venerdì 27 marzo 2020

Scala al paradiso


 
A matter of life and Death / Stairway to heaven (Scala al paradiso, 1946). Scritto e diretto da Michael Powell ed Emeric Pressburger. Fotografia di Jack Cardiff. Musica di Allan Gray. Interpreti: David Niven, Kim Hunter, Robert Coote, Roger Livesey, Kathleen Byron, Marius Goring, Richard Attenborough, Raymond Massey, Bonar Colleano, Joan Maude, Edwin Max, Abraham Sofaer, Robert Atkins, Betty Potter, Bob Roberts. Durata: 104 minuti

Un pilota militare inglese chiama la base: dice che sta cadendo, il suo aereo è in fiamme, il suo copilota è morto, sta per abbandonare il velivolo anche se il paracadute non funziona; saluta tutti e compie il gesto disperato, ma incredibilmente si salva. Non solo è incolume, ma troverà l'amore nella giovane americana, anche lei militare, che stava alla torre di guardia dell'aeroporto e che aveva raccolto i suoi ultimi messaggi. Salvarsi in quel modo, per di più senza paracadute, è impossibile: difatti c'è stato uno sbaglio, una svista, e l'efficientissimo aldilà (militarizzato) manda subito un suo agente a cercarlo per riparare all'errore. Il pilota ha nel frattempo ritrovato la ragazza che rispondeva alle sue chiamate, una ausiliaria militare americana, e sono insieme quando lui vede d'improvviso una strana figura, un giovane uomo vestito come nel Settecento, che gli rivolge la parola. Tutto intorno il mondo sembra fermarsi, anche la ragazza è come assopita, immobile: è forse una sua allucinazione? L'uomo del Settecento gli spiega con molta gentilezza che non può restare lì, che adesso deve andare con lui, che c'è stato un errore, una svista causata dalla nebbia. Crede davvero possibile che ci si possa salvare in simili circostanze, per di più rimanendo illesi? Il pilota però si rifiuta di seguire il misterioso personaggio, che si allontana; non appena svanisce, il tempo ricomincia a correre e la ragazza si sveglia ma afferma di non essersi mai addormentata. Di quell'uomo, e di quella visione, lei non sa niente di niente. Passa del tempo, e le visioni si ripetono; la ragazza comincia a preoccuparsi e consulta un suo amico medico; in effetti, il pilota ha una lesione al cervello e bisognerà operare.

 
"A matter of life and death" è una bizzarria, un gioco, ma molto più profondo di quanto non sembri; si toccano temi importanti, e solo nel finale si scopre cosa c'era dietro, la donna innamorata disposta a dare la sua vita per l'uomo che ama, e il suo gesto che commuove gli dei: il mito di Alceste. E' un aldilà pagano quello che trova il giovane pilota, e il francese del '700 (ghigliottinato) che fa da messaggero è un Mercurio, (o un Loge, pensando a Wagner e alla mitologia nordica) ; il giudice con la parrucca è forse un Giove, e comunque non è un paradiso con i santi, non è come quello di Eduardo in "De Pretore Vincenzo" e i rimandi all'aldilà pagano sono molti ed espliciti. Una vittima è già stata ottenuta (Idomeneo?) cioè il dottor Reeves, amico della ragazza americana, partito in moto per aiutare il pilota e vittima di un incidente causato dalla velocità e dal volere fare la corsa con un altro mezzo a motore, e nell'aldilà si discute sul caso imbastendo un vero e proprio processo.


E' il film di Powell e Pressburger successivo a "I know where I'm going" e precede la sequenza "Narciso nero", "Red shoes", "Racconti di Hoffmann" (eccetera); è girato in Technicolor per le sequenze "terrene" e in bianco e nero per quelle dell'aldilà, sempre con la meravigliosa direzione della fotografia di Jack Cardiff, un gigante (su internet c'è un assaggio di cos'è il restauro della pellicola, magnifico). Il titolo originale, oltre a "Questione di vita e di morte", è "Stairway to heaven", ben tradotto dall'italiano "Scala al paradiso"; vediamo la scala che porta al paradiso in una sequenza, con il protagonista che in una delle sue visioni la riconosce e si affretta a correre via.

 
Molte curiosità tra gli attori, su tutti il buffo francese del '700 di Marius Goring, che poi sarà il giovane compositore di "Red shoes", ma si fa fatica a credere che sia sempre lui, è imprevedibile. Poi Roger Livesey, voce particolarissima, che è il dottor Frank Reeves, motociclista spericolato e poi avvocato difensore nel processo dell'aldilà. Raimond Massey è il patriota americano che nel processo sta come Pubblico Ministero, l'accusa. Protagonista è David Niven insieme a Kim Hunter, l'inglese e l'americana; il processo verte anche sulla rivalità tra americani e inglesi; Kim Hunter sarà poi, vent'anni dopo, la dottoressa nel "Pianeta delle scimmie". Uno degli angeli-burocrati è Kathleen Byron, che poi sarà la suora impazzita in "Narciso nero".

 
Altro elemento mitologico è il bambino nudo che suona il flauto, all'inizio, a cui il pilota chiede informazioni su dove è capitato: un'altra figura della mitologia greca, ma all'inizio del film è dura capirlo. I rimandi al mito sono molti, quasi tutti ben nascosti, ed è divertente andarli a ripescare. Per la parte legata alla realtà, cioè all'intervento chirurgico che salverà il protagonista, Michael Powell racconta che aveva un parente medico (suo cognato) specializzato in chirurgia cerebrale, al quale chiese consulenza per l'operazione sul protagonista. Le "allucinazioni perfettamente organizzate" possono essere causate da una lesione al cervello, e sono descritte nella patologia clinica; sempre Michael Powell racconta di non aver voluto troppo insistere sui dettagli "perché c'era troppa gente che, durante la guerra, aveva avuto lesioni e incidenti". Nel film viene detto: « Queste illusioni possono verificarsi nello spazio, ma non nel tempo» e Powell aggiunge: «... questo è il motivo per cui mostrammo la partita a ping pong "congelata" e David Niven che si solleva durante l'operazione mentre tutti coloro che lo circondano sono "congelati" nel tempo». Queste sequenze sono in parte costruite con trucchi cinematografici, e in parte con la recitazione: Roger Livesey e Kim Hunter stanno veramente immobili quando la partita a ping pong si ferma, non è un trucco e bisogna far loro un applauso anche a distanza di così tanto tempo.
«...naturalmente era tutta una presa in giro, e credo che il pubblico lo abbia capito. Mi meraviglia solo, dati i tempi, di averla fatta franca. Vede, in quei film facevo quello che volevo. Fortunatamente, non avevo intorno nessun produttore che mi chiedesse "cosa vuol dire questo'", perché spesso non lo sapevo nemmeno io cosa voleva dire, sapevo solo che andava bene.»
(Michael Powell, pag.83 dal volume edito da Bergamo Film Meeting nel 1986, a cura di Emanuela Martini)


 


 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 


lunedì 23 marzo 2020

Buñuel e la Tavola del Re Salomone


 
Buñuel e la Tavola del Re Salomone (Buñuel y la Mesa del Rey Salomòn, 2001) Regia di Carlos Saura. Scritto da Carlos Saura e Agustin Sanchez Vidal. Fotografia di Josè Luis Lopez Linares. Musiche di Brahms (quarta sinfonia), Wagner (Tristano e Isotta), Federico Garcia Lorca (Los cuatro muleros). Musiche per il film di Roque Baños. Interpreti: El Gran Wyoming, Pere Arguillue, Ernesto Alterio, Adrià Collado, Amira Casar, Valeria Marini, Jean Claude Carrière, Juan Luis Galiardo, Armando De Razza, Eusebio Lazaro, Martin Murjica, Estrella Morente, Farid Fatmi, e molti altri. Durata: 1h35'

"Buñuel e la Tavola del Re Salomone" è una fantasia che parte dall'amicizia reale e storica fra Lusi Buñuel, Salvador Dalì e Federico Garcia Lorca, che frequentarono la stessa scuola; Buñuel e Dalì girarono insieme due film che hanno fatto la storia del cinema, "L'age d'or" e "Un chien andalou". Il soggetto è dello stesso regista Carlos Saura, scritto insieme ad Agustin Sanchez Vidal.
Nel film si immagina che i tre, un po' alla Indiana Jones, vengano incaricati di cercare la Tavola di Re Salomone che è nascosta a Toledo e la cui storia viene narrata all'inizio del film, "seconda per importanza solo all'Arca dell'Alleanza": una specie di specchio che racconta passato, presente e futuro, e che si trovava in origine nel Tempio di Gerusalemme.

 
Riassumere la trama è davvero complicato, ci provo meglio che posso anche perché cercare di capire cosa succede in questo film è divertente, anche se non tutto è di alto livello. Per cominciare, bisogna dire che Luis Buñuel è interpretato da due attori, uno più anziano che dal suo studio immagina e sogna il film, e uno più giovane che partecipa all'azione. I tre si vedono anche da bambini. Buñuel è sordastro e gira con l'apparecchio acustico, lo tiene nell'orecchio e in tasca. Lorca e Dalì sono giovani e aitanti, Dalì più caricaturale (nel film è il classico buffo e imbranato), Lorca è molto semplificato ed è poco più di un bel ragazzo elegante. Si mischiano elementi d'epoca con altri d'attualità: il paesaggio urbano odierno, il lettore cd e altri gadgets, eccetera. Si mischiano ricordi di varie epoche, per esempio Buñuel giovane rimprovera al Dalì ventenne di averlo denunciato, cosa che sarebbe successa diversi anni dopo. Insomma un gioco complesso e divertente che avrebbe meritato un regista più folle di Saura, che è bravo e diligente ma poco più, forse un altro regista avrebbe girato meglio questo soggetto, è un peccato che sia finito proprio a Saura e non a Jeunet, Gilliam, Ruiz, Jodorowski (fate voi). Però il soggetto è proprio di Saura ed è quindi naturale che il film lo abbia girato lui. Saura gioca probabilmente sulle varie lingue, accenti e pronunce iberiche, il catalano di Dalì, gli arabi, il messicano per Buñuel, eccetera; tutto questo nella versione italiana si perde, ma va detto che seguire il film senza doppiaggio sarebbe impossibile, a meno di non essere perfettamente in grado di padroneggiare le lingue iberiche. In genere, bruttine le musiche, melense e banali anche quando riprendono originali di alto livello; fa eccezione l'arabo Farid Fatmi, nel negozio dell'antiquario, gran chitarrista che fa blues in arabo, quasi Hendrix anche nell'aspetto.

 
Si comincia con Buñuel giovane, forse trentenne, al ristorante, apparecchio acustico all'orecchio, che ascolta la proposta di un tizio (Mr. Goldman, interpretato da Jean Claude Carrière) che vuole pagarlo per ritrovare la Tavola di Salomone, così descritta:
- E' una Tavola che fa vedere passato, presente e futuro; era l'oggetto più prezioso del Tempio di Salomone insieme all'Arca dell'Alleanza. Quando Tito saccheggiò il Tempio, nell'anno 70 dC, la portò a Roma dove rimase fino al sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico re dei Goti. Nel 507 i Goti la trasferirono a Toledo, che era la loro capitale. Quando gli arabi conquistarono Toledo, il re Moussa ne rimane sbalordito, e nasconde subito la Tavola. Il suo luogotenente Tarik prende però una delle sue 365 zampe, mettendone una falsa al suo posto, e questo gli frutta duecentomila dinari. La Tavola è uno specchio di metallo di lega speciale, a curvatura variabile, con meccanismo ignoto. Nelle Mille e Una Notte si dice che fu uno specchio in cui si poteva vedere l'Universo intero e i volti di tutte le generazioni a partire da Abramo fino alle Trombe del Giudizio.
- Una ricerca interiore?
- Per Fritz Lang la Tavola aveva la capacità di far emergere nelle persone i lati nascosti, la chiamano l'acchiappasogni.
Si spiega cos'è l'acchiappasogni: una retina intrecciata a forma di labirinto che si mette sopra la culla dei neonati allo scopo di intrappolare i sogni più brutti e far arrivare loro solo i sogni piacevoli. Il riferimento a Fritz Lang è forse per uno dei suoi film; Lang ha girato diversi film con argomenti "magici", ma al momento non riesco a ricordare precisamente a cosa ci si riferisca.
 

Buñuel ascolta la proposta, non vorrebbe accettare, però poi comincia a "vedere" il film (in bianco e nero) e a sognarlo, e nel suo studio inizia a scriverlo. Il film immaginato da Buñuel dopo questo incontro comincerà da Toledo nel 2002 (il film di Saura esce un anno prima, nel 2001). La prima cosa da fare è scegliere gli attori, che vediamo mentre prendono possesso dei loro personaggi: Dalì, Lorca, Buñuel da giovane. "Questi baffi all'insù mi vanno negli occhi", si dice riferendosi a Salvador Dalì. Siamo al minuto 15 e i tre sono al ristorante, una terrazza panoramica; c'è una serie di pessime battute forse vere (prese dai carteggi?), una anche sugli entomologi visti come dei pazzi secondo il più trito dei luoghi comuni. Detto en passant, è grazie agli entomologi se sappiamo curare le malattie più gravi, malaria e peste incluse, ma questo luogo comune e questa superficialità sono durissimi da eliminare e dispiace sempre ritrovarli.
Cercare la Tavola di Salomone è comunque una buona offerta, e i soldi servono sempre; mentre Buñuel e Mr. Goldman discutono arriva una bambina che porta un biglietto a Buñuel, è l'appuntamento da un antiquario che vediamo al minuto 19. Nel negozio dell'antiquario Buñuel (da solo) trova un magnifico chitarrista che canta e suona un blues in arabo, e che somiglia molto a Jimi Hendrix (l'attore si chiama Farid Fatmi); gli presenta "sua nipote Fatima", una giovane bellissima che si direbbe piuttosto sua sorella e che porta Buñuel nel retro, dove mette un cd con la Quarta Sinfonia di Brahms e gli mostra immagini proiettate di Mr.Goldman (che gli ha commissionato la ricerca) e di Anna Maria de Zayas, sua amante; in questa scena molte battute antisemite e Buñuel interessatissimo alla ragazza (Buñuel è visto da tutti come "famoso regista" anche quando è molto giovane).
Al minuto 26 i tre sono ancora insieme e visualizzano un bambino che diventa, a turno, ognuno di loro; Dalì solleva il mare come se fosse un lenzuolo e vi trova Lorca fucilato. Di seguito, al minuto 28, arriva un prete: è un vescovo mozarabico, cristiani che ebbero seri problemi con Roma per via di riti magici e islamizzanti. Discute con loro e li invita alla chiesa di sant'Eulalia a Toledo dove si terrà il loro rito.

Al minuto 30 c'è Buñuel anziano nel suo studio, che ripensa a quello che sta scrivendo nel soggetto; di seguito l'ospedale-manicomio dove un critico cinematografico (Galiardo, probabilmente lo stesso attore) aggredisce Buñuel giovane rimproverandogli i film dozzinali girati in Messico (compreso "Orgoglio e pregiudizio") prima del grande successo degli anni '60 e '70. Al minuto 34 arriva Anna Maria de Zayas (la interpreta Valeria Marini) che li accompagna; si fermano davanti a un dipinto di Jusepe de Ribera, la donna barbuta che allatta (si spiega: è un ritratto dal vero, la donna barbuta era di Napoli e nel quadro è col marito) poi li porta nel tempio di San Giovanni Battista dove c'è il sepolcro monumentale del cardinal Tavera (enorme, disteso in mezzo al locale vuoto).
Qui giunge Aasvero l'ebreo errante, che dà a Buñuel i suoi occhiali. Al minuto 38 Buñuel mette quegli occhiali (si direbbe un 3D, con montature stile Jules Verne) e legge delle scritte in ebraico sui muri dei palazzi di Toledo: "ma certo, gli anaglifi!"
I tre trascrivono quelle scritte e vanno in sinagoga, dove il rabbino giovane le tradurrà:
- Potrebbero appartenere al Libro dello Splendore, che è parte della Cabala. (...) la Tavola di Salomone, vi hanno detto che si trova qui? Voi cosa ne sapete? (...)
Legge e traduce: «Brilla il grande specchio senza mercurio e senza tempo, che concilia i volti delle generazioni... » A questo punto Lorca comincia a declamare dei versi, e il rabbino stupito li traduce subito in ebraico: «...su cui Adamo mangia formiche, il mare ricorda i suoi annegati, e un muro di brutti sogni mi separa dai morti...»
- Avevate detto di non conoscere l'ebraico, - dice stupito il rabbino; e Lorca gli risponde:
- Nemmeno una virgola, stavo recitando versi miei.
- Questo è impossibile, questi versi appartengono a un libro sacro.
L'interpretazione che ne dà il rabbino è questa: nei versi recitati si parla della Tavola di Salomone.

 
Siamo al minuto 43, e Buñuel giovane torna dove c'era l'antiquario, ma adesso lì c'è un macellaio alle prese con una gallina (pessimo l'attore che impersona il macellaio, non sa come si fa). Dal macellaio arriva il prete-vescovo mozarabico; gli danno la coda del toro, che poi mangerà con gusto davanti ai tre. Il vescovo li consiglia di abbandonare la ricerca e di fuggire da Toledo, perché le tre grandi religioni si contendono la Tavola, ed è meglio se resta nascosta. Ma i tre insistono, e il vescovo li avverte che per raggiungere lo scopo dovranno superare la notte toledana: è la purificazione che renderà limpide le loro menti.
Al minuto 46 Buñuel anziano è nel suo studio, dorme e sogna la notte toledana: dove i tre si separano, perché ognuno deve seguire il suo destino personale. Buñuel vede la ronda di notte (Goya?) poi trova la Marini (cioè Ana Maria) con la quale ha una notte d'amore che però termina con rabbini e attrezzi per la circoncisione (così mi sembra) e qui si risveglia Buñuel di nuovo anziano. Per Dalì invece la notte toledana è un incontro con il padre e la madre, da lui più volte derisi e offesi. Lorca viene portato a sentire musica, una gitana gli canta "Los cuatro muleros", cioè la seconda delle canzoni musicate da Lorca stesso (però l'arrangiamento è meno bello dell'originale).

 
Al minuto 60 Buñuel anziano è sveglio nel suo studio e pensa che così non va, nel film deve entrare l'amicizia altrimenti che senso ha mettere Salvador e Federico? Qui parte il Tristano di Wagner: l'amicizia può essere forte come la morte?
A 1h05 i tre partono insieme verso la prova finale, sul tipo quelle del "Flauto Magico" di Mozart, che inizia davanti al vescovo mozarabico qui con tutti i suoi paramenti, pastorale compreso, e non più vestito da semplice prete. Con la benedizione del vescovo, i tre vanno al buio, per cunicoli, sottoterra, sotto il fiume; manca l'aria, trovano muri che stillano sangue...
a 1h13 Lorca grida "è sangue!" Siamo sotto alla Plaza, le più grandi piazze di Spagna sono cariche di grida, celano sotto di loro un lago di sangue, una pozza agonizzante che batte come un cuore... (presagio della sua fucilazione). In un quadro che si direbbe di Dalì i tre trovano i cadaveri decomposti di Ana Maria e di Goldman, nell'atto dell'amplesso; poi scivolano fino a finire nella merda (sic) , arrivano a un incrocio, hanno la torcia accesa, e infine trovano l'eremita (lo stesso attore che impersonava Aasvero) col pastorale ma di legno (un ramo curvo) che spiega loro che sono arrivati fin lì perché sono purificati, altrimenti avrebbero fatto la fine di quelli (indica le pareti, fatte di ossa e di teschi); quindi possono continuare, e li fa scendere in un pozzo.
A 1h23 i tre incontrano un grande robot, tra Metropolis e Ultimatum alla Terra, che cerca di farli retrocedere: ma è solo l'ultimo ostacolo, ormai sono arrivati.
A 1h28 ecco lo Specchio, cioè la Tavola. I tre vedono il loro destino, la guerra, e altro ancora. Qui finisce il film, sul primo piano di Buñuel giovane che dice cose di cui mi sfugge il senso (a dire il vero ne ho abbastanza, e poi è giusto lasciare qualcosa in sospeso per chi passa di qui).

 
Un film complesso, tutto sommato ben girato, ma gli argomenti tirati in ballo meritavano maggiore profondità; si vede comunque volentieri, è piuttosto divertente e ben recitato nel complesso, Valeria Marini compresa. Gli attori: Buñuel anziano, cioè sui 50, è El Gran Wyoming, pseudonimo di un attore serio e misurato del quale ignoro ogni cosa. Buñuel giovane è Pere Arguillue, Dalì giovane è Ernesto Alterio, Lorca è Adrià Collado. Fatima è Amira Casar, Ana Maria de Zayas è Valeria Marini, David Goldman è Jean Claude Carrière, famoso sceneggiatore (anche per Buñuel). Il critico cinematografico è Juan Luis Galiardo; il vescovo mozarabico si chiama Avilo Avendaro ed è interpretato da Armando De Razza (amico di Arbore); il rabbino è Eusebio Lazaro, Aasvero e l'eremita sono affidati a Martin Murjica. La gitana che canta per Lorca è Estrella Morente, il chitarrista arabo è Farid Fatmi.


 
(le immagini sono quelle che ho trovato in rete,
ringrazio chi le ha rese disponibili)




giovedì 19 marzo 2020

I fidanzati



I fidanzati (1963) Regia di Ermanno Olmi. Scritto da Ermanno Olmi. Fotografia di Lamberto Caimi. Musiche di Gianni Ferrio. Interpreti: Carlo Cabrini, Anna Canzi, e molti altri. Durata: 81 minuti

"I fidanzati" è un film sul lavoro: all'operaio interpretato da Carlo Cabrini, specializzato nella costruzione e manutenzione di impianti complessi, viene proposto un avanzamento di carriera: ma dovrà trasferirsi in Sicilia per insegnare agli operai del posto. E' il film successivo a "Il posto" e dal titolo ci si aspetterebbe qualcos'altro, magari proprio il seguito del film precedente, ma qui i due fidanzati sono vicini ai trent'anni, è un fidanzamento che dura da molto e questa separazione, la prima per loro, servirà a far capire ai due che si vogliono bene. Un altro tema importante è l'assistenza al padre anziano, che rimarrà in casa da solo; un altro problema non da poco per il protagonista del film.
Il film si svolge quasi tutto in Sicilia, tra gli impianti di un'industria chimica, dove bisogna iniziare con la ricerca di una stanza in affitto che gli operai devono però pagare con i loro soldi. L'impianto petrolchimico dovrebbe essere a Priolo, ma non ho trovato indicazioni precise in proposito; alcune scene sono girate a Paternò e a Siracusa. Ci sono molte belle sequenze nello stile di Olmi, con molto affetto come sempre verso i suoi personaggi e verso il mondo del lavoro. Si può ricordare, per chi non ne fosse a conoscenza, che Ermanno Olmi iniziò proprio girando cortometraggi per la Edison, brevi storie o documentari realizzati per mostrare ai potenziali clienti come si lavora nella ditta. L'inizio, con i due fidanzati nella sala da ballo, sembra già un anticipo di Bela Tarr; la scena della festa di paese in Sicilia, con maschere e coriandoli, rimanda un po' ai Vitelloni di Fellini (vedi minuto 46), ed è bella anche la scena dell'irruzione del cane in chiesa, molto delicata. Un incidente sul lavoro e l'arrivo dell'ambulanza mostrano anche l'altra faccia della realtà del mondo del lavoro, una realtà poco o per niente mostrata nei nostri film. Gli attori, quasi tutti non professionisti, sono tutti bravi: lei si chiama Anna Canzi, lui è Carlo Cabrini; gli altri interpreti non sono menzionati nei titoli di coda. Bruttine solo le musiche di Gianni Ferrio, peccato: si poteva scegliere qualcosa di meglio, in quel 1963.
La realtà dei lavoratori negli impianti, della costruzione degli impianti chimici e della loro manutenzione, è stata raccontata anche da Primo Levi, in "La chiave a stella"; è una realtà che anch'io ho conosciuto, non in prima persona ma tramite il racconto di amici e colleghi spesso mandati in luoghi lontani, non la Sicilia ma magari l'Iran, l'Africa, e oggi probabilmente anche la Cina. Per chi fosse interessato, si può guardare anche un bel documentario di Bernardo Bertolucci, "La via del petrolio" (che è già qui da tempo, su questo blog).



martedì 17 marzo 2020

Bisturi la mafia bianca


 
Bisturi la mafia bianca (1973) Regia di Luigi Zampa. Scritto da Dino Maiuri e Massimo De Rita. Fotografia di Giuseppe Ruzzolini. Musiche di Riz Ortolani. Interpreti: Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno, Claudio Gora, Senta Berger, Enzo Garinei, Piera Degli Esposti, Antonella Steni, Vittorio Mezzogiorno, Tina Lattanzi, Luciano Salce, e molti altri Durata: 1h43'

Prima di cominciare, un ringraziamento a tutti i medici e gli infermieri del Servizio Sanitario Nazionale, e a tutti quelli che lavorano con loro e li aiutano in questi giorni drammatici.

Non è un capolavoro, "Bisturi la mafia bianca", ma vale comunque la pena di parlarne perché ha una sua importanza dal punto di vista storico: esce infatti poco dopo la riforma del Servizio Sanitario Nazionale, datata 1969, della quale si è appena ricordato il cinquantenario. E' una riforma che è stata in gran parte affossata da leggi più recenti, in primo luogo quella fortemente voluta in Lombardia dall'allora presidente Formigoni e dalla Lega Nord, che ha concesso ampio spazio di manovra ai privati. Quello che è successo negli ultimi due decenni è ben sintetizzato da un titolo recente: «Mancano 56mila medici, 50mila infermieri e sono stati soppressi 758 reparti in 5 anni. Per la ricerca solo lo 0,2 per cento degli investimenti. Così la politica ha dissanguato il sistema sanitario nazionale che ora viene chiamato alla guerra» (L'Espresso, febbraio 2020: la "guerra" è quella al corona virus).

 
Negli ultimi vent'anni c'è stata una proliferazione straordinaria di centri clinici privati, che di fatto incassano soldi pubblici perché sono stati equiparati alla Sanità pubblica e convenzionati con essa; Formigoni (che nel frattempo è stato condannato in via definitiva a cinque anni di carcere proprio per reati legati alla Sanità) l'ha portata come esempio di libertà, "possiamo scegliere dove curarci". Come conseguenza, gli ospedali e gli ambulatori pubblici sono stati chiusi o ridimensionati, chiusi i "piccoli ospedali", tutta una serie di tagli che ha, di fatto, portato all'intasamento del Pronto Soccorso un po' in ogni parte d'Italia. Per esempio, nel Comune dove vivo (ben servito dai mezzi pubblici) la locale Azienda Sanitaria del Servizio Pubblico è stata praticamente svuotata, resiste ancora ma fa poco più dei prelievi di sangue; quando io ero bambino c'erano nei suoi locali molti ambulatori, oggi anche solo per fare una radiografia o un'ecografia bisogna andare altrove. L'altrove in questione è a pochi chilometri di distanza, in un centro privato, in un altro Comune mal servito dai mezzi pubblici: un evidente non senso, che si spiega solo con una questione puramente - come dire - economica. Del resto, la Lombardia è stata teatro di clamorosi scandali (recenti e recentissimi) nella Sanità: dall'ospedale San Raffaele in giù, la lista di condanne e le indagini in corso sui soldi sperperati (uso un altro eufemismo) vanno a costituire un elenco praticamente senza fine.
 
"Bisturi la mafia bianca", non è un brutto film, ma neanche un film di Elio Petri come forse voleva essere; la denuncia si ferma un po' prima, direi per colpa degli sceneggiatori. E' interpretato da alcuni grandi attori del cinema italiano di quegli anni: Gabriele Ferzetti è un primario senza scrupoli, ma anche venerato come capace di "miracoli" e benefattore; Enrico Maria Salerno è il suo alter ego, ex collega d'università che affoga le crisi di coscienza nell'alcool. Difficile riparametrarsi a quasi cinquant'anni fa: si parla di una possibile riforma (di sinistra) che statalizzerebbe la Sanità togliendo soldi ai baroni come il protagonista di questo film e ad altri, come il personaggio interpretato da Claudio Gora, titolare di alcune cliniche concorrenti, e questo fa pensare ai cinquant'anni dalla riforma del Servizio Sanitario (1969-2019) e alle controriforme volute soprattutto da Formigoni e iniziate in Lombardia, delle quali il Ferzetti e il Gora di questo film sarebbero stati contentissimi (un sogno!). Così come l'eliminazione dal servizio pubblico di una macchina per il rene artificiale, che disturbava gli introiti della clinica di Gora, che vediamo imballata e pronta per essere trasferita altrove; nel frattempo, dato che questa macchina non è disponibile, vediamo morire un bambino arrivato dal Pronto Soccorso.

 
Il film è stato scritto da Dino Maiuri e Massimo De Rita; nel cast Senta Berger nel ruolo di una suora e infermiera, con un flirt mancato con Enrico Maria Salerno: oggi vedere una suora è diventato una rarità, anche negli ospedali, ormai le suore si trovano quasi solo in tv, nella fiction. Altri attori: Piera Degli Esposti è la moglie di un malato, Enzo Garinei è un medico, aiuto fidato di Ferzetti; Luciano Salce fa una macchietta inutile, che si poteva eliminare; Tina Lattanzi è la madre di Ferzetti, Vittorio Mezzogiorno ha una piccola parte, un giornalista; riconoscibile anche Antonella Steni. Il regista Luigi Zampa non è tra i migliori del cinema italiano, ha un suo nome conosciuto e una sua professionalità, ma non riesce ad andare fino in fondo nella denuncia e scivola spesso nel fotoromanzo; è responsabile anche di "Il medico della mutua" del 1968, con Alberto Sordi, film dichiaratamente comico. Scrivo queste parole perché ho esperienza di cos'era la Sanità lombarda prima delle riforme di Formigoni: nel maggio 1995 ho trascorso tre settimane nell'Istituto dei Tumori di Milano, da paziente, e posso garantire in prima persona che l'eccellenza lombarda esisteva già da prima che arrivassero i "miglioratori". Luigi Zampa ha buona stampa, ma i suoi film sono spesso superficiali e in questo caso particolare direi che la superficialità danneggia molto il risultato. Le musiche, piuttosto banali, sono di Riz Ortolani. Produttore è Roberto Loyola, pittore e occasionalmente finanziatore di film che finivano subito in terza visione, oggi più che dimenticati.
Questa superficialità di "Bisturi la mafia bianca" dispiace, perché l'argomento era importante e gli attori scritturati sono ottimi; è un film ormai più che dimenticato, anche se all'epoca fece scalpore, e tutto questo dispiace. Insomma, ci sarebbe molto da pensare anche con un film come questo, una volta fatta la tara sulla sceneggiatura e con lo sguardo rivolto a cosa è successo dopo. Le colpe sono anche degli elettori, mai dimenticarselo.


 
(le immagini sono tra le poche che ho trovato in rete;
ringrazio chi le ha rese disponibili)

sabato 14 marzo 2020

Vogliamo i colonnelli


 
Vogliamo i colonnelli (1973) Regia di Mario Monicelli. Scritto da Age, Scarpelli e Monicelli. Fotografia di Alberto Spagnoli. Musiche di Carlo Rustichelli. Interpreti: Ugo Tognazzi (onorevole Tritoni), Carla Tatò (Marcella Bassi-Lega), Pietro Tordi (generale Bassi-Lega), Luigi Lenner (Irnerio Steiner), Giuseppe Maffioli (Barbacane), Antonino Faà di Bruno (Ribaud), Giancarlo Fusco (Col. Gavino Furas), Camillo Milli (Col. Elpidio Aguzzo), Renzo Marignano (comandante Teofilo Branzino), Max Turilli (col.Turzilli), Salvatore Bilardo (col.Andreas Automatikos),Antonio Proietti (Gen.Tallone), Claude Dauphin (Presidente Repubblica), Duilio Del Prete (Monsignor Sartorello), François Périer (on. Di Cori), Lino Puglisi (on. Li Masi), Pino Zac (Armando Caffè), Tino Bianchi (On. Mazzante), Vincenzo Falanga (Ciccio Introna), Barbara Herrera (Contessa Amelia di Amatrice), Alberto Postorino, Gianni Solaro, Bruno Boschetti, Pietro Biondi, Giuseppe Castellano, Luciano Catenacci, Mico Cundari (on.Ferlingeri), Vittorio De Bisogno, Belisario De Matteis (Gen. Pariglia), Nino Formicola (Ulisse, cognato di Ribaud), Mario Frera. Rosanna Gherardi, Enzo Guarini, Enzo La Torre, Vincenzo Maranzino, Vincenzo Mazzucchi, Carla Mancini, Febo Conti, Mariolina Cannuli, Valeria Sabel (moglie Di Cori), e molti altri. Durata: 94 minuti
 
"Vogliamo i colonnelli" esce nel 1973, diretto da Mario Monicelli; è uno dei suoi film meno visti e meno citati, eppure è divertente, picaresco, uno dei suoi migliori e per di più con un Tognazzi in gran forma nel momento della sua maggior fama. Cosa c'è dietro a questa vera e propria censura, che porta anche al mancato ricordo da parte del pubblico, che magari gli preferisce film meno riusciti? Anche se il film si lascia guardare senza porsi troppe domande è utile riordinare un po' le idee, mettere in ordine un po' di date, e ripercorrere la storia recente.
 
Cominciamo dal titolo: nel 1967 in Grecia ci fu un colpo di Stato, il re Costantino fu deposto e il potere fu preso da un gruppo di militari; il regime che si instaurò fu detto "dittatura dei colonnelli" e durò fino al 1974. Formalmente, la monarchia dura ancora e il re viene deposto solo nel 1973, ma era in esilio volontario a Roma (re Costantino è ancora con noi, è nato nel 1940). Si tratta anche della fine della monarchia ellenica, dopo la dittatura dei colonnelli non c'è più stato un re in Grecia. Le cronache di quegli anni portarono alla ribalta nomi rimasti famosi: il musicista Mikis Theodorakis visse in esilio, Alexandros Panagulis testimoniò la Resistenza contro i colonnelli, in Grecia i dissidenti venivano imprigionati e subivano torture. A pochi mesi dall'uscita del film, l'11 settembre 1973, ci fu un analogo colpo di Stato militare in Cile, ancora più terribile per quanto riguarda torture e massacri.
Nel 1964 anche in Italia c'era stato un tentativo di colpo di Stato, che pare facesse capo al generale Giovanni De Lorenzo, non uno qualsiasi: ex capo del SIFAR (servizi segreti militari), ex comandante dei Carabinieri, ex Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Il tentativo di colpo di Stato fu tenuto sotto silenzio, e rivelato solo nel 1968 dal settimanale L'Espresso; il generale De Lorenzo querelò il direttore Eugenio Scalfari e il giornalista Lino Jannuzzi, che aveva condotto l'inchiesta; ci fu un processo che fece scalpore e ancora oggi le circostanze del fallito colpo di Stato non sono state del tutto chiarite, soprattutto per quel che riguarda le responsabilità ai vertici dello Stato. (qui per maggiori dettagli).

 
Sul dvd di "Vogliamo i colonnelli" si trova una bella intervista a Mario Monicelli, che racconta della nascita del film. Monicelli parla apertamente del generale De Lorenzo, di Junio Valerio Borghese e della Decima Mas, e spiega che molti particolari che vediamo nel film, per quanto possano sembrare assurdi, sono veri. Per esempio, è preso dal vero l'arrivo della Forestale in moto (giunsero fino a Roma), i campi di addestramento militare per neofascisti sono veri, la palestra di pugilato è vera, i colonnelli in Grecia c'erano; Monicelli ne parla come di personaggi goffi e ridicoli e in effetti il colpo fallì, ma c'era molto sotto e non era affatto scontato che fallisse. Va ricordato che quel 1964 non è molto lontano dal 1969 della strage di Piazza Fontana, e che gli anni '70 furono funestati da stragi e da bombe di matrice neofascista più che certa, da Piazza della Loggia a Brescia alle bombe sui treni, fino alla strage di Bologna nel 1980. Parlano chiaro anche alcuni nomi di personaggi nel film: Mazzante, Delle Chiaviche, si rifanno a personaggi realmente esistenti. I campi paramilitari si possono vedere, al cinema, anche in "L'udienza" di Marco Ferreri (1971), la loro storia è lunga e prosegue fino ai campi Hobbit degli anni '80 e alle odierne Casa Pound e Forza Nuova, formalmente senza legami con l'eversione (va detto) ma con legami ben visibili a quell'ideologia e a quel modo di porsi. Su wikipedia ci sono tutti i link necessari per chi avesse voglia di fare una ricerca in proposito; aggiungo altri nomi da cercare di quel periodo: Stefano Delle Chiaie, Pino Rauti, Avanguardia Nazionale.

 
"Vogliamo i colonnelli" inizia con un attentato al Duomo che fa cadere la Madonnina, il punto più alto di Milano e simbolo della città; la stampa e la tv incolpano subito le sinistre estreme, e anche questo è un riflesso della verità storica, con l'anarchico Pietro Valpreda indicato per anni come responsabile dell'attentato di Piazza Fontana, e poi rivelatosi del tutto innocente. Siamo a pochissimi anni di distanza da quei fatti, e anche questo non è un particolare inventato, per quanto assurdo possa sembrare. Preso dal vero è anche il programma politico dei colonnelli nella loro riunione segreta, a partire dalla "riapertura dei bordelli" che è ancora oggi un cavallo di battaglia della destra, fino al "proibire le chitarre" inserito da Tritoni-Tognazzi pensando al figlio "degenere e pacifista" (c'è un episodio analogo, preso dal vero, in "Heimat 2" di Edgar Reitz: un ragazzo pestato solo perché aveva la chitarra, essendo studente di Conservatorio). Vero è anche il dettaglio del Presidente della Repubblica colpito da ictus: anche se il contesto è diverso, è inevitabile pensare ad Antonio Segni, nel 1964.

 
Di mio aggiungo il ridicolo di certi personaggi della destra più vicina al fascismo: in quegli anni ero un bambino o poco di più ma ricordo bene i "come parla bene Almirante" che mi spinsero ad ascoltare il segretario del MSI (la "Grande Destra" del film, e l'onorevole Mazzante a lui somigliantissimo) nelle tribune politiche. Almirante veniva da una antica famiglia di attori di teatro, molti suoi parenti recitavano nel cinema (il più famoso è probabilmente Ernesto Almirante, ottimo caratterista nei primi film di Fellini) e quindi conosceva bene l'arte di parlare in pubblico; ma, al di là dell'aspetto formale della comunicazione, era poi uno dei tanti che non rispondevano alle domande e che nascondeva le sue vere intenzioni dietro lunghi giri di parole. Negli anni '80 ho poi avuto l'opportunità di leggere quasi ogni giorno "Il Giornale" fondato e diretto da Indro Montanelli, e credo proprio che Monicelli abbia attinto a piene mani da quelle fonti: non dal "Giornale" che nel 1973 non c'era ancora, ma quasi sicuramente dal "Borghese" e da altri fogli simili, l'ambiente è quello e quello è il modo di pensare e di comportarsi. Sono personaggi grotteschi, ma Monicelli non si è inventato niente.
So che è difficile da credere, ma i personaggi di "Vogliamo i colonnelli" non sono caricature, ma ritratti ben riconoscibili. Come si fa a prenderli sul serio, mi chiedevo; come si fa a votarli e a mandarli al governo? Ebbene, con il Nuovo Millennio è arrivata la generazione che li prende come persone serie, e che decide di affidare la sorte di noi tutti proprio a questi pagliacci. Metto qui un link utile (Elemire Zolla e Federico Fellini) e faccio qualche nome dell'oggi, tanto per non rimanere sul vago: Giorgia Meloni e Matteo Salvini fanno parte di quel mondo, appena un po' dirozzati, e Ignazio La Russa (ex ministro della Difesa) potrebbe benissimo partecipare di persona a un remake di "Vogliamo i colonnelli", senza nemmeno il bisogno di passare dal truccatore; idem per l'ex presidente della regione Lazio, Storace, e per l'altro ex ministro Gasparri.

 
Gli attori: protagonista Ugo Tognazzi, bravissimo come sempre, poi ci sono molti altri poco noti o che non erano attori di professione pur gravitando intorno al mondo del cinema. Tra gli attori professionisti va segnalato Camillo Milli (il colonnello Elpidio Aguzzo), molto presente in teatro e nella tv degli anni '60, e soprattutto Carla Tatò (la figlia del generale Bassi-Lega) che ha un curriculum di tutto rispetto sia come attrice che come regista. Duilio Del Prete (il disinvolto cappellano militare) sarà poi uno dei protagonisti del primo "Amici miei". Il personaggio del fotografo è interpretato da Pino Zac (doppiato da Gigi Reder), autore di fumetti e regista di cartoni animati; Riccardo Cucciolla è la voce fuori campo. Il generale Ribaud è Antonino Faà di Bruno (1910-1981) un autentico generale, un marchese piemontese che discende da una dinastia comprendente santi, ambasciatori, militari e personaggi storici di grande livello. Giancarlo Fusco (1915-1984) è stato scrittore, giornalista, pugile, ne ha fatte di tutti i colori e su di lui si raccontano storie epiche e divertenti; qui interpreta il colonnello Furas. All'inizio di questo post ho voluto riportare l'elenco quasi completo dei personaggi e degli interpreti perché è divertente leggere nomi e corrispondenze, e anche perché sono tutti bravi e meritano di essere ricordati.
Soprattutto, è molto forte l'impressione che tutti si divertano molto, come capita spesso con i film di Monicelli (vedi "L'armata Brancaleone", per fare un solo titolo). Probabilmente, in molte sequenze stavano ridendo anche i tecnici delle luci e gli operatori alla macchina da presa, ma erano professionisti seri e la cosa non si nota.

 
Alla mia prima visione di "Vogliamo i colonnelli", qualche anno fa, ne scrivevo così: "...appare molto diverso da come lo pensavo: è una farsa divertita e divertente con un grande Tognazzi, ma Monicelli avverte: molte delle cose che vediamo nel film sono veramente accadute. Attori eccellenti, quasi tutti non professionisti. C'è una specie di censura su questo film, per vederlo ho dovuto cercare il dvd sulla bancarella degli anarchici, alla Fiera di Sinigaglia a Milano; nei negozi è introvabile e le tv evitano con cura di programmarlo. Ci si può domandare: perché si cita sempre la "supercazzola" di "Amici miei" e non ci si diverte sul generale Bassi-Lega? Perché non si replicano più spesso questo film o magari "La marcia su Roma" di Dino Risi? Le risposte, purtroppo, sono molto chiare.
 
Aggiungo qualche notizia utile presa da wikipedia, riguardo al processo De Lorenzo:
Lino Jannuzzi iniziò la carriera giornalistica scrivendo per L'Espresso. Nel 1967 Jannuzzi, capo dei servizi politici del settimanale, pubblicò insieme a Eugenio Scalfari l'inchiesta sul Servizio Informazioni Forze Armate (i servizi segreti militari dell'epoca) che fece conoscere il progetto di colpo di Stato chiamato piano Solo. Il generale De Lorenzo li querelò e i due giornalisti furono condannati (a Jannuzzi fu irrogata una pena di 13 mesi), malgrado la richiesta di assoluzione fatta dal Pubblico Ministero Vittorio Occorsio, che era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il governo ponesse il segreto di stato. Ambedue i giornalisti evitarono il carcere grazie all'immunità parlamentare loro offerta dal Partito Socialista Italiano: alle elezioni politiche del 1968 Jannuzzi fu eletto senatore. (da www.wikipedia.it )
Non si può tacere sul nome del giudice Occorsio: fu ucciso nel 1976, proprio da neofascisti, autore materiale dell'omicidio Pierluigi Concutelli che lo spiegò (e lo spiega ancora oggi) come conseguenza delle indagini di Occorsio sui legami tra Ordine Nuovo e sui sequestri di persona a scopo di finanziamento, che costellarono gli anni '70 e che sono all'origine dello strapotere odierno della 'ndrangheta.
Comunque sia, buona visione: potete divertirvi con "Vogliamo i colonnelli" come se fosse "L'armata Brancaleone" o "Audace colpo dei soliti ignoti", anche senza porvi troppe domande.
 
 

 


mercoledì 11 marzo 2020

Porte aperte


Porte aperte (1990) Regia di Gianni Amelio. Tratto da un romanzo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura di Gianni Amelio, Vincenzo Cerami, Alessandro Sermoneta. Fotografia di Tonino Nardi. Musica di Franco Piersanti. Interpreti: Gianmaria Volonté, Ennio Fantastichini, Renzo Giovampietro, Renato Carpentieri, Lydia Alfonsi, Paolo Volpicelli, Giacomo Piperno, Tuccio Musumeci, Leopoldo Trieste, Vitalba Andrea, Vittorio Zarfati, Tony Palazzo, Durata 1h48'

Siamo a Palermo nel 1937, e la città viene scossa da un terribile fatto di sangue: un uomo, benestante e apparentemente tranquillo, uccide tre persone; due con una baionetta, la terza (sua moglie) con un colpo di pistola. Lo vediamo all'inizio del film, che inizia proprio con la sequenza di un arrotino che affila la baionetta, con il futuro omicida che lo guarda con calma mentre finisce l'opera. Arrestato e portato a processo, l'assassino non fa proprio niente per provare almeno ad alleggerire la sua situazione; anzi, la peggiora ad ogni momento con dichiarazioni e con atteggiamento strafottente. A questo punto la pena di morte appare inevitabile, il triplice delitto ha avuto una vasta risonanza e tutta l'opinione pubblica vuole che il colpevole, "il mostro di Palermo", sia tolto di mezzo il prima possibile. Ma il giudice a latere, Di Francesco (lo interpreta Gianmaria Volonté) vede qualcosa che non torna, in quella strage, e vuole andare fino in fondo. La vicenda, infatti, non è così chiara come era sembrata all'inizio; e nel corso del film verremo a scoprire tutta la verità.
 


Il film è tratto da un romanzo di Leonardo Sciascia, che (come poi farà Andrea Camilleri) era solito andare a cercare negli archivi, della sua memoria o dei tribunali, fatti ormai dimenticati: si tratta infatti di una storia vera, sono solo stati cambiati i nomi dei protagonisti. L'argomento vero, il centro di interesse della vicenda, è però la pena di morte.
La pena di morte fu abolita nel 1889 in tutta Italia; il fascismo la ripristinò nel 1926 e fu nuovamente abolita nel 1947; rimase però nel codice penale militare, fino al 1994. Al tempo in cui è ambientato "Porte aperte" la pena di morte era ancora una cosa nuova, esisteva da poco più di dieci anni; era stata reintrodotta nell'ambito delle "leggi fascistissime", e se ne lodava la capacità deterrente. Ancora oggi c'è chi ne parla in questo modo, a dispetto anche dell'evidenza e dei dati di fatto; d'istinto, davanti a fatti di sangue anche più gravi di quelli che vediamo nel film, è più che normale desiderare di togliere di torno per sempre chi si è macchiato di questi crimini; ma credere che la pena di morte sia un deterrente è quantomeno ingenuo. Basterà vedere il comportamento dell'imputato in "Porte aperte" per rendersene conto, ben consapevole fin dall'inizio della sorte a cui andava incontro.
Centrale, nella narrazione, è "L'idiota" di Dostoevskij: il capitolo V della prima parte, verso la fine del capitolo, quando il protagonista principe Myskin racconta di aver assistito a un'esecuzione capitale (una decapitazione, a Lione): è questo il libro che viene fatto recapitare al giudice Di Francesco (Volonté) in una delle sequenze più inquietanti del film.



"Porte aperte" è un thriller, e quindi non è giusto raccontare nel dettaglio cosa vi succede; è uno dei migliori nella sua categoria, un "legal thriller" perfetto, paragonabile ad "Anatomia di un omicidio" di Otto Preminger o a "La parola ai giurati" di Sydney Lumet. La sceneggiatura rasenta la perfezione, gli attori sono formidabili, la regia di Gianni Amelio ha finezze riservate ai più grandi. Le interpretazioni di Volonté e di Ennio Fantastichini parlano da sole; quanto ad Amelio basterà guardare la sequenza in cui Volonté porta sua figlia sul lungomare, che termina con una suspence alla Hitchcock quando si sveglia e non trova più la bambina. E' solo un attimo, ma è da grande cinema tutta la sequenza, i ragazzini in mare, la bambina che lo tocca con un dito vicino all'occhio il polpo già morto che le hanno gettato contro, portano in superficie il clima di tensione che è sottotraccia per tutto il film. I due giudici, e alcuni dei giurati, sono infatti antifascisti: antifascisti, ma sottotraccia; un antifascismo rilevabile quasi soltanto dall'estrema riservatezza - che infatti era considerata sospetta da chi voleva un'adesione totale e spontanea alla dittatura.
 

Altri momenti da evidenziare: il bambino, figlio dell'assassino, portato in un posto che si direbbe un manicomio, in mezzo a persone anziane e abbandonato a se stesso; l'incontro al cimitero dei due vedovi, padre e figlio, e la successiva sequenza "della cassata" in casa Di Francesco; la maestra anziana, e la marchesa; e tanto altro ancora, tutto il film è un modello da mostrare alle scuole di regia. Magistrale è anche il modo in cui viene data la notizia della sentenza a Scalia, sottovoce, al di là di un muro.

Gli attori: Gianmaria Volonté è in una delle sue prove più grandi, Renzo Giovampietro è il giudice Sanna, Paolo Volpicelli è il padre di Volonté, Ennio Fantastichini è Scalia (una prova d'attore che fece grande impressione), Renato Carpentieri è l'agricoltore e giurato Consolo, Giacomo Piperno è il Pubblico Ministero, Tony Palazzo è l'autista di Spadafora (fondamentale al processo, come testimone), Tuccio Musumeci è l'avvocato Spadafora, Silverio Blasi è il procuratore, Vittorio Zarfati il cancelliere, Vitalba Andrea la moglie di Scalia, Lydia Alfonsi è la marchesa. Assomiglia molto a Leopoldo Trieste, soprattutto per la voce, Antonio Speciale (seconda vittima di Scalia), ma non ho trovato il nome dell'attore; mancano anche i nomi dei bambini, la figlia di Volonté e il bambino figlio di Scalia, e di questo mi dispiace molto.
 

Alla mia prima visione del film, nel 1992, mi ero segnato questa breve nota:
Un capolavoro, da Sciascia; un film contro la pena di morte che è di grande attualità, oggi che si torna a sentire "ci vuole l'uomo forte". "I cittadini vogliono poter dormire con le porte aperte", dice il gerarca fascista; "Io la mia la tengo sempre chiusa a chiave" risponde il giudice Di Francesco. C'è un ruolo importante per Dostoevskij o meglio per "L'idiota", il discorso sull'esecuzione capitale. Attori di altissimo livello: il solito grande Volonté, poi Fantastichini, Giovampietro, Carpentieri, Lydia Alfonsi. Molto belle le musiche di Franco Piersanti.