lunedì 29 agosto 2011

Il silenzio è d'oro

IL SILENZIO È D’ORO (Le silence est d’or, 1947). Scritto e diretto da René Clair. Fotografia di Armand Thirard e A.Douarinou. Scenografia di Léon Barsacq. Musica: Georges Van Parys. Interpreti: Maurice Chevalier, François Perier, Marcelle Derrien (Madeleine), Dany Robin (Lucette), Robert Pizani (Duperrier), Christiane Sertilange (Marinette), Paul Olivier, Gaston Modot, Raymond Cordy, Paul Demange (il sultano), e molti altri. Durata: 100 minuti.

Un omaggio di René Clair all’inventore del cinema come lo conosciamo oggi, Georges Méliès. Méliès, mago e prestigiatore, aveva rilevato a Parigi il teatro che era stato del famoso Houdini; quando i Lumière fanno la loro prima proiezione va a vederla e chiede di comperare una di quelle macchine, ma i Lumière non gliela concedono e allora Méliès (che è anche un abile artigiano) se ne fabbrica una da solo, inizia a girare brevi film, e soprattutto scopre i trucchi cinematografici. La presenza di fantasmi e diavoli che appaiono e scompaiono nei suoi film (il diavolo è quasi sempre lo stesso Méliès nel classico costume mefistofelico) sono l’immediata garanzia di successo per il nuovo mezzo appena inventato. Méliès inizia a produrre film nel 1896, un anno dopo la prima proiezione dei Lumière, e terminerà la sua carriera nel 1918, non riuscendo più a stare al passo dei colossi americani, francesi e italiani (a Torino, Pastrone e “Cabiria”) che avevano cominciato a muoversi con ben altri mezzi rispetto a quelli ancora artigianali di Georges Méliès; e soprattutto con ben altri capitali a disposizione.
René Clair si ispira dichiaratamente a Méliès per questo film, ma il suo protagonista non assomiglia affatto al vero Méliès: affidando la parte a Maurice Chevalier, attore brillante e con fama di scapolo e di viveur, Clair prende le distanze dal film biografico sia pure nel contesto di una riproduzione storica perfetta. Tra i collaboratori di Clair per questo film, infatti, ci sono alcuni tecnici che avevano lavorato con Méliès: la ricostruzione dei teatri di posa è eseguita con estrema attenzione anche al minimo dettaglio, così come la tecnica di costruzione delle scenografie, la posizione della cinepresa e del palcoscenico, se si va a confrontare si scopre che tutto è identico alle fotografie prese mentre Méliès lavorava, e non poteva essere diversamente perché René Clair aveva veramente vissuto quell’epoca, cominciando a fare cinema (come attore) già nel 1920. A differenza di Méliès, però, Emile (Maurice Chevalier) ha un produttore a cui rendere conto: ecco un’altra differenza significativa, ancora un modo per prendere le distanze dal film biografico e anche un modo per Clair di parlare un po’ di se stesso e delle sue esperienze personali. Va anche detto che Clair è forse troppo preso personalmente dal soggetto per poter condurre lucidamente il film, che è a tratti un po’ confuso, discontinuo (cosa strana per Clair).
Il film inizia benissimo, per strada, con un anticipo di Grandi Manovre, tra l’altro: i dragoni a cavallo si vedono in un breve frammento della sfilata del carnevale, e dopo i dragoni sfilano i moschettieri, ma con l’ombrello, perché piove. Si prosegue poi un po’ a sbalzi, il film si perde per strada, torna grande per alcune sequenze, finisce con un’idea ottima ma realizzata un po’ stancamente. C’è spazio anche per l’ometto che porta sul set una capra: gli avevano chiesto un cammello, ma lui ha solo una capra, e dunque la capra finirà col recitare nei film di Emile Clément. E c’è spazio per tutti gli omini dei film di Clair, Raymond Cordy e soci, come nel Milione: si rappresenta la nascita del cinema, i primi anni, ed è un gran bel vedere perché la ricostruzione è minuziosa. René Clair c’era, ha conosciuto Méliès, ha visto i suoi studi, li ricostruisce in questo film. Si vede anche molto teatro: varietà, can can, donnine, comici, canzoni e cantanti, e non possono mancare i musicisti di strada come in Sotto i tetti di Parigi.
Chevalier è in gran forma, così come l’attore che fa Celestin, padre della protagonista, vale a dire l’uomo che sposò la donna che era amata da Chevalier; e che adesso ha una figlia ventenne, identica a sua madre. Celestin è un ometto simpatico ma ridicolo, sempre in giro in tournée, anche in Algeria; anche dopo vent’anni, pur mantenendo inalterata l’amicizia, Emile-Chevalier non si capacita che la donna che amava si sia sposata con uno come lui. Sarà però la ragazza, la figlia di Celestin, a condurre il gioco. Sembra inerte, indifferente, ma si fa sempre quello che vuole lei; le piace Emile ma sceglierà il suo giovane assistente (interpretato da François Perier), e se non fosse per lei il ragazzo non si sarebbe mai deciso. Chevalier anziano ha qualcosa di James Stewart anziano (forse si somigliavano anche da giovani, ma era difficile notarlo).
Sono tutti bravi gli altri attori, soprattutto nelle piccole parti; però la protagonista non va, non funziona, ed è grave perché le donne come lei sono sempre state il vero centro dei film di Clair. Così come è un po’ scialbo il suo innamorato, che però si dimostrerà (sul palcoscenico) un ottimo attore; e sul suo non essere bello ci si scherza, con ottimi esiti, nei dialoghi. Del resto, i veri divi ai tempi di Méliès non erano ancora arrivati: gli attori erano ancora volti anonimi, all’inizio del cinema. Divertente la scena del ricchissimo Sultano in visita agli studios, dal quale ci si aspettano importanti finanziamenti: come prevedibile prima chiede se la ragazza che recita è in vendita, ma poi protesterà e vorrà il lieto fine, che gli verrà dato cambiando lì per lì la sceneggiatura: lo accontentano, certo che lo accontentano. Anche a voi piace il lieto fine, vero?

martedì 23 agosto 2011

I fratelli Coen ( I )

E’ la prima volta che metto in fila tutte le mie riflessioni sui fratelli Coen. I loro film mi sono sempre piaciuti molto, ma non sono mai riuscito a trovare un filo conduttore, l’impressione è stato spesso che un filo conduttore non ci sia, a parte il riferimento costante alla mitologia e al Macbeth, ai grandi classici (un riferimento ben mascherato...). In ogni caso, il fatto che mi siano piaciuti o meno non è di nessun interesse, perché si tratta di film che sorprendono, che non ti lasciano mai nella stessa posizione in cui eri all’inizio: ed è questo che si chiede al cinema, ai libri, alla musica. Un film, un libro, una musica, un ragionamento che mi lascino allo stesso punto in cui mi trovavo all’inizio, o che confermino placidamente quello che già pensavo prima di vederli, non riesco a considerarli interessanti. Magari mi piacciono e mi ci diverto, e li ricordo sempre volentieri; ma non è detto che valga anche la pena di tornarci sopra, e spesso dopo qualche anno, rivedendoli, si rimane delusi. Questo non mi capita con i film dei fratelli Coen, che anzi rivisti a distanza di anni mi colpiscono ancora e mi sembrano sempre come nuovi. Comincio dunque a riportare qui quello che ho trovato nei miei appunti, e poi vedrò che cosa succede.
Qualche dato biografico: i due sono di Minneapolis, Joel è nato nel 1954, Ethan nel 1957. Hanno sempre fatto i film insieme, con le stesse mansioni, anche se a volte si sono firmati uno come sceneggiatore e l'altro come regista. Joel è sposato con l'attrice Frances McDormand, Ethan è sposato con Tricia Cooke, una delle loro collaboratrici.
I film dei Coen che ho visto:
Blood simple (1984 J.Getz, F.McDormand, D.Hedaya, ME Walsh) ***
Arizona junior (1987 N.Cage, H.Hunter, J.Goodman, W.Forsythe) ****
Barton Fink (1991 J.Turturro, J.Goodman, Judy Davis, M.Lehmer) ***
Crocevia della morte (1994 G.Byrne, A.Finney, Marcia Gay Harden, J.Turturro) ***
Mr. Hula-hoop (1994 Tim Robbins, Paul Newman, JJ Leigh) ***
Fargo (1996 WH Macy, F.McDormand, S.Buscemi, P.Stormare) ***
Il grande Lebowski (1999 J.Bridges, J.Goodman, J.Turturro) ***
L’uomo che non c’era (2001 BB Thornton, S.Johansson, F.McDormand) ****
Fratello, dove sei? (2007 G.Clooney, J.Turturro) ****
Burn after reading (2008 G.Clooney, J.Malkovich, F.McDormand) ****
Non è un paese per vecchi (2008 TL Jones, Josh Brolin, J.Bardem, W.Harrelson) ***
Barton Fink
Ha un finale splendido, anche se subito lascia perplessi (Fink cammina sulla spiaggia con in mano il pacco con la testa della ragazza, e incontra una bellissima ragazza che guarda il mare che c’è nel quadretto della sua camera d’albergo, e ne entra quasi a far parte, un po’ come in “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares). Splendido è anche John Goodman, è solo il suo secondo film che vedo ed è già uno dei miei attori preferiti (anche per immedesimazione fisica...), e surclassa John Turturro che è il protagonista. Il quale Turturro è bravissimo, s’intende; ma senza la presenza fisica di uno come Goodman il film avrebbe perso in credibilità. Per il resto, un gran bel film: e se in tv dovesse trasmetterlo la finivest, c’è già un quasi-ritratto di berlusconi in questo film. Vendere l’anima al diavolo, o quasi: e, infatti, Meadows-Goodman alla fine appare tra le fiamme, e fa una strage. L’eterno mito di Faust, un film “da primi della classe” (vedi Segnocinema nov.91) Andrò a vedere anche i prossimi film dei Coen. (qualcosa di simile a questa storia c’è in The Adjuster di Egoyan, che è del 1991: stesso anno, ma io lo vedrò parecchio tempo dopo) (novembre 1991)
Crocevia della morte
E’ un bell’esempio di manierismo, nel senso alto del termine, e di tutto il Novecento: non c’è niente di veramente nuovo, ma la “confezione” è eccellente, con sequenze memorabili. Il soggetto è la solita storia di gangsters (i Coen rifanno ai film di gangsters lo stesso trattamento che Sergio Leone fece al western), con morti ammazzati, sangue a volontà, casinò e debiti di gioco. Le sequenze memorabili: l’inizio, col cappello che vola via nel bosco (sui titoli di testa); il protagonista che va nel bosco per ammazzare Turturro e il secondo viaggio per cercarne il cadavere; ma, su tutte, prendo quella sulla canzone irlandese Danny boy (cantata da Frank Patterson) dove Albert Finney col mitra (qui sì, Sergio Leone!) sgomina i killers che lo dovevano uccidere e fugge dalla casa incendiata. Però il film non è bello come altri dei Coen, Barton Fink era molto più coinvolgente. Belle le musiche “irlandesi” di Carter Burwell (il mestiere c’è, l’ispirazione latita). Ottimo Finney, bene Byrne, molto bella e “nuova” la Harden, belle facce da cinema per Polito and company, su tutti il gangster omosessuale di J.E. Freeman. Un po’ sacrificato Turturro. (maggio 1996)
Mr. Hula Hoop
E’ all’esatto opposto di Kiarostami: qui tutto è “finto”, ricostruito, tutto è iperbole e trucco (magnifici trucchi!); si tratta di una favola morale scritta e diretta da magnifici manieristi. Ha invece parecchi punti di contatto con Lars von Trier (Europa): nei difetti, soprattutto. I “buchi” nella storia sono tanti e vistosi: il film è molto bello perché quello che è riuscito è riuscito veramente bene (il finale con l’orologio fermato, e la dentiera che salva a dieci centimetri da terra, è da antologia così come i “voli” dal 44mo piano) (“45 se si considera il mezzanino”). Ottimi gli attori, su tutti metterei quello che faceva Moses, il meccanico dell’orologio (Bill Cobbs). Nella musica c’è Gayaneh, che somiglia a Stormy weather e che rimane nelle orecchie per un bel po’ (viene dal balletto  “Spartacus” di Aram Khachaturian: un altro pezzo di questo balletto era in “Odissea nello spazio di Kubrick). Il titolo originale del film è “The Hudsucker proxy”, che si capisce guardando il film, ma che sarebbe del tutto incomprensibile e poco memorizzabile per noi italiani.
(ottobre 1996)
...quando il timido Barnes (Tim Robbins) perde il senso della misura, facendosi trascinare nell’estasi dell’inaspettato successo, il film abbandona definitivamente il terreno realistico, permettendo agli autori di scatenare una serie di imprevedibili reazioni a catena (...)
(da L’Espresso 8 febbraio 2001, presentazione a Mr.Hula Hoop dei Coen - in allegato?)
(continua)

I fratelli Coen ( II )

Il grande Lebowski
E’ molto bello, per certi versi toccante. E’ un film di personaggi, volutamente scombinato, quasi una strip di fumetti. Ma, del resto, quando mai i Coen sono stati lineari? Sequenze spettacolari, mai una banalità, attori e personaggi splendidi. Mi trovo assolutamente d’accordo col discorso finale del cowboy che beve salsapariglia (una presenza angelica?): è bello sapere che esiste un Drugo Lebowski, comunque vada a finire la storia. (e la partita a bowling, col grande Turturro... (marzo 2002)
...l’ironia, o meglio l’irrisione, la derisione, è la chiave di lettura del ridicolo o delle demenze sociali. Il protagonista non ha un’occupazione, come tanti adesso nella fine del lavoro; non ha amori né ideologie né passioni; non pretende di dare alla propria vita altro senso se non quello di viverla con meno problemi e più gioco possibile. “Il grande Lebowski”, insomma, è l’esatto contrario della narrativa ottocentesca (con le sue storie compiute, eroi compatti, sfondi sociali, sentimenti forti, buone cause) che ancora nutre la maggior parte dei film e soprattutto dei film americani d’azione (...) : è un’immagine di quella realtà nostra di cui la cultura stenta a prendere atto, dalla quale la cultura viene lasciata indietro. Per di più, è molto divertente nel tracciare il ritratto di un personaggio e di una città, Los Angeles: «Dopo averla vista, puoi morire senza pensare che Dio t’abbia fregato.» (...)  L’Espresso 14.5.1998, Lietta Tornabuoni per l’ultimo film dei Coen, “Il grande Lebowski” (LA e poi muori...?) (mah!)
L’uomo che non c’era
E’ il solito grande, bellissimo esercizio di stile dei Coen. Si può discutere sulla tinta un po’ funerea, ma i fratelli Coen sono di un talento spettacolare, e i loro film quasi sempre perfetti. Questo qui, in particolare, lo è: anche se il soggetto non mi interessava molto, l’ho guardato fino in fondo senza problemi e mi è piaciuto. Ottimi gli attori, Billy Bob Thornton e tutti quanti, l’avvocato Freddy Riedenschneider che è Tony Shalhoun (una parte che sarebbe stata perfetta per Romolo Valli), e poi Scarlett Johansson che fa la bambina pianista, e suona Beethoven. (gennaio 2004)
ALBERT CAMUS E I FRATELLI COEN
di Enrico Regazzoni, La Repubblica 22 febbraio 2002
L' ultimo film dei fratelli Coen, L' uomo che non c' era, continua a stregare migliaia di spettatori. E' semplicemente bellissimo: la trama è secca, la fotografia superba, la recitazione dei due principali interpreti (Billy Bob Thornton e Frances McDormand) impeccabile, la regia a dir poco magistrale. Ma bastano questi aggettivi, per quanto eccezionali nella loro compresenza, a spiegare l' incantamento che ci assale durante la proiezione, e quel lieve stato ipnotico, al limite dell' ebetudine, che ci costringe al silenzio mentre ci disperdiamo per le strade, dopo lo spettacolo? No, non bastano. E allora? La storia, si ricorderà, è ambientata verso la fine degli anni Quaranta in una cittadina del nord della California. E' qui che il taciturno Ed lavora da barbiere nel negozio del cognato. Ha una moglie, Ed, che fa l' impiegata contabile in un grande magazzino, e che ha una tresca con il suo principale. Per caso, da una conversazione con un tale cui sta tagliando i capelli, Ed intravede la possibilità di un business, per il quale occorre però un capitale iniziale. Non avendo denaro, decide di procurarselo ricattando l' amante della moglie. Da qui, il precipizio: nel corso di una colluttazione, Ed ucciderà il corpulento amico della sua signora; del delitto verrà accusata la moglie; Ed proverà ad autodenunciarsi, per salvarla, ma non verrà creduto; lei si impiccherà in cella; infine, a Ed toccherà la sedia elettrica per un altro omicidio, che non ha commesso. Questi i passi, ben staccati l' uno dall' altro come i gradini di una scala che scende. Ma la progressione della catastrofe, in sé, non sbalordisce più che tanto. E anzi sembra studiata ad arte per scontornare l' imperturbabilità del protagonista. Quella sì, fa paura e incanta.
Lascia sgomenti il modo in cui Ed muove verso la fine, l' assoluta ambivalenza delle sue scelte, la gratuità dell' intenzione, e insomma quella sensazione perfino fisica di inappartenenza alla sua stessa vita: è tutto questo a risultare semplicemente magnetico, e a conferire alla narrazione la cifra enigmatica della tragedia, dove il protagonista vive in un costante scollamento dal senso profondo delle sue azioni. Nel Novecento, questa deriva di un' esistenza liberata dal dolore perché liberata dalla speranza aveva avuto uno dei suoi più inquietanti esponenti in Meursault, protagonista de Lo straniero di Albert Camus. Quel breve romanzo, che fece da specchio dimagrante alle generazioni postbelliche e che ancor oggi rappresenta il valico anagrafico che separa l' onnipotenza dell' adolescenza dall' impotenza della giovinezza è certamente fra le letture più solide dei fratelli Coen. Forse i due registi l' hanno già rivelato, in una qualche conferenza stampa. O forse qualche critico l' avrà già sottolineato. Ma non sarà comunque banale scrivere, qui e ora, che l' algerino Meursault ha un fratello americano, di una sessantina d' anni più giovane, che gli assomiglia in modo impressionante: questo fratello si chiama Ed e fa il barbiere, il barbiere che non c' era. Un rapido checkup psicologico dei due soggetti conferma il loro stretto rapporto di parentela. Meursault, sulla spiaggia, spara ripetutamente all' arabo perché costui lo ha abbagliato indirizzando verso i suoi occhi i raggi del sole riflessi dal coltello. E' un omicidio che nasce dal fastidio di un istante, un gesto senza psicologia: lui spara per difendersi da quei raggi che gli fanno male, spara al sole e spezza due vite, quella dell' arabo e la propria. Per quel delitto verrà poi processato e condannato, secondo un rapporto causaeffetto che gli apparirà tanto logico quanto estraneo. Analogamente, il barbiere Ed ferisce a morte l' amante della moglie: e anche il suo è solo il tentativo di fermare la stretta delle mani che lo stanno soffocando, un colpo portato con l' automatismo di chi allontana un pericolo da sé. Poi torna a casa, e riprende il monologo ai piedi della moglie addormentata esattamente dal punto in cui l' aveva interrotto la telefonata con cui l' amante lo convocava per aggredirlo.
Sia Meursault che Ed spiano con attenzione la loro stessa vicenda, e vorrebbero in certo senso collaborare al buon andamento delle cose, anche quando queste rotolano implacabilmente verso la catastrofe. Sono interessati, più che coinvolti, dal funzionamento dei meccanismi sociali che li stanno annientando. Trovano giusto pagare per l' errore commesso, ma di questo errore non mostrano alcuna percezione morale. E in tale distanza dall' obiettività dei loro comportamenti, e dunque dalle conseguenze, si fonda il fascino che esercitano su di noi: giacché sembrano agire per arbitrio assolutamente libero, quasi avessero superato per sempre i drammi della coscienza con quel balzo verso lo spossessamento di sé che solo al saggio è concesso. Ma, a ben guardare, è solo un' apparenza. Il ghigno fantastico che è stampato sul volto di Ed, dalla prima immagine all' ultima, è sì la smorfia di chi sa tutto ma anche quella di chi ignora tutto. E' la cerniera espressiva che salda l' alba e il tramonto della consapevolezza, la più appagata saggezza e la più naturale idiozia (in ciò l' attore Billy Bob Thornton è vertiginoso; meno fortunato, o meno abile dei due registi americani fu il nostro Luchino Visconti, che avendo affidato il suo Straniero cinematografico all' arte di Marcello Mastroianni dovette accontentarsi di uno sguardo di arresa malinconia). Del resto, l' ambivalenza è la cifra che segna la riflessione di questi due impassibili eroi. Ogni cosa può valere il suo contrario, tutti gli errori sembrano pesare allo stesso modo (cioè poco), nulla si può davvero perdere poiché nulla si può davvero avere. «A che serve conoscersi meglio?», si interroga Ed, ripensando alla storia del suo matrimonio. «Cosa importa che Maria offra oggi la sua bocca a un nuovo Meursault?», si domanda Meursault dalla cella in cui aspetta di essere condotto al patibolo. L' inventario delle analogie potrebbe continuare, ben più a lungo di quello delle differenze. Citeremo ancora solo la morte e il ritmo. Sia Meursault che Ed affrontano la propria esecuzione come la necessaria conclusione degli eventi che li hanno visti protagonisti. Si osservano morire con lo stesso disincanto con il quale, da uomini liberi, assistevano al passeggio delle persone per strada. E' la prova suprema della loro inappartenenza: una fine violenta che può anche spaventarli, ma soprattutto li incuriosisce e non riesce a riguardarli del tutto. Quanto al ritmo, entrambe le storie si muovono con cadenze lente e sincopate, quasi un singulto narrativo costante che tiene a bada il pathos e cerca di porre il protagonista e il lettore (l' attore e lo spettatore) a un' analoga distanza dalla vicenda. A tal fine, Camus adottò il tempo del passato prossimo, mantenendolo per tutto il romanzo. Non meno efficace è la soluzione stilistica dei Coen, che consegnano questo compito alla fotografia in bianco e nero e spezzano il thriller in un puzzle di brevi episodi che sembrano altrettanti frammenti compiuti. Che dire, insomma? Forse che i due registi americani hanno fatto un film che è un pregevole plagio? Tutt' altro: recuperando un esemplare archetipo letterario, i fratelli Coen hanno rimesso in moto autorevoli fantasmi della nostra immaginazione. Che importa che il loro barbiere debba la sua esistenza all' indolente algerino di Camus? Questo debito Ed lo paga, nel corso del film, con una serie di generose citazioni. Poi vive la sua avventura, tutta originale. O meglio: non la vive, perché non c' è. Ma dalle radici della sua assenza non cessa di additare quella zona d' ombra nella quale il senso delle nostre azioni sembra finalmente irrilevante. E dalla quale, in futuro, forse verranno a turbarci nuovi Meursault. - ENRICO REGAZZONI
(continua)

I fratelli Coen ( III )

Fargo
E’ bello e un po’ strano: i titoli di testa dicono che è basato su una storia vera. C’è un rapimento, due loschi killer e rapitori che sarebbero due buffi (stile Mamma ho perso l’aereo) se non fosse per le atrocità che commettono; il suocero-padre-vendicatore, vero duro vendicatore, che in altri film avrebbe fatto strage e che qui muore in un minuto, da stupido (vedi Un tranquillo weekend di paura, Burt Reynolds); c’è, soprattutto, Frances McDormand, poliziotta incinta al sesto mese, che risolve tutto con calma e buon senso, il buon senso che ne farà una brava mamma e un’ottima donna di casa. C’è, ancora, un paesaggio freddo e coperto di neve che apparenta stranamente questo film a “Il dolce domani” di Egoyan. (gennaio 1999)
Il pazzo biondo, Peter Stormare, è svedese e ha recitato l’Amleto in teatro con Bergman. Visto in originale, su dvd, l’accento del posto e le interiezioni sono impagabili, peccato non poterle capire a fondo e apprezzarne ogni sfumatura come facciamo con Totò, con Tino Scotti, con Sordi, con Troisi, con i siciliani, i sardi, i toscani, i veneti, i piemontesi e con tutti i dialetti e gli accenti di casa nostra. (giugno 2011)
Un racconto di Ethan Coen
...mi sentii toccare il braccio da qualcosa di umido e morbido. Era solo l’infermiera, che mi disinfettava il braccio con un batuffolo di cotone. (...) L’infermiera sembrava spaventata. Perché? Non le avrei mai fatto del male, non avrei permesso a nessuno di farle del male. Aveva un viso morbido, lunghi riccioli biondi. Quando venne a sedersi per tenermi fermo il braccio le guardai sotto il vestito. Aveva cosce sode e accoglienti, dove un uomo avrebbe potuto costruire una vita. La guardai e scoppiai a piangere. Piansi in silenzio. Volevano rispedirmi nel sogno. Io, invece, volevo restare lì con lei. (...)
Ethan Coen, da “I cancelli dell’Eden”, ed. Einaudi, da L’espresso 18.2.1999
Mi ha ricordato Platonov:
- Accidenti a te, mi hai svegliato ! - esclamò Gopner con irritazione - adesso mi annoierò di nuovo !
- Il fiume corre, il vento soffia, i pesci nuotano, e tu stai qui ad arrugginire. - attaccò Luj con voce calma e modulata - Va' in qualche posto, il vento ti metterà dentro un'anima e imparerai qualcosa.
(Andrej Platonov, Cevengur, pag.253, ma anche altrove )
Il resto del racconto ha i difetti dei film dei Coen: troppa macelleria. I pregi, qualcosa c’è. (marzo 1999)
Non è un paese per vecchi
E’ un incrocio fra Mezzogiorno di fuoco e i cartoons Warner, Wyle Coyote e Bugs Bunny, con armi fantasiose costruite all’istante, candelotti di dinamite (e anche peggio) sempre a portata di mano e che saltano fuori inaspettati, manca solo di vedere il marchio ACME. Per High Noon, ci metto anche la visita al vecchio sceriffo. E’ evidente, al di là dell’aspetto ludico (ai Coen piace giocare con il cinema) che Javier Bardem è la personificazione della Morte, ma anche del Caso, del Destino: il suo giocare a testa o croce è molto esplicito, in questo senso. Un thriller metafisico, preso da un romanzo di Cormac Mac Carthy, che non so se leggerò mai (ho in mano Kafka in questi giorni, ed è molto meglio) (Il castello, ispirato da Ferreri). Rimane comunque un capolavoro, i Coen sono grandissimi e con loro gli attori sono sempre al meglio, sembrano quasi non recitare. Non conoscevo Josh Brolin, molto bravo.
Mi è piaciuto molto, ed è tipico dei Coen, il narrare per elisione, quasi come se fossero gli eredi di Bresson: nelle prime scene vediamo tutti i dettagli degli omicidi efferati; poi, da metà film in avanti, quando ci si aspetterebbe un crescendo di orrori ed effettacci, basta. Da Woody Harrelson (compreso) in avanti, non si vede più un morto ammazzato: e ce ne sono tanti, protagonisti compresi. Il finale è dedicato al vecchio sceriffo in pensione; la moglie di Josh Brolin dice che non vuole giocare a testa o croce (“perchè sei tu che decidi, non è la sorte”) e poi si vede solo Bardem uscire dalla casa, non una goccia di sangue, nient’altro. Chissà quanta gente si è incazzata, con questo finale: ma i Coen ci stanno dicendo altro, vorrebbero – come fanno i migliori, Bergman e Bresson in testa – che noi provassimo a pensare.
Bardem non muore: non può morire, è la Morte in persona. Si rimette insieme il braccio rotto e va via, la morte è eterna, il destino non ha una fine. La morte va in vacanza, alle volte: ma non in questo film. (la valigia è la stessa di Fargo?)
(settembre 2010)
- Javier Bardem nel film ha uno straordinario caschetto: dove avete preso questa pettinatura?
Ethan: Quando Bardem si è visto allo specchio, voleva lasciare il set; ma la storia è ambientata negli anni ’80 e lo scenografo ha fatto delle ricerche, ci ha fatto vedere le foto di un bordello del Texas in cui c’era un tizio vestito e pettinato in quel modo. Abbiamo pensato che, come psicopatico, fosse perfetto.
Joel: E magari ora questo tizio sta per andare a vedere il nostro film: speriamo che non venga a cercarci...Siamo convinti che anche l’acconciatura parli della vita interiore di un personaggio; ed è più facile, dal punto di vista cinematografico, mostrare una pettinatura che non l’inconscio. (...)
Ethan: ...il cinema come operazione culturale è un pensiero estraneo al nostro modo di concepire questo lavoro. Realisticamente, i nostri film non sono finanziati da grandi società, e quindi per noi il ragionamento da fare è: quale genere di prodotto possiamo ottenere in base al tipo di film che vogliamo fare (...)
intervista ai fratelli Coen, dal Venerdì di Repubblica 30 giugno 2007
(continua)

I fratelli Coen ( IV )

Burn after reading
E’ molto divertente, i Coen sono i veri eredi di Hitchcock, maestro della commedia (per il tipo di umorismo molto particolare e decisamente macabro) e gli attori sono favolosi. Si tratta di un altro apologo sull’insensatezza del mondo e di quello che vi succede, e a questo punto sulla “filosofia” dei Coen dovrei cominciare a ragionare seriamente, si tratta di qualcosa tra il Macbeth e il Faust, un autentico classico a cui va aggiunta la mitologia di Brother where art thou. E qua e là affiora anche il Don Giovanni, of course, con la ribellione al destino e alla morale, l’idea di essere al di sopra di qualsiasi giudizio. Perfetto il meccanismo ad orologeria, qualche caduta di tono anche grave (il “regalo” preparato da Clooney si meritava un taglio del censore, per una volta sarebbe giunto a proposito), e da non sottovalutare l’inizio e la fine: dall’Universo ci si concentra prima sulla Terra, e poi su quel preciso punto, e alla fine c’è il percorso inverso, da quel preciso punto fino all’Universo: forse il Micromegas di Voltaire?
Doppiaggio italiano perfetto, attori eccellenti e molto divertiti, perfettamente a loro agio, come sempre nei Coen. John Malkovich è l’agente Cia che viene messo a riposo, Tilda Swinton è sua moglie e lo tradisce con Clooney, che è un agente del ministero degli interni; non mi sono segnato il nome della moglie di Clooney. Frances McDormand e Brad Pitt lavorano nella palestra per vip di Richard Jenkins, poi ci sono molti altri ottimi attori, e sono belle anche le musiche. Mi ha fatto molto piacere vedere la Swinton in abiti normali, femminili, dopo tanti ruoli “strani”; e la McDormand ha un fisico perfetto, molto tonica, braccia comprese, tostissima: quella che si vede all’inizio, con le braccia cascanti, è una controfigura...
(luglio 2011)
Brother where art thou
Da dove comincio? E’ un discorso complicatissimo, e capisco tutti quelli che sono rimasti perplessi (o peggio) ma questo film è destinato a diventare, per me, uno di quelli che continuerò a vedere e rivedere all’infinito, e che prima o poi si meriterà il trattamento “fotogramma per fotogramma” che ho riservato ai film di Fellini, di Tarkovskij, di Bertolucci, di Bergman...
Per il momento mi segno il ricorso costante alla mitologia, le ninfe dei fiumi e delle acque, le metamorfosi di Ovidio, John Goodman come Polifemo, l’Odissea e il ritorno a casa, ma anche Ulisse sporco e nudo in casa dei Feaci, la beffa al KKK, un’infinità di cose su cui dovrò mettermi a pensare, prima o poi. Che il film mi sia piaciuto o meno, è del tutto secondario.
(giugno 2011)
A questo dovrei tirare una conclusione: come definire i film dei fratelli Coen, favole morali? Le parole che ho usato di più nei loro riguardi sono state quelle riguardanti il manierismo, le vere lezioni di tecnica cinematografica, l’ livello tecnico e narrativo, e sugli attori che si divertono molto, tutti molto professionali, mai una sbavatura. Ecco, forse è questo che colpisce positivamente nei film dei Coen, nonostante le scene di violenza e gli argomenti spesso poco coinvolgenti (per me): che si tocca con mano l’allegria e il divertimento, la convinzione, di tutti quelli che hanno fatto il film. Sembra quasi una compagnia teatrale molto affiatata, molto spesso ci sono gli stessi attori, quasi che abbiano sempre lavorato insieme anche quando non facevano film: il che era naturale per Ingmar Bergman, che alternava cinema e teatro, per i Coen non saprei cosa dire e dovrei informarmi meglio. Ecco, forse per oggi la conclusione giusta è proprio questa: che per tirare una degna conclusione sui fratelli Coen dovrò incominciare ad informarmi un po’ meglio su di loro. Dubito però di trovare qualcosa di utile, sono così sfuggenti che è difficile trovare una critica sensata su di loro. Sembrano ombre nel bosco, una delle loro figure mitiche, magari quelle di “Fratello dove sei”: pensi di averli afferrati, e invece loro, spiriti e naiadi, sono già qualche metro più in là, nascosti dietro un albero, seduti su una pietra, e ridono. Ridono di me, e dei miei goffi tentativi di prenderli nel retino e metterli dentro una scatola.

venerdì 19 agosto 2011

Robert Bresson ( I )

Bresson è un regista che presenta enormi difficoltà, ma di grandissimo fascino. La parola che ricorre di più nei miei appunti è “capolavoro”: mi pare significativo. I film di Bresson che ho già portato nel blog sono: Au hasard, Balthazar (1966) Il diavolo, probabilmente (1977) Lancillotto e Ginevra (Lancelot du lac, 1974 )
I film di Bresson che ho visto :
Les dames du Bois de Boulogne (1945. M.Casares, E.Labourdette, L.Bogaert) ****
Diario di un curato di campagna (1951, C.Laydu, J.Riviere, A.Guibert) ****
Pickpocket (1959, M.Lassalle, M.Green, P.Laymerie) ****
Giovanna d’Arco (1960, F.Carrez, JC Fourneau, R.Honoret) ****
Au hasard, Balthazar (1966, A.Wiazemsky, F.Lafarge) ****
Mouchette (1967, Nadine Nortier, JC Guilbert) ****
Une femme douce (1968, D.Sanda, G.Frangin) ***
Quattro notti di un sognatore (1971, I.Weingarten, G.des Forets) ****
Il diavolo, probabilmente (1977, A.Mohnier, T.Irissari, H. de Maublanc) ****
Lancillotto e Ginevra (Lancelot du lac, 1974, L.Simon, H.Balsam )
L'argent (1982, C.Risterucci, C.Patey, C.Lang) ****
Les dames du Bois de Boulogne (1945)
E’ un Bresson del 1945, da un racconto di Diderot (tratto da Jacques le fataliste): una storia “spinta” che può sorprendere nel percorso di Bresson, ma è bene dubitare dei luoghi comuni e del resto Bresson, come Olmi, riserva sempre molte sorprese e non si tira indietro anche quando ci sono da affrontare discorsi molto espliciti. E’ un autentico capolavoro, anche se qui Bresson somiglia più ad Ophuls che a se stesso. Ma tutta la storia è trattata magnificamente, e la protagonista (Helene, Maria Casares), che per una vendetta d’amore si trasforma in deus ex machina, ha un fascino “nero” eccezionale. Molto ben scelte anche Agnes, la ballerina (Elina Labourdette) e la di lei madre. La prima volta che l’ho visto ho iniziato a vedere questo film dopo circa un quarto d’ora dall’inizio, proprio dalla danza in frac di Agnes, e ho capito subito che era il film di un grande maestro anche se non sapevo ancora di cosa si trattava. In seguito sono riuscito a registrarlo e a vederlo con calma. Tra gli attori, meno convincente il protagonista maschile, che necessitava di un po’ più di fascino per essere credibile come oggetto d’amore della “furia fredda” di Helene. Il titolo del distributore italiano è “Perfidia”. (dicembre 1999)
Diario di un curato di campagna
Curato di Torcy: Io mi chiedo che cosa avete nelle vene. Oggi voi siete dei giovani preti...ai miei tempi si tiravano su uomini di chiesa, capi parrocchia, dei maestri, ecco. Adesso i seminari ci mandano dei sacrestani, dei piccoli mocciosi che vredono di lavorare più degli altri perché non riescono a concludere nulla. Al primo ostacolo, col pretesto che il loro ministero li costringe all’umiltà, rinunciano a tutto.
Il giovane prete: Io non rinuncio a niente, ve l’assicuro!
Curato di Torcy: Avete l’idea di sterminare il demonio ed essere amati, amati per voi stessi, s’intende. Un vero prete non è mai amato, ricordatene, e la chiesa se ne infischia, ragazzo mio, che siate amati. Prima di tutto rispettati, e ubbiditi; e poi che mettiate ordine nelle cose, ognuno con la coscienza che l’indomani troverete di nuovo il disordine, perché questo è giustamente nell’ordine naturale delle cose, che la notte mandi all’aria il lavoro del giorno prima.
...
Prete: Non si mercanteggia con Dio! Ci si arrende a Lui, senza condizioni. Quello che posso dire soltanto è che non esiste un regno dei vivi e un regno dei morti, non c’è che il regno di Dio, e noi ne facciamo parte.
Contessa: Sapete che cosa mi dicevo un istante fa? Non dovrei dirvelo...ebbene, io mi dicevo: se esiste da qualche parte, in quetso mondo o nell’altro, un luogo dove Dio non sia e non operi, dovessi soffrire mille morti, ad ogni secondo, eternamente, vi porterei mio figlio e direi a Dio: saziati, schiacciaci! Vi sembra orribile, non è vero?
Prete: No.
Contessa: Come, no?
Prete: Perché anche a me, signora, accade talvolta. (...) Ma, vedete, se il nostro Dio fosse quello dei pagani o dei filosofi, potrebbe anche rifugiarsi nel più alto dei cieli, che la nostra miseria lo precipiterebbe. Ma voi sapere che il nostro Dio è disceso fra noi: voi potete mostrargli i pugni, sputargli in faccia, batterlo con le verghe, e finalmente inchiodarlo ad una Croce. Che importa...è già stato fatto.
...
Curato di Torcy: La gente non odia la vostra semplicità, se ne difende. E’ come una specie di fuoco che brucia.
...
Prete: Avevo veduto senza saperlo sulla sua fronte (della contessa) il riflesso della pace dei morti...Si pagano, queste cose.
...
Prete: Che importa...Tutto è grazia.
(dialoghi da “Diario di un curato di campagna” di Bresson)
Nonostante il suo discorso iniziale, il curato di Torcy chiederà al prete giovane di essere benedetto:
Prete giovane: Beneditemi.
Curato di Torcy: No, adesso tocca a voi.
La contessa aveva perso un figlio (ma ha un’altra figlia, Chantal) e ne è rimasta duramente segnata, fino ad incattivirsi. Ritroverà la fede dopo il colloquio col giovane prete, ma morirà poco tempo dopo. L’ultima battuta, “Tutto è grazia”, è detta in punto di morte.
Il paese intero di Ambricourt rimprovera al prete di essere un beone: il giovane prete aveva deciso di limitare il suo pasto a un po’ di pane inzuppato nel vino, e viene da chiedersi se sia una cosa possibile, se davvero qualcuno ha potuto seguire seriamente una dieta simile. Anche se c’è tutto il discorso sull’alcolismo “di noi contadini”, il curato di Torcy, e il dottore suicida che parla “di chi vi ha fatto bere alcool prima di nascere”. Vedendo il film, viene da pensare anche al “Pelleas et Melisande” di Debussy, per l’atmosfera generale.
Un film tratto dal libro di Bernanos, e forse il soggetto verte più sull’alcolismo che sulle questioni di fede, ma bisognerebbe decidersi a leggere Bernanos per avere indicazioni più precise. Film rigoroso, cupo, ma non sono sicuro che si tratti di un capolavoro. Il prete protagonista era Claude Laydu, il dottore era Belpetré, il curato di Torcy André Guibert, Chantal era Nicole Ladmiral, Séraphite era Martine Lemaire, la contessa era Marie Monique Arkell. (novembre 1990)
(continua)

Robert Bresson ( II )

Pickpocket
Un capolavoro.La storia narrata è abbastanza inusuale, anche se ricorda un po’ Delitto e castigo, ma è naturalmente lo stile di Bresson nel raccontarla ad incantare. E anche un po’ ad annoiare, va detto ma sarebbe un discorso lungo, forse inutile e forse no... Attori eccellenti: Martin La Salle è il protagonista, l’ispettore è Jean Pelegri, l’amico è Pierre Lemaire, la madre Dolly Scal, il vero ladro è Kassagi e l’incantevole Marika Green è Jeanne-Dunja. Musiche di Lully. (giugno 1994)
L'argent
Fuori di ogni dubbio, un grande film; e non sono d’accordo con chi sostiene che è “cerebralismo” mostrare il prima e il dopo di una rapina, ma non la rapina mentre viene svolta: oppure mostrare un tornero cavalleresco inquadrando gli zoccoli dei cavalli. Piuttosto, visto che il film è del 1982, si tratta di un salutare provvedimento contro le sgommate e le brutalità gratuite (sempre girate allo stesso modo, perciò noiosissime) dei film e dei telefilm che ci vengono dagli Usa, la cosiddetta “fiction”. Difetto principale del film è, però, che spesso diventa difficile seguire gli avvenimenti; anche perché i due protagonisti, Yvon e Lucien, si somigliano moltissimo (non a caso, direi). Si può parlare di cerebralismo, invece, quando si è davanti ad un film che è troppo costruito e tutto sommato non perfettamente riuscito. E’ il primo Bresson che vedo, e perciò dovrò rimandare un mio giudizio. La prima impressione è però molto buona. (ottobre 1989)
Quattro notti di un sognatore
E’ il remake di “Le notti bianche” di Dostoevskij, ed è un film straordinario anche per i suoi difetti. Infatti, nonostante una attualizzazione un po’ goffa (al 1971...) e gli attori un po’ improbabili (meno la ragazza, che è quasi perfetta: è Isabelle Weingarten, che girerà poi “Lo stato delle cose” con Wenders) è davvero un film dostoevskijano: l’aria che si respira è proprio quella dei romanzi di Dostoevskij, e il film è davvero fedele nello spirito e nei fatti a “Le notti bianche”. Anche le piccole goffaggini sono condotte con mano partecipe e gentile, il tocco di Bresson è davvero magico, e anche i brani musicali sono inseriti con una grazia rarissima a vedersi. Tutto il film scorre via con una delicatezza tale che pare percorso da angeli e non da attori: vi è davvero l’aura che cercava Zolla, quella che ritiene perduta. Paragone con Visconti? Sono due film “gemelli” ma molto diversi. Visconti non aveva goffaggini, gli attori erano professionisti formidabili (nonché angelici a loro volta, come capitava spesso a Mastroianni...), il suo film era di impianto teatrale (cosa che a me piace moltissimo), più favolistico che realista, ma sempre in sintonia con Dostoevskij. Bresson è e rimane sempre un maestro, soprattutto nel filmare il “non filmabile”, come Tarkovskij. (gennaio 1997)
intervista ad Anne Wiazemsky
"Ma quello era il cinema, un' avventura affascinante che era cominciata assolutamente per caso".
- Con Robert Bresson.
"Si' . Florence Delay, l' attrice che aveva interpretato Giovanna d' Arco per lui, mi conobbe e gli disse che aveva trovato la ragazza giusta per il ruolo di Marie in Au hasard Balthazar".
- In famiglia che cosa dissero? "Bresson era il regista del Processo di Giovanna d' Arco e del Diario di un curato di campagna, naturale che nella famiglia Mauriac fosse visto di buon occhio. Anche se credo che non colsero appieno il fondo nero di quel film".
moglie di Godard, attrice per Bresson(26 marzo 2000) - Corriere della Sera
(Anne Wiazemsky: il nonno materno era François Mauriac, da parte paterna invece discendeva da una famiglia di principi russi emigrati, sposa Godard a 17 anni, quindi poco tempo dopo il film di Bresson).
(continua)