantanti sempre pessimi e grevemente caricaturali: non si capisce perché mai gli ascoltatori li ascoltino rapiti invece di prenderli “a calci ner culo”, per usare il linguaggio del Marchese del Grillo), e anche nel Casanova di Fellini (1976), dove però in quella scena (bruttina, a dire il vero) tutto appare più sensato perché il ricco padrone di casa è uno che ama i travestimenti, e dove la musica è un abile e dichiaratissimo falso.
Le immagini di questo post (del quale mi scuso per la crudezza, ma non posso cambiare la Storia, che purtroppo è andata davvero così), vengono tutte dal “Casanova” di Fellini: è il momento in cui, a circa due terzi del film, Casanova (Donald Sutherland) è a Dresda e incontra una vecchia amica che è una famosa cantante.
(continua)