The misfits (Gli spostati, 1960), Regia di John Huston. Soggetto e sceneggiatura di Arthur Miller. Fotografia di Russell Metty. Musica di Alex North. Con Clark Gable, Marilyn Monroe, Eli Wallach, Thelma Ritter, Montgomery Clift, Kevin Mc Carthy, Estelle Winwood, James Barton. Durata: 125 ‘
Siamo a Reno, nel Nevada: capitale dei divorzi. Ed è per questo, per divorziare, che è arrivata qui Roslyn (Marilyn Monroe). Il marito lo vediamo per un attimo, poi sparirà dal film: lo interpreta Kevin McCarthy, reduce dal successo di “L’invasione degli ultracorpi”. Roslyn è in compagnia di un’amica più anziana, Isabelle (l’attrice Thelma Ritter, la premurosa assistente di James Stewart in “La finestra sul cortile”), burbera e cinica ma molto protettiva: anche lei venne a Reno per divorziare, ma poi non si è più mossa.
“The misfits”, titolo originale del film, si traduce correttamente con “gli spostati”, stando al mio dizionario: che però aggiunge un secondo significato, “un abito che non si adatta bene al corpo”. Ma forse questo film si potrebbe rendere meglio con “Gli sconfitti”. Come dice Roslyn, “si ritorna sempre al punto di partenza”, senza concludere niente, senza che niente ci resti addosso a parte la delusione e i lividi; un “falso movimento”, come direbbero Peter Handke e Wim Wenders. Oggi diremmo “singles”...
Il divorzio è sempre un fallimento, dal quale si può ripartire ma che lascia addosso ferite spesso insanabili o dolorose: è questo il prima tema del film. E’ la fine di un amore, di qualcosa in cui si credeva e nel quale abbiamo investito molto, e di cui adesso resta poco o niente, solo le briciole e qualche bel ricordo. Il terzo personaggio è Guido, che vediamo all’inizio del film come meccanico d’auto, ma che è in realtà un pilota d’aereo: ne ha uno piccolo e scassato, che guida con maestria e che è per lui una buona fonte di reddito, quando capita. Guido è interpretato da Eli Wallach (che sarà reso famosissimo da Sergio Leone: con la barba di tre giorni, baffoni alla messicana e un sombrero in testa è più facile da riconoscere): verremo a sapere che è vedovo, e non divorziato, che è stato pilota bombardiere in tempo di guerra, e che ha dovuto interrompere gli studi di medicina. La moglie è morta di parto: la stava portando all’ospedale, ma una gomma bucata lo ha attardato nel deserto, e da allora vive solo.
E’ suo amico Gay (Clark Gable), un cowboy anziano ma in eccellente forma. Lo vediamo, all’inizio, anche lui intento a salutare per sempre una signora ricca e piacente che lo vorrebbe in città a darle una mano nelle sue lavanderie: ma figuriamoci, Gay è uno spirito libero e non si farebbe mai incastare a quel modo.
E’ con il personaggio di Gable che si inserisce il secondo tema del film, quello più forte, che parte quasi in sordina per poi crescere man mano che il film avanza. E’ il tema del cambiamento, e del nostro rapporto con la Natura.
Quando i quattro fanno conoscenza, è Isabelle a mettere in guardia (sorridendo) Roslyn: attenzione, quello è un cowboy, io li conosco bene. Gable è un dongiovanni, e come il vero Don Giovanni si muove molto, molto gli passa per le mani, e nulla gli resta alla fine tra le mani: non un affetto, non un lavoro vero, non i figli e la moglie che sono lontani e che non vede da tempo.
Il personaggio di Isabelle, interpretato ottimamente da Thelma Ritter, ricorda molto quello di Don Alfonso nel Così fan tutte di Mozart: è cinica, ne ha viste tante, non scommetterebbe un centesimo sulla riuscita di quell’incontro, ma finché le cose vanno bene è giusto lasciarle andare. Isabelle accetta la vita, sa di non essere più attraente per gli uomini, ma le piace vivere, e le piace il Nevada anche se non è nata lì.
Come ricorda Isabelle, Reno non è solo la capitale dei divorzi ma anche delle case da gioco e degli esperimenti con l’atomica (nel deserto del Nevada). Sembra che sia la capitale del “lascia”, dove niente ti si attacca e tutto è provvisiorio, amori e amicizie comprese.
Gay ha due figli, e la femmina ha quasi la stessa età di Roslyn. L’amore tra i due nasce subito, e la mattina dopo lui le prepara la colazione. E’ molto premuroso, cosa che non ha mai fatto in vita sua; insieme, rimettono in sesto la vecchia casa di Guido, mai terminata dopo la morte della moglie. La casa è incompiuta, è Marilyn che le dà vita perchè ama la vita, come dice Guido sorpreso da tutto quel lavoro sulla sua casa. Anche Guido è innamorato di Marilyn, ma si è ritirato in buon ordine dopo aver preso nota degli eventi. Eppure, all’inizio Marilyn ballava con lui con piacere: Guido è un provetto ballerino, ma la moglie non sapeva ballare.
Huston ama i suoi attori e i suoi personaggi, ed in questo assomiglia molto a Jean Renoir. Nel suo film, Marilyn è bella come non è mai stata, bella come una donna normale. Huston si diverte a mostrarne anche i difetti: non è alta, è formosa (due inquadrature corpose ne mostrano il dettaglio), ha i polpacci grossi. Ma i jeans le stanno benissimo, ed è radiosa: le cronache dell’epoca dicono che Marilyn era in grave difficoltà durante la lavorazione del film (alcolismo, e altro), ma qui non si nota.
Huston riprende con molto affetto anche Clark Gable, al suo ultimo film. A volte Gable mi sembra Tino Scotti, ma fa pur sempre la sua bella figura, e che Marilyn se ne innamori è molto credibile. Bella la scena di Marilyn che esce correndo dall’acqua e lo abbraccia sulla spiaggia. Huston ama davvero i suoi attori e i suoi personaggi, lo si vede in tutti i suoi film. Ha questa caratteristica che me lo rende molto caro, e di sicuro ha messo la sua mano nel soggetto di Arthur Miller ci si è riconosciuto: anche lui aveva le sue ferite da rimarginare.
Ed è da sottolineare questa battuta di Marilyn: “E’ questo che non riesco ad accettare... che tutto cambi continuamente.” Il mondo va avanti, implacabile; e anche i momenti di felicità sono destinati a passare, insieme ai nostri migliori progetti.
L’ingresso in scena di Perce (Montgomery Clift) segna l’inizio della parte più triste del film. Clift interpreta un cowboy da rodeo senza un soldo in tasca, appena rimessosi da un grave incidente. E’ più giovane di Gable, e tra lui e Roslyn nasce una simpatia che potrebbe sfociare in qualcosa, ma il cowboy giovane è davvero malmesso, peggio di quello anziano. Per guadagnare qualche dollaro, ma anche per passione, cavalca tori e cavalli selvaggi nei rodei: dall’ultima caduta si è appena rimesso.
“Gli spostati” è un western crepuscolare. Vediamo gli ultimi cowboys, e non per modo di dire: da qui in avanti la storia ci riserverà molte amarezze in proposito. I cowboys vengono visti così come sono. I cavalli selvaggi non ci sono più, e quei pochi che ci sono ancora vengono macellati e se ne fa cibo per cani. E’ questo il triste segreto che si nasconde dietro la facciata sorridente del mito del cowboy.
Un altro grande tema del film è il contrasto fra città e campagna. Il concetto della natura è molto diverso: il cittadino tende ad averne un’immagine poetica e retorica, quasi arcadica; chi ha vissuto in campagna sa che non è così.
- E se fosse morto? – chiede Roslyn spaventata dopo aver assistito al rodeo da cui Perce è uscito ancora una volta malconcio.- Vorrebbe dire che era giunta la sua ora. – le risponde impassibile Gable; ed è davvero così, per lui che pure lo ha tirato via da sotto le zampe del toro. Lei è di Chicago, non vuole che si uccidano i conigli che rubano la lattuga, al rodeo si spaventa e teme per la vita dei cowboys. Ma per Gay e per Perce anche la morte è un fatto normale, e i conigli esistono per essere uccisi, scuoiati, cotti e mangiati: è così che si fa.
Il vecchio e rude cowboy dice a Roslyn, sconvolta dalla scoperta: “ Nulla può sopravvivere, se non muore qualcosa... Anche un uomo gentile può uccidere... Forse bisogna accettare un po’ di male insieme al bene, altrimenti si continua a fuggire” “Anche tu hai comperato del cibo per il mio cane: cosa pensavi che ci fosse dentro?” “Sono cavalli piccoli, poco robusti: una volta li davano ai ragazzi, ma oggi vanno tutti in scooter e del cavallo non sanno cosa farsene”.
- Ci sono ancora cavalli selvaggi qui? - chiede stupito Perce, quando Gay gli propone l’affare.
- Ne ho visti quindici sulle montagne.
- Per quindici non vale nemmeno la pena di muoversi.Ma poi i cavalli sono solo sei, uno stallone, un puledro, quattro femmine.
La filosofia del cowboy, agli inizi degli anni ’60, è questa: “Tutto è meglio che andare sotto padrone” “Lavoro degno di un uomo ne è rimasto poco” “Fare il cowboy significa essere liberi”. Ma poi Gable ammette: “Forse venendo qui per la prima volta tutto questo può sembrare assurdo... se non si sa come era prima...”Huston riprenderà il tema dei cavalli sei anni dopo in “Riflessi in un occhio d’oro” : qualcosa che è destinato a scomparire, un rapporto diretto con la natura che pochi ormai possono capire. In “Gli spostati” , nel finale, l’uomo si troverà a lottare faccia a faccia con il cavallo, con lo spirito della natura: come il capitano Achab in Moby Dick. “Moby Dick” (un film di quattro anni prima) era stato già evocato dalla donna che chiede soldi “per il cimitero”, all’inizio, nel bar a Reno (la donna vuole costruire uno steccato per evitare che i cowboys “passeggino a cavallo sui nostri morti”).
Un altro tema triste, che Huston non nasconde, è quello dell’alcool. Partita per la campagna con degli uomini gentili e simpatici, Roslyn si ritrova dopo il rodeo in compagnia di tre uomini ubriachi. Guido è il più sobrio e porta l’auto fino a casa, ma c’è da spaventarsi durante il percorso. In città, a Reno, Gay ubriaco delira e pensa di aver visto i suoi figli: che sono andati via da tempo e di lui non ne vogliono più sapere.
Questo film così dolce e così triste ha un lieto fine, bello ma appiccicato: dopo la cattura dei cavalli, con sequenze molto drammatiche, e con tutto quello che ne è seguito, Gable e Marilyn decidono di tornare insieme. E’ lui che guida, nel deserto, senza una strada, di notte.
- Come fai a guidare al buio e ad arrivare lo stesso a casa?
- Ma è facile. Basta seguire la stella, lassù in alto.Il vero finale è probabilmente un altro: Clark Gable che muore pochi giorni dopo la fine delle riprese, già malato; Arthur Miller e Marilyn Monroe che divorziano subito dopo la fine del film; e tante altre cose che non sto qui a ripetere, oggetto di infinite chiacchiere, su Clift e sulla Monroe.
La sconfitta definitiva è l’accettazione di se stessi, dei cambiamenti del mondo, della normalizzazione, della sterilizzazione del mondo: “Sogno di trovare qualcosa che mi faccia sentire vivo”, aveva detto Gay (Clark Gable) chiedendosi perché mai facesse ancora quel lavoro infame per un guadagno così misero. Ed è forse questa la vera morale del film.
2 commenti:
L'ho visto un paio di giorni fa. Bellissima la tua sintesi. Ho sorriso di piacere quando hai citato Moby Dick. E' proprio così.
Difficile dimenticare il vuoto pneumatico delle ultime scene. ( non quelle del finale posticcio ma quelle della cattura dei cavalli ).
non è un film facile ed ha anche dei momenti piuttosto tristi, ma a me piace molto. John Huston somiglia a Tarkovskij più di molti altri, anche se non si direbbe...
:-)
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