mercoledì 26 ottobre 2011

Federico Fellini ( I )

Federico Fellini è un mio contemporaneo: è della generazione di mio padre, nato negli anni ’20. Andavo regolarmente a vedere i suoi film, quando uscivano nei cinema, e di molti ho potuto seguire (attraverso tv e giornali, s’intende) la fase di preparazione e la nascita. Ne consegue che per me Fellini è ancora qui, come Kubrick, come Tarkovskij, come Bergman, come Kurosawa; e non m’importa nulla di quello che dicono le cronache, per me sono ancora qui tutti, e confesso che ogni tanto mi stupisco del fatto che non esca un loro film nuovo.
Ci sono stati e ci sono ancora (per fortuna) molti che parlano di Fellini, molti che scrivono su Fellini; è invece diventato molto difficile vedere i suoi film, soprattutto per le nuove generazioni. C’è in atto una vera e propria rimozione e cancellazione del cinema di Fellini, e viene da chiedersi il perché, dato che si tratta di una delle persone che più hanno dato luce positiva al nostro Paese; ma in questo disgraziato Paese ormai tutto quello che valeva veramente è stato distrutto o messo da parte, si va in giro con le patacche al posto dell’oro e dell’argento, e l’impressione è che il peggio debba ancora venire – e non sto parlando solo di cinema, purtroppo.
Il fatto che ci siano in giro così tante persone che parlano o hanno parlato dei film di Fellini (magari senza vederli o guardandoli distrattamente) mi spinge a chiedermi se non sarebbe meglio mettersi a guardare i suoi film, invece di perdere tempo con pareri personali spesso affrettati e superficiali. Oltretutto, Fellini stesso ha scritto e detto molto in prima persona, è sempre stato disponibilissimo con la stampa e ci sono parecchie ore di interviste da ascoltare (Rai Storia le ha replicate più volte). Insomma (ed è un altro dei motivi per cui questo blog è stato chiuso e riservato a pochi amici: anch’io ho scritto e parlato troppo) a me pare che sarebbe meglio stare zitti ed ascoltare cosa dice lui – che era sempre molto lucido, a volte sornione, sempre educato ma a volte seccato di dover rispondere (come gli accadde con Pippo Baudo, per esempio) a chi gli fa domande banali e ripetitive. Con le interviste di Fellini, che ho in programma di ascoltare e trascrivere con calma più avanti, accade un po’ come con un altro maestro del cinema, Orson Welles: bisogna pesare bene le risposte di Fellini che alle volte scherza, esagera, gioca, prende in giro l’interlocutore o gli dice esattamente quello che vorrebbe sentire, non perché sia la cosa giusta ma per educazione e per gentilezza innata; ma c’è comunque sempre molta sincerità in Fellini, e molta profondità.
Qui di sotto metto in ordine quel che resta dei miei trentennali appunti su Fellini, ma prima trascrivo meglio che posso l’elenco completo dei suoi film come regista:
Luci del varietà (1950, girato insieme ad Alberto Lattuada) (P.De Filippo, C.Del Poggio, G.Masina)
Lo sceicco bianco (1952, con B.Bovo, L.Trieste, A.Sordi. E.Almirante)
I vitelloni (1953 con F.Interlenghi, F.Fabrizi, L.Trieste, A.Sordi, R.Fellini)
Agenzia matrimoniale, episodio da “L'amore in città” (1953, con A.Cifariello )
La strada (1954, con A.Quinn, R.Basehart, G.Masina)
Il bidone (1955, con B.Crawford, R.Basehart, F.Fabrizi, G.Masina)
Le notti di Cabiria (1957 con G.Masina, A.Nazzari, F.Marzi, D.Gray)
La dolce vita (1960, con M.Mastroianni, Y.Fourneaux, A.Aimée, A.Cuny, A.Ekberg)
Le tentazioni del dottor Antonio, episodio da “Boccaccio 70” (1962, P.De Filippo, A.Ekberg )
Otto e mezzo (1963, com M.Mastroianni, A.Aimée, R.Falk, S.Milo, C.Cardinale)
Giulietta degli spiriti (1965, con G.Masina, M.Pisu, S.Milo, V.Cortese, S.Koscina)
Toby Dammit, episodio da “Tre passi nel delirio” (1968, con T.Stamp, S.Randone, M.Yaru)
Block-notes di un regista (1969, con M.Mastroianni)
Fellini-Satyricon (1969, con M.Potter, H.Keller, S.Randone, M.Noel, A.Cuny)
I clowns (1970 con F.Fellini, M.Morin, A.Vitali, A.Ekberg, T.Scotti)
Roma (1972, con P.Gonzales, B.Barnes, P.DeSoses, e molti altri)
Amarcord (1973, con B.Zanin, M.Noel, C.Ingrassia, P.Maggio, A.Brancia)
Il Casanova di Federico Fellini (1976 con D.Sutherland, T.Aumont, C.Scarpitta, D.Kourys)
Prova d'orchestra (1979, con B.Baas, C.Colosimo, G.Javaroni)
La città delle donne (1980, con M.Mastroianni, E. Manni)
E la nave va (1983, con F.Jones, P.Bausch, V.Poletti, B.Jefford, F.Serra)
Ginger e Fred (1985, con M.Mastroianni, G.Masina, F.Fabrizi)
L'intervista (1987, con F.Fellini, A.Ekberg, M.Mastroianni, S.Rubini, A.Ponziani)
La voce della luna (1989, con R.Benigni, P.Villaggio)
A questi film andrebbe aggiunto “I cavalieri del deserto”, tratto da un romanzo di Salgari. Fellini a 22 anni ne curò la sceneggiatura: pare che sia il suo debutto dietro alla cinepresa (anno 1942) perché il regista Gino Talamo rimase ferito, a Tripoli, in un incidente stradale. Il film non fu mai finito, Fellini ne trasse alcuni disegnini umoristici. Da internet, copio un breve servizio della rivista “Max”:
Il Fellini del Deserto
Quindici disegni del regista esposti per la prima volta alla Ventesima Mostra del Libro Antico:
quindici tavole un po' ingiallite, con alcuni schizzi a matita, rimaste per oltre sessant'anni chiuse in un cassetto. Raccontano la vita del set di un film mai portato a termine, e di cui restano l'unica testimonianza. Un film che segnava l'esordio cinematografico del loro autore, uno dei più grandi registi del Novecento: Federico Fellini. È il 1942. Fellini ha appena 22 anni, ed è tra gli sceneggiatori de “I Cavalieri del Deserto”, tratto dal romanzo di Emilio Salgari e prodotto dall'Alleanza cinematografica Italiana. Alcune scene sono ambientate nel deserto e per realizzarle il set si trasferisce in Libia, a Tripoli. Ma Gino Talamo, il regista, resta ferito in un incidente stradale. Spinto dagli amici Guido Celano e Osvaldo Valenti, anch'essi nella troupe, Fellini assume la direzione delle scene. È il suo esordio dietro la macchina da presa. “Facemmo alcune scene nel deserto, molto di fantasia, con i cavalli e i cammelli” ricorda Celano. Fellini non si accontentò di girare su pellicola ma volle fermare su carta, con quello stile caricaturale che poi diventerà celebre, alcuni attimi della vita sul set. I Cavalieri del Deserto non verrà mai portato a termine. Le operazioni belliche sul fronte africano della Seconda Guerra Mondiale costringeranno la troupe ad un precipitoso e rocambolesco ritorno in Italia, durante il quale il girato andrà perduto. Di quell'esperienza restano solo questi quindici disegni, regalati da Fellini ad un membro della produzione ed esposte per la prima volta al pubblico a Milano durante la Ventesima Mostra del Libro Antico. L'unica testimonianza della prima volta del Maestro del cinema italiano.
A cura di Elvira Pollina (rivista Max, on line, anno 2011)
(continua)

Federico Fellini ( II )

Fellini ha iniziato nel cinema come scrittore: probabilmente il film più conosciuto dei suoi è “Fortunella” del 1958, regia di Eduardo De Filippo, con Giulietta Masina, Alberto Sordi, Paul Douglas e lo stesso Eduardo De Filippo, scritto da Fellini insieme a Eduardo, Flaiano e Pinelli. Sorvolerei su “Sweet Charity”, musical tratto da “Le notti di Cabiria”, con Shirley Mac Laine al posto di Giulietta Masina, e anche su “Nine”, presunto remake di Otto e mezzo (ma è possibile rifare Otto e mezzo? direi proprio di no) prima come musical in teatro e poi anche in film. Non sono film da buttare via, anzi: ma con Fellini hanno davvero poco a che vedere.
I principali film di Fellini come sceneggiatore lo vedono lavorare, negli anni ’40, con Pietro Germi e Alberto Lattuada, ma anche con Rossellini, in film che sono tra le pietre miliari del cinema di tutto il mondo. Nel dettaglio, il ventenne Fellini scrive per Germi “Il brigante di tacca del lupo (1947, da un romanzo di Riccardo Bacchelli). “La città si difende”, “Il cammino della speranza”, “In nome della legge” Per Alberto Lattuada, prima di “Luci del varietà”, scrive “Il mulino del Po” (ancora da Bacchelli) , “Senza pietà”, “Il delitto di Giovanni Episcopo”. Per Roberto Rossellini (insieme a molti altri scrittori): “Roma città aperta”, “Paisà”, e il “San Francesco” del 1950, oltre a “Il miracolo” parte di un film a episodi del 1948 dove recita anche come attore al fianco di Anna Magnani, e dove Fellini interpreta un vagabondo che viene scambiato da una donna per un santo eremita, ne approfitta, e poi sparisce. La parte non richiede particolare recitazione, ma solo una buona presenza fisica: che c’è, il giovane Fellini coi capelli biondi e la barba è un santo davvero credibile.
Altre collaborazioni sono per i film di Aldo Fabrizi e di altri comici degli anni ’40 : “Avanti c’è posto” di Mario Bonnard (1942), “Campo de’ fiori” (1943) sempre di Bonnard, “L’ultima carrozzella” di Mario Mattoli, e poi ancora “Città dolente”, ancora con Bonnard; “Il passatore” di Duilio Coletti (1947: primo film con Tullio Pinelli); “Quarta pagina” di Nicola Manzari, “Tutta la città canta” di Riccardo Freda (1945), “Chi l’ha visto” (1945) di Goffredo Alessandrini, e altri ancora. Il ventenne Fellini è dunque uno scrittore molto bravo e molto richiesto.
Il principale collaboratore di Fellini, nel corso degli anni, è stato Tullio Pinelli. Di Tullio Pinelli si è sempre parlato poco, quasi sempre parlando di Fellini salta fuori il nome di Ennio Flaiano, o magari quello di Tonino Guerra, ma è Pinelli lo scrittore che più di tutti ha lavorato con Fellini. Anche la voce di wikipedia su Pinelli è piuttosto sbrigativa, e direi che è un peccato:
Tullio Pinelli (Torino, 24 giugno 1908 – Roma, 7 marzo 2009) è stato uno sceneggiatore italiano.
Laureatosi in legge, esordì in teatro nel 1935 con l'elegante e ironica La pulce d'oro cui fece seguire, sullo stesso registro, l'atto unico Lo stilita (1937). Ma le sue opere più rappresentative – I padri etruschi (1941), Lotta con l'angelo (1942) e Gorgonio ovvero il Tirso (1952) – sono caratterizzate da toni intensamente drammatici e da una tematica di carattere spiritualistico. Scrisse anche libretti d'opera, soprattutto per Ghedini (Re Hassan, 1939; Le baccanti, 1948). Dopo aver collaborato con Mario Soldati alla trascrizione cinematografica di Le miserie del signor Travet (1946), lavorò infatti in coppia con Federico Fellini a testi per Lattuada, Rossellini e Germi. La collaborazione continuò quando Fellini passò alla regia (con l'apporto anche di Ennio Flaiano) per tutti i suoi film da Luci del varietà (1951) a 8½ (1963). Negli anni settanta ha fornito sceneggiati alla televisione e ha inoltre collaborato alla trilogia di Amici miei, (1975, 1982, 1985). Nel 1998 ha esordito come narratore pubblicando La casa di Robespierre e ha ricevuto il David di Donatello alla carriera. Nel 2008 in occasione del centesimo compleanno è stato pubblicato L'uomo a cavallo, soggetto cinematografico realista-poetico.
Esiste comunque in proposito un libro pubblicato di recente, «“Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico” - Lettere di Federico Fellini a Tullio Pinelli», editore Marsilio, 96 pagine 9 euro, a cura di Augusto Sainati.
Pinelli, che è più vecchio di Fellini e gli sopravviverà molto a lungo (è morto due anni fa, a quasi centouno anni) comincia a lavorare con Fellini nel 1947 e continua fino al 1965 di “Giulietta degli spiriti”; poi la collaborazione si interrompe e riprende solo nel 1983. Tullio Pinelli firma con Fellini due dei suoi ultimi tre film, “Ginger e Fred” e “La voce della luna”.
Altri due collaboratori importanti per Fellini sono stati Brunello Rondi e Bernardino Zapponi: anche su questi due scrittori la bibliografia è molto scarsa, o difficile da trovare; per chi fosse interessato, usando un motore di ricerca on line si trovano comunque molte informazioni (in questo post mi limito a fare dei cenni sui collaboratori di Fellini).
da wikipedia:
Bernardino Zapponi (Roma, 4 settembre 1927 – Roma, 11 febbraio 2000) è stato uno sceneggiatore italiano. Autore e sceneggiatore di testi per il teatro, la radio e il cinema, dagli anni 50, inizia la sua attività nella redazione del settimanale umoristico Marc'Aurelio, accanto ad Ettore Scola, Steno, Ruggero Maccari ed altri. Dall'inizio degli anni 50 scrive numerosi testi per trasmissioni radiofoniche della RAI, soprattutto per i programmi di varietà, presso la sede di Roma a Via Asiago. Per la televisione collaborò nel 1960 e nel 1961a scrivere con Guglielmo Zucconi e Italo Terzoli il programma Controcanale condotto da Corrado con Abbe Lane e Xavier Cugat. Collabora anche con Federico Fellini alla sceneggiatura di sette film, dall'episodio "Toby Dammit" in Tre passi nel delirio alla Città delle donne. È autore del libro Il mio Fellini in cui racconta anni di lavoro e di amicizia con il regista. Ha scritto anche una dozzina di titoli per Dino Risi, dalla Moglie del prete a Giovani e belli, Profondo rosso per Dario Argento e adattato per il grande schermo la commedia teatrale di William Douglas-Home e Marc-Gilbert Sauvajon L'anatra all'arancia, con la regia di Luciano Salce. Suo è il soggetto del Marchese del Grillo di Mario Monicelli. Ha inoltre sceneggiato Paprika e Così fan tutte di Tinto Brass.
Brunello Rondi (Tirano, 26 novembre 1924 – Roma, 7 novembre 1989) è stato uno sceneggiatore e regista italiano. In una carriera ultratrentennale lavora alla stesura di quasi 30 sceneggiature ed alla direzione di oltre 10 film. Suo fratello, Gian Luigi Rondi, è un noto critico cinematografico.
Brunello Rondi, secondo www.imdb.com ha firmato anche tredici film come regista, ed è stato collaboratore anche di Roberto Rossellini e di Pierpaolo Pasolini. Tra i collaboratori di Fellini, sorvolo su Ennio Flaiano e Tonino Guerra: due nomi molto ben conosciuti. Meritano invece una citazione le collaborazioni con Pasolini per “Le notti di Cabiria”, con Ermanno Cavazzoni per “La voce della luna”, e con Goffredo Parise per “Le tentazioni del dottor Antonio”.
L’elenco degli scrittori che hanno collaborato con Fellini:
Luci del varietà (1950, Fellini Lattuada Pinelli Flaiano)
Lo sceicco bianco (1952, Fellini Pinelli e Flaiano, idea originale di Antonioni)
I vitelloni (1953 Fellini Pinelli e Flaiano)
Agenzia matrimoniale, episodio da “L'amore in città” (1953, Pinelli e Fellini )
La strada (1954, Fellini Pinelli Flaiano)
Il bidone (1955, Fellini Pinelli Flaiano)
Le notti di Cabiria (1957 Fellini Pinelli Flaiano Pasolini)
La dolce vita (1960, con Fellini Pinelli Flaiano Brunello Rondi)
Le tentazioni del dottor Antonio (1962, Fellini Pinelli Flaiano Brunello Rondi Goffredo Parise)
Otto e mezzo (1963, Fellini Pinelli Flaiano Brunello Rondi)
Giulietta degli spiriti (1965, Fellini Pinelli Flaiano Brunello Rondi)
Toby Dammit (1968, da Poe, Fellini Bernardino Zapponi)
Block-notes di un regista (1969, Fellini Bernardino Zapponi)
Fellini-Satyricon (1969, da Petronio, Fellini Bernardino Zapponi)
I clowns (1970 Fellini Bernardino Zapponi)
Roma (1972, con Fellini Bernardino Zapponi)
Amarcord (1973, con Fellini e Tonino Guerra)
Il Casanova di Federico Fellini (1976 dalle memorie di Casanova, Fellini Bernardino Zapponi)
Prova d'orchestra (1979, con Fellini e Brunello Rondi)
La città delle donne (1980, Fellini Bernardino Zapponi Brunello Rondi)
E la nave va (1983, Fellini Guerra Zanzotto)
Ginger e Fred (1985, Fellini Guerra Pinelli)
L'intervista (1987, Fellini con Gianfranco Angelucci)
La voce della luna (1989, Fellini Cavazzoni Pinelli)
(l'immagine di Fellini con Pinelli viene dal quotidiano "La Repubblica", le altre immagini hanno varie origini, da giornali, libri, internet, origine che oggi mi è difficile ricostruire)
(continua)

Federico Fellini ( III )

Riguardo ai suoi collaboratori, e in particolare a Nino Rota, abbiamo la testimonianza diretta di Fellini:
Federico Fellini, da “Intervista sul cinema” a cura di Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983
- Hai sempre avuto intorno molti collaboratori, spesso importanti, celebri. Ma ce n'è uno più prezioso, più speciale degli altri?
Fellini: È vero, ho avuto collaboratori preziosi, non solo per il talento, la fantasia, l'intelligenza, ma per il festoso sentimento di amicizia per cui si lavorava insieme con la gioia e l'eccitazione di una scampagnata, un viaggio, una gita. Voglio ricordarne qualcuno: Piero Gherardi, lo scenografo della Dolce Vita, di Giulietta degli Spiriti, aristocratico e clochard, un ospite intellettuale in casa Trimalcione, saggio e indifferente come un bonzo, e avido, goloso, immaturo come un neonato. Mi ricordo certe notti passate a dormire insieme dentro l'automobile sperduta nel fondo di un vallone di briganti; cercavamo una radura per il Paese dei Balocchi. Non l'ho mai detto, ma fra i progetti mai realizzati c'è stato anche Pinocchio. Un altro collaboratore molto intonato e congeniale è Danilo Donati, fantasioso, ricchissimo inventore di costumi e oggetti di scena. Dal punto di vista figurativo, considero Satyricon e Casanova tra i miei film più affascinanti. Per un autore di cinema, i collaboratori più importanti, non sono soltanto gli scenografi, gli operatori, gli sceneggiatori, ma anche uno svelto, furbo, tempestivo, piratesco direttore di produzione può diventare una molla fondamentale del film. Considero Tullio Pinelli, con il quale ho scritto tante sceneggiature, un inventore di storie, un costruttore di trame, di situazioni e di personaggi, che ha la vocazione e il temperamento di un autentico romanziere. Con Flaiano, l'equilibrio fra noi tre mi sembrava perfetto. Pinelli si preoccupava della struttura narrativa, era quello il suo chiodo fisso, e Flaiano faceva di tutto per farla crollare, mandarla in frantumi: a volte era più disastroso di un cinghiale in un campo di fave. Eppure, proprio per queste tendenze così opposte, quelle parti di mura che restavano in piedi tra le macerie, potevano considerarsi le strutture portanti del racconto. Mi univa a Flaiano lo stesso senso umoristico delle cose, la tendenza a sdrammatizzare, lo scherzo, la buffoneria, e una nota di nevrotica malinconia che me lo faceva sentire molto amico.
Anche l'incontro con Bernardino Zapponi è stato stimolante. Abbiamo lavorato bene insieme. Le stesse esperienze, le stesse avventure, il « Marc'Aurelio », l'avanspettacolo, gli stessi entusiasmi e amori, Poe, Dickens, Lovecraft, l'occulto, lo spettrale, l'avventura mitologica, la fantascienza, i siparietti, e un senso impiegatizio del lavoro tra ribalderia e timore di licenziamento. Con Tonino Guerra ho scritto Amarcord e E la nave va. Ci lega lo stesso dialetto, un'infanzia passata tra quelle stesse colline, la neve, il mare, la montagna di San Marino. I due paesi dove siamo nati distano l'uno dall'altro nove chilometri; da ragazzino andavo in bicicletta con altri amici fino a Sant'Arcangelo, e ci sembrava che parlassero un'altra lingua. Noi di Rimini consideravamo Sant'Arcangelo un paese da colonizzare, neanche i missionari vi erano ancora arrivati: «Capo, i portatori vogliono tornare indietro!», diceva Titta, alludendo allo stato selvaggio e inospitale di Sant'Arcangelo.
Ma il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota. Tra noi c'è stata subito un'intesa piena, totale, fin dallo Sceicco bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo era un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso. Viveva la musica con la libertà e la facilità , di una creatura che viva in una dimensione che le è spontaneamente congeniale. Era una creatura che portava con sé una qualità rara, quella qualità preziosa che appartiene alla sfera dell'intuizione. Era questo il dono che lo manteneva così innocente, aggraziato, lieto. Ma non vorrei essere frainteso. Quando si presentava l'occasione, o anche quando l'occasione non si presentava, diceva delle cose acutissime, profonde, dava giudizi di impressionante esattezza su uomini e cose. Come i bambini, come gli uomini semplici, come certi sensitivi, come certa gente innocente e candida, diceva improvvisamente delle cose abbaglianti...
Durante la lavorazione dei miei film ho l'abitudine di usare certi dischi in sottofondo; la musica può condizionare una scena, darle un ritmo, suggerire una soluzione, un atteggiamento del personaggio. Ci sono dei motivi che mi porto dietro da anni, vergognosamente, La Titina, la Marcia dei Gladiatori, che sono legati a precise emozioni, a temi viscerali. Poi ovviamente capita che quando ho finito di girare il film mi affeziono a quella colonna sonora improvvisata e non vorrei più cambiarla. Nino mi dava subito ragione, diceva che i motivi con i quali avevo girato erano bellissimi (anche se si trattava della più zuccherosa e sgangherata canzonetta), che erano proprio quelli giusti e che lui non avrebbe saputo fare di meglio. E mentre diceva così giocherellava con le dita sul pianoforte. «Che cos'era questo?», domandavo io dopo un po'; «Cosa suonavi?» «Quando?» chiedeva Nino con aria distratta. «Adesso - insistevo - mentre parlavi hai suonato qualcosa». «Ah, sì? - diceva Nino - Non so, non mi ricordo più». E mi sorrideva con l'aria di volermi tranquillizzare: non dovevo aver rimorsi o scrupoli, i dischi che avevo usati erano bellissimi. E intanto continuava ad accarezzare la tastiera del pianoforte come per caso qua e là.
Nascevano così i nuovi motivi del film che mi conquistavano subito, e mi facevano dimenticare le suggestioni delle vecchie canzonette usate durante le riprese. Io mi mettevo lì, presso il piano, a raccontargli il film, a spiegargli cosa avevo voluto suggerire con questa o quella immagine, con questa o quella sequenza; ma lui non mi seguiva, si distraeva, pur se annuiva, pur se diceva di sì con grandi gesti di assenso. In realtà stava stabilendo il contatto con se stesso, con i motivi musicali che già aveva dentro di sé. E quando quel contatto veniva stabilito, non ti seguiva più, non ti ascoltava più, metteva le mani sul pianoforte e partiva come un medium, come un vero artista. Alla fine gli dicevo: «È bellissimo!». Ma lui mi rispondeva: «Non me lo ricordo già più». Erano delle catastrofi alle quali in seguito facemmo fronte con i magnetofoni, i registratori. Ma bisognava metterli in funzione senza che se ne accorgesse, altrimenti il contatto con la sfera celeste si interrompeva...
Era una vera gioia lavorare con lui. La sua creatività te la sentivi così vicina che ti comunicava una
sorta di ebbrezza fino a darti la sensazione che la musica la stessi facendo tu. Nino arrivava alla fine, quando lo stress per le riprese, il montaggio, il doppiaggio era al massimo, ma come arrivava lo stress spariva e tutto si trasformava in una festa, il film entrava in una zona lieta, serena, fantastica, in un'atmosfera dalla quale riceveva come nuova vita. Ed era sempre una sorpresa che dopo aver messo nel film tanto sentimento, tanta emozione, tanta luce, si girasse verso di me per chiedermi, alludendo al protagonista: «Ma quello chi è?». «È il protagonista», gli rispondevo. «E che fa? - aggiungeva con tono di rimprovero - Tu non mi dici mai niente!». La nostra era un'amicizia vissuta sui suoni.
Al di fuori del mio lavoro la musica preferisco invece non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto. Mi difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Forse sarà ancora un condizionamento cattolico. Il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi, è come una voce ammonitrice che ti strugge perché ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza, dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele. Ti gonfia di nostalgia e di rimpianto, e quando finisce non sai dove va. Sai solo che è irraggiungibile e questo ti rende triste. Io non posso sentire uno che picchietti con le dita sul tavolo che subito sono disturbato e succhiato in quella specie di respiro diverso che quel ritmo propone. Invece Nino, nel bel mezzo di una banda che suonava fragorosamente un suo motivo, riusciva a scrivere le note di un altro motivo che stava sentendo
(Federico Fellini, da “Intervista sul cinema” a cura di Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983)
(continua)

Federico Fellini ( IV )

Notizie biografiche, prese da “I film di Federico Fellini” di C.G. Fava e A.Viganò, ed. Gremese (volume dal quale ho preso anche molte immagini per questi post):
Fellini nasce nel 1920 a Rimini, da una famiglia di agiati commercianti; la mamma è romana. Studia fino alla maturità classica, poi (a diciassette anni, nel 1937) va a Firenze dove si ferma sei mesi collaborando al settimanale politico-satirico “420” e con l’editore Nerbini, che pubblicava “L’avventuroso”, settimanale per ragazzi molto diffuso, e che fu tra le altre cose il primo editore italiano di “Topolino”. Si tratta però di poche cose, qualche disegno e qualche racconto breve.  Nel gennaio 1938, a diciott’anni, Fellini è a Roma: in teoria dovrebbe iniziare gli studi di giurisprudenza, in pratica fa il giro di tutti i principali settimanali e mensili offrendosi come collaboratore. In breve tempo pubblica su “Cine illustrato”, “Rugantino”, “La signorina Grandi Firme” (giornale molto famoso ancora oggi, soprattutto per le copertine di maestri del disegno come Boccasile), “Il balilla”, “Cinemagazzino”, “Settebello”, “Il travaso”, “Il piccolo”, fino ad arrivare al “Marc’Aurelio”. Sono collaborazioni sporadiche, improvvisate, che comunque porteranno Fellini a farsi conoscere e a scrivere anche per la radio, monologhi e piccoli sketch per comici più o meno affermati.
Fellini in questo periodo ha pochi soldi e deve un po’ arrangiarsi con lavori saltuari; però fa molte conoscenze, e molte amicizie. Molto importante l’amicizia con il pittore Rinaldo Geleng, che poi collaborerà con lui per molti anni (in “Roma” e nel “Casanova”, per esempio); molto importante anche l’amicizia con Aldo Fabrizi, grande attore di varietà e di cinema, che prenderà in simpatia il giovane Fellini e gli farà conoscere molte persone importanti. La svolta avviene quando Fellini conosce Piero Tellini, sceneggiatore già affermato, che lo introduce nel mondo del cinema. Nel frattempo siamo arrivati al 1942, nel pieno della guerra, con i bombardamenti e poi con l’arrivo delle truppe americane a Roma.
Nel 1943 Fellini si sposa con Giulietta Masina, una giovane attrice che aveva conosciuto grazie alle vignette di due suoi personaggi pubblicati sul “Marc’Aurelio” (Cico e Pallina): una ditta di profumi li aveva scelti per uno sketch radiofonico, serviva un’attrice e fu scelta la Masina, che così conobbe Federico. Un matrimonio destinato a durare cinquant’anni, fino alla morte di Fellini nel 1993.
Il resto della carriera di Fellini è abbastanza noto e potrebbero bastare i titoli dei suoi film; si può aggiungere che è del 1946 l’incontro con Tullio Pinelli, uno sceneggiatore con cui farà coppia fissa per decenni. Nel 1946 Fellini incontra anche con Roberto Rossellini, Alberto Lattuada, Pietro Germi: l’inizio del percorso che lo avrebbe portato al suo primo film da regista.
C’è nel film una scena, in cui una donna carnosa, enorme, nuda in un bagno pubblico, mostra il suo strabocchevole corpo, mentre il protagonista è immerso nei suoi vaneggiamenti. Non teme di essere accusato di una sorta di reminiscenza o imitazione di Fellini? «Si parla delle donne di Fellini e si pensa subito alla Saraghina che, immensa, balla sulla spiaggia. Per me, la donna di Fellini è piuttosto Giulietta Masina, il personaggio femminile che più s'impone nel suo mondo poetico. Se ci limitiamo a considerare poi le dimensioni rubensiane del corpo della donna nella scena in questione, direi che solo ad un osservatore superficiale può sembrare che qui io abbia imitato un certo Fellini. Una pienezza e abbondanza corporea è propria delle donne russe, come si può vedere, ad esempio, nei quadri di Kustodiev. La donna della mia scena si comporta in un modo profondamente russo, come solo russo può essere l'ambiente (il bagno pubblico) in cui si trova, tra quei balordi che lavano cani che poi restituiranno, a pagamento, ai padroni che li hanno perduti. Quanto a Fellini, lo considero una delle figure più grandi di tutta la cultura e l'arte del nostro secolo.»
(Corriere della sera 20.07.1995, il regista russo Vladimir Naumov su Fellini, a partire dal film “Festa bianca” scritto con Tonino Guerra.)
...Fellini coltivò il complesso dell’assassino, non lasciava prove: stracciava metodicamente tutto quello che riguardava il suo lavoro, sbagliò anche il calcolo dei suoi film quando diede il titolo a “Otto e mezzo”, era convinto che fossero i film a parlare a suo nome. (...) è noto che l’unico patrimonio inedito del regista è quel Libro dei Sogni, custodito in una cassetta di sicurezza, che solo l’amato Jung potrebbe aprire e capire. «La grande qualità di Fellini, - scrive Kezich – era la capacità di trovare sempre il tono giusto per rivolgersi a chiunque in modo non generico, toccando a sorpresa una corda profonda. E di rimando in rimando arrivava al panorama misterioso degli archetipi, dove si disegnano le care ombre, la Madre e il Padre, il Sole e la Luna che ci illuminano nel viaggio.» Quanto alla storia del suo matrimonio, dice Kezich, non ha senso se paragonata a quella di Romeo e Giulietta, ma caso mai ricorda il rapporto fra Prospero e Ariel, tra il mago e lo spirito dell’aria...
(Corriere della sera 31 ottobre 1996, Maurizio Porro per l’uscita di un libro di Tullio Kezich su Fellini (“La dolce vita” fu salvati dai gesuiti di padre Arpa; “Cabiria” commosse il cardinal Siri, che lo salvò in anticipo dalla censura)
«Un film è come una malattia che viene espulsa dal corpo. Sono escrescenze, bubboni, rami malati.» e inizio sceneggiatura La strada, dal cds7 maggio1997

FELLINI E LA FANTASIA
di Enzo Biagi, corriere della sera-7, febbraio 1998
...Federico Fellini diceva: «Quante volte ho sentito definire i miei film “fantastici". Debbo quindi considerarmi un uomo che vive, che commercia con la fantasia. Ma non mi sono mai chiesto che cos'è. Provo l'imbarazzo, diciamo: la vergogna, di un palombaro al quale chiedessero che cos'è il fondo del mare e non sapesse che cosa dire. Già: ma forse io sono un palombaro che sa dire com'è. Per un momento avrei la tentazione di cavarmela così: “La fantasia è un ghiribizzo"». Poi ci ripensava e si lasciava andare. «Voglio spudoratamente raccontare che cosa mi succedeva quando avevo sette od otto anni. Avevo battezzato i quattro angoli dei mio letto con i nomi dei quattro cinematografi di Rimini (...) andare a letto era per me una festa, allora». (...) «Non ho mai fatto capricci per restare alzato la sera: tutto quello che dicevano i grandi attorno alla tavola esauriva presto ogni interesse per me, sicché, appena potevo, correvo nella mia camera e mi infilavo sotto le lenzuola, spesso, anzi, con la testa sotto il cuscino. Chiudevo gli occhi, aspettavo buono buono col fiato trattenuto e un po' di batticuore, fino a quando, di colpo, silenziosissimo, cominciava lo spettacolo. Uno spettacolo tra i più straordinari. Che cos'era? Difficile raccontarlo, descriverlo: era un mondo, una fantasmagoria rutilante, una galassia di punti luminosi, sfere, cerchi lucentissimi, stelle, fiamme, vetri colorati, un cosmo notturno e scintillante che si proponeva, prima immobile, poi in un movimento sempre più vasto e avvolgente, come un immenso gorgo, un'abbagliante spirale. Ero succhiato e stordito in mezzo a questa esplosione, in una specie di vertigine che non mi dava nausea. Durava un tempo che non saprei stabilire, non troppo a lungo in ogni caso; infine si esauriva silenziosamente com'era venuto, perdendo forza come gli ultimi bagliori del fuoco che si spegne. Aspettavo qualche minuto, poi andavo a mettere la testa in un altro angolo, e le immagini riprendevano. La terza volta erano più sbiadite, avevano smalti meno lucidi. Raramente lo spettacolo notturno si ripeteva quattro volte. Alla fine, un po' stanco, ma soddisfatto e ancora riverberato da tutto quel bombardamento di stelle e di scintille solari, sprofondavo nel sonno».
(ricordo di Enzo Biagi , da "Sette- Corriere della Sera, febbraio 1998)
(continua)

Federico Fellini ( V )

Negli anni ’80 arrivano anche in Italia le tv commerciali, che fanno una cosa mai vista prima qui da noi: spezzettano i film ogni dieci-quindici minuti per mandare in onda la pubblicità. Oggi si è persa la memoria di come andavano veramente le cose, ma funzionava così: il film veniva interrotto a intervalli di dieci-quindici minuti, e non importa cosa stava succedendo in quel momento dentro il film. Se c’era un dialogo, si spezzava una parola a metà, il dialogo rimaneva sospeso; se c’era una scena d’azione o d’amore si spezzava anche quella. In mezzo, a metà fra un bacio e una dichiarazione d’amore, o fra una sparo e uno che cade colpito, cinque minuti di pubblicità sparata a tutto volume. Per chi non ci crede, ho ancora delle videocassette registrate e conservate: fu necessaria una legge del Parlamento per far smettere questo scempio, e moderare le interruzioni pubblicitarie in maniera un po’ più intelligente.
La cosa toccò anche Fellini, così come molti altri registi importanti: ricordo Ettore Scola, Francesco Rosi, e molti altri. Non si poteva fare niente, perché i diritti d’autore appartenevano alle case di produzione, che spesso non c’erano nemmeno più o avevano ceduto il loro catalogo intero a terzi. Fellini era disperato, non si capacitava di questo spezzettamento dei suoi film e lo disse in più di un’occasione. Non so se questi suoi interventi siano stati raccolti in qualche volume, mi ricordo però una sua frase che diceva così: “Ci ho messo dei mesi, per girare questa scena in questo modo, con questi tempi e con questa lunghezza, e adesso mi tocca di vederla ridotta in pezzettini e e inframmezzata da pomodori e pannolini...”
Giulio Andreotti su L’Europeo 11.8.1990, dalla pagina di commenti che teneva ogni settimana su quel giornale, spiegò a Fellini che non doveva lamentarsi: il titolo è «Caro Fellini, lo spot è tuo alleato» e Andreotti scrive queste frasi: “...ad assicurare sulla carta il pluralismo non si fatica, ma ad attuarlo non bastano le cornici giuridiche e le enunciazioni di principio, tanto è vero che mentre la Fininvest di Berlusconi ha progressivamente espanso i suoi circuiti, altri, dopo inutili sforzi, hanno fallito.”  Il che non è del tutto vero, ma è anzi una favola che circola da tempo: la Finivest vinse la sua battaglia sulla concorrenza letteralmente regalando gli spazi pubblicitari, per anni. Così facendo mise in serie difficoltà la Mondadori (cioè Rete4) e la Rusconi (Italia1), nonché tutte le altre tv che avevano qualche ambizione. Per regalare gli spazi pubblicitari e intanto continuare l’attività servono molti soldi, moltissimi: e qui sta il cuore del problema, ma io mi fermo qui perché andrei fuori tema, e rimando chi fosse interessato all’argomento alle numerosissime inchieste, giudiziarie e giornalistiche, che hanno trattato l’argomento. (Nel frattempo, se non sbaglio, è anche arrivata qualche sentenza giudiziaria in proposito).
Nel 1990 fu varata dal Parlamento la legge Mammì, che regolamentava le tv commerciali dopo dieci anni di libertà totale anche per Publitalia; ma la legge Mammì non fece che fotografare l’esistente, Fininvest e Publitalia avevano fatto il vuoto approfittando dell’assenza di regole, e non restava che prenderne atto. Non contenti, i vincitori rimproverarono a Fellini gli spot che aveva girato (per Barilla, Banco di Roma, e qualcosa d’altro), ma chi li ha visti sa che sono piccoli film, esercizi di stile che durano pochi minuti. E, inoltre, Fellini era stato ben pagato e così poteva finanziare i suoi progetti futuri. Fellini non contestava il diritto di fare pubblicità, ma chiedeva soltanto delle regole e – soprattutto - il rispetto per il suo lavoro.
«Secondo alcuni colleghi, colpendo la tv commerciale si uccide il cinema italiano. Ma che diritto ha di esistere un cinema che per vivere invoca la protezione di chi lo massacra? E’ un ricatto, anzi un reato bell’e buono: e chi vi soggiace cambi mestiere.»
Federico Fellini, al Corriere della sera 21.7.1990
«Oggi siamo così condizionati a diventare fruitori, destinatari, utenti, consumatori, che anche la parola più disinteressata, l’immagine più innocente, ci arrivano come messaggi di qualche altra cosa.» «Mi è assolutamente estranea la capacità di organizzare le mie preferenze, i miei gusti, i miei desideri, in termini di genere e di categorie...»
Federico Fellini, intervista Corriere della sera dicembre 1978
- Diffido molto della libertà totale. In completa libertà, il vero artista è perduto. Ha bisogno di essere contro, per attingere in se stesso la propria energia
(Federico Fellini, dal settimanale Epoca del 1990, citato da Tullio Kezich in un articolo su John Ford)
Tati e il Don Chisciotte con Fellini:
...personalmente, non potrei prendere una cinepresa e girare ciò che non ho voglia di girare. Allora, preferirei riprendere i miei numeri che facevo nel varietà: questo non mi dà fastidio. Ma quando si è scelto il mestiere del cinema, che è appassionante e occorre riconoscerlo, bisogna farlo come lo faccio io, oppure rinunciarvi. A meno che Fellini, per esempio, non abbia bisogno di me per una bellissima storia: si è parlato, una volta, di un Don Chisciotte (...) in questo caso sì, sento che lo farei.
Jacques Tati, intervista riportata a pag.11 del “Castoro Cinema” a cura di Roberto Nepoti
(le immagini sono tratte dagli spot che Fellini ha girato per la Banca di Roma, con Paolo Villaggio e Anna Falchi; provengono dal supplemento "Sette" del Corriere della Sera, fine anni '80)
(continua)

Federico Fellini ( VI )

«...eppure odio “Otto e mezzo”, perché lo ritengo responsabile dell’onanismo esasperato che da trent’anni a questa parte affligge epidemicamente il cinema italiano. Allo stesso modo odio “La terra trema” di Visconti, con il suo equivoco sul realismo (...) danni “teorici” tremendi, di cui ancora portiamo le conseguenze. Infine, odio il primo film che vi viene in mente della cosiddetta “commedia all’italiana”, che con il suo elogio dell’arte di arrangiarsi e con l’esaltazione dell’italiano arruffone, cialtrone, spaccone e pronto tutto per arricchirsi ha legittimato a modello di massa quei modelli comportamentali che ci hanno portato a Tangentopoli.»
Gianni Canova, da Segnocinema n.60 anno 1993
- ...in generale non si tiene presente che la seduzione del fumetto è basata sui tempi di immobilità, che richiedono la collaborazione del lettore: è il lettore a colmare lo spazio tra un quadretto e l’altro, aggiungendo il quadretto che manca. (...) Quando mi chiedono chi c’è alle spalle della mia macchina da presa, risponde sempre che ci sono Fortunello, Mio Mao, Bibì e Bibò, miei angeli custodi e numi tutelari, e le marionette, e il circo. Potrei rispondere Charlie Chaplin, che sta dietro ad ogni regista, ma dietro di lui c’è ancora Fortunello, e più indietro il circo.
Fellini sui fumetti, int. a Medail 12.7.90 cds (partendo dal Fellini-Manara)
«Sono sollecitato da una ventina d’anni a fare la regia di opere. Conosco ormai tutti i sovrintendenti. Però sono estraneo a questo tipo di regia; in realtà vorrei dirigere l’orchestra...»
Fellini a Panorama 6 gennaio 1991
"Amerika di Kafka somiglia a Pinocchio e ad Oliver Twist"
(int. a rai3, 2.7.1988)
«Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo» (tutto qui)
Tullio Kezich ricorda che Fellini, come Jung, annotava e disegnava i suoi sogni in un “Librone” iniziato nel 1963, al tempo di Giulietta degli spiriti, su ispirazione dell’analista junghiano Ernst Bernhardt. (cds7, maggio 1997)

...quand’è che un personaggio si definisce “lunare”, in contrapposizione a “solare”? Poniamola così: solare è quella persona, quel personaggio, che ha un rapporto disteso e soddisfatto con la realtà; lunare è quello che con la realtà ha un rapporto difficile, diffidente ed inquieto (...)
Beniamino Placido su La voce della luna, dal Venerdì di Repubblica 3 aprile 1998

Qualche giorno fa ascoltavo una vecchia intervista di Fellini, in cui ad un certo punto si diceva: “fuori del mio paese sono infelice” Ecco, il mito è il nostro paese narrativo. (...)
Repubblica 10 luglio 1998, breve accenno junghiano da un articolo che parla d’altro (intervista di L.Lipperini a Ginevra Bompiani)

il cds 15.4.2001 pubblica una bozza di Fellini del 1993, che prevede Mastroianni in teatro, poi Gassman, Benigni, Villaggio...

fu Marcello Marchesi a mettere in mano a Fellini “La metamorfosi” di Kafka: lo dice Kezich sul cds 12.8.2002. Fellini aveva vent’anni, era la redazione del Marc’Aurelio
age0203 14mar

La complicità e la tenerezza legavano Federico Fellini a Giulietta. Fu una lunga complicità. Federico diceva “Non bisogna mai far piangere nessuno”; lo disse dopo che uscì un libro di un’attrice che rivelava di aver avuto qualcosa con lui. Quando lo visitai in ospedale a Rimini, era ormai alla fine, e a un tratto pronunciò queste parole: «Innamorarsi ancora una volta ». Così, di colpo: mi sorprese.
Enzo Biagi, da L’Espresso 13 novembre 2003

La felicità sarebbe poter dire la verità senza far piangere nessuno.
Enzo Biagi, citazione da Otto e mezzo di Fellini, L’Espresso 22.01.1998

martedì 25 ottobre 2011

Fellini Satyricon

Fellini Satyricon (1969) Regia: Federico Fellini - Soggetto: liberamente tratto da Petronio Arbitro - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi – Consulente lingua latina: Luca Canali - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Musica: Nino Rota, con la collaborazione di Ilhan Mimaroglu, Tod Docksader, Andrew Rudin - Ideazione scenografica: Federico Fellini - Scenografia: Danilo Donati, Luigi Scaccianoce - Costumi e arredamenti: Danilo Donati - Aiuto scenografia: Dante Ferretti, Carlo Agate - Aiuto costumi: Franco Antonelli, Renzo Bronchi, Dafne Cirrocchi - Consulenza per le pitture: Nino Scordia - Capo reparto pitture: Italo Tomassi - Architetto: Giorgio Giovannini - Montaggio: Ruggero Mastroianni - - Produttore: Alberto Grimaldi - Durata: 138'.
INTERPRETI: Martin Potter (Encolpio), Hiram Keller (Ascilto), Max Born (Gitone), Salvo Randone (Eumolpo), Mario Romagnoli (Trimalcione), Magali Noel (Fortunata), Capucine (Trifena), Alain Cuny (Lica), Fanfulla (Vernacchio), Danika La Loggia (Scintilla), Giuseppe Sanvitale (Abinna), Genius (il liberto arricchito), Lucia Bosè (la matrona suicida), Joseph Wheeler (il suicida), Hylette Adolphe (la schiavetta), Tanya Lopert (l'imperatore), Gordon Mitchell (il predone), Luigi Montefiori (Minotauro), Marcello Di Falco (proconsole), Elisa Mainardi (Arianna), Donyale Luna (Enotea), Carlo Giordana (il capitano della nave), Pasquale Baldassarre (l'ermafrodito), Lina Alberti (l'idolo d'oro, parte tagliata al montaggio).

Ho provato a leggere il “Satyricon” di Petronio Arbitro, tanti anni fa, quando leggevo di tutto: era un libro famoso che conoscevo perché a scuola mi avevano fatto leggere la famosa “cena di Trimalcione”, e non avevo ancora visto il film di Fellini. L’ho trovato francamente illeggibile, vi ho rinunciato prima di arrivare a metà, e non ho mai più ricominciato. La stessa cosa mi è capitata con il film di Fellini, che ho visto una sola volta per intero (dall’inizio alla fine) e che non mi è piaciuto.
Non è che io sia un lettore che si scoraggia subito, anzi; e per rimanere sullo “scabroso” sono riuscito a leggere anche “L’asino d’oro” di Apuleio, che conservo ancora, e che quanto a nefandezze (mi si passi il lessico d’altri tempi) è anche peggio del “Satyricon” ma che nasconde tra le sue pagine molte cose interessanti e divertenti. Quindi, non rivedrò il Satyricon di Fellini, non per ora almeno. Per oggi mi limito a riportare, giusto per fare un po’ d’ordine, le poche righe di appunti che avevo preso dieci anni fa; in futuro, chissà. Un buon motivo per rivedere il film potrebbe essere questo: il grande lavoro di scenografi e costumisti, Danilo Donati e i suoi collaboratori hanno fatto un vero capolavoro. Dopo questo film, Dante Ferretti (uno dei collaboratori di Danilo Donati) fu chiamato da Pasolini per la “Medea”, e per gli altri suoi film successivi.
«Non mi sembra un film di Fellini, sembra piuttosto il Franco Rossi dell’Odissea, e anche altre cose più “neutre”. Sempre pollice verso per tutte le cose che non mi piacciono insite nella storia, che rendono la prima parte quasi inguardabile: ho visto tutto il film solo per rispetto verso Fellini, e per completezza. Però il film non è male, è sul versante Casanova - E la nave va – La città delle donne, un Fellini che si cerca e che non sempre si trova, ma qui pesa molto anche la produzione. Mi ha fatto piacere rivedere Salvo Randone, del quale però è difficile intuire la grandezza se si conosce solo questo. Molte cose belle nella seconda metà del film.» (gennaio 2001)
- Lasciamo quindi stare il Mastorna, e parliamo di un altro viaggio, quello nel mondo pagano, nel mondo di Petronio, il Satyricon.
Fellini: Insieme al Casanova, al Decameron e all'Orlando Furioso, Satyricon faceva parte, fin dai tempi dei Vitelloni, dei film che promettevo ai produttori, come un contentino, in cambio della Strada e di quant'altro mi interessava davvero. Ma non avevo mai pensato di mantenere davvero quelle promesse. Durante la convalescenza dalla pleurite allergica avevo riletto Petronio ed ero rimasto affascinato da un particolare che prima non avevo saputo notare: le parti mancanti, cioè il buio, fra un episodio e l'altro. Già a scuola, quando si studiavano i prepindarici, avevo cercato di riempire con l'immaginazione il vuoto fra i vari frammenti. Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina l'unico verso rimasto di un poeta: «Bevo appoggiato alla lunga lancia»; e io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a riproporgli. Ma quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva l'idea che la polvere dei secoli avesse conservato i battiti di un cuore ormai spento. Convalescente a Manziana, nella bibliotechina di una pensione, mi capitò in mano Petronio: tornai a provare una grande emozione. Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale dell'Appia Antica o in generale ai musei archeologici. Sparsi frammenti, brandelli riaffioranti di quello che poteva anche essere considerato un sogno, in gran parte rimosso e dimenticato. Non un'epoca storica, filologicamente ricostruibile sui documenti, positivisticamente accertata, ma una grande galassia onirica, affondata nel buio, fra lo sfavillio di schegge fluttuanti, galleggianti fino a noi. Mi pare di essere stato sedotto dall'occasione di ricostruire questo sogno, la sua trasparenza enigmatica, la sua chiarezza indecifrabile. Con i sogni, appunto, succede la stessa cosa. Essi hanno dei contenuti che ci appartengono profondamente, attraverso i quali noi esprimiamo noi stessi, ma alla luce del giorno il solo rapporto conoscitivo che possiamo avere con essi è di natura concettualistica, intellettuale. Per questo i sogni appaiono alla nostra coscienza così sfuggenti, incomprensibili ed estranei. Il mondo antico, mi dissi, non è mai esistito, ma non c'è dubbio che ce lo siamo sognato. Lo sforzo sarebbe stato quello di annullare il confine fra sogno e fantasia, di inventare tutto e poi oggettivare questa operazione fantastica, distaccarsene, per poterla esplorare come qualcosa allo stesso tempo di intatto e irriconoscibile.
- E come ricordi il suo impatto col pubblico?
Fellini: Satyricon fu presentato in anteprima all'American Square Garden, subito dopo un concerto rock. Ci saranno stati diecimila ragazzi. L'eroina e l'hascisc arrivavano in bocca portati dal fumo. Era uno spettacolo stupendo quell'armata favolosa di hippies arrivati su motociclette incredibili e automobili coloratissime accese di lampadine: nevicava e i grattacieli di Manhattan erano illuminati da tutte le parti, tersi lastroni di ghiaccio sfavillante. La proiezione fu entusiasmante. A ogni fotogramma i ragazzi applaudivano; molti dormivano, altri facevano l'amore. Nel caos totale il film andava avanti implacabilmente su uno schermo gigantesco che sembrava restituire l'immagine riflessa di ciò che accadeva in sala. Imprevedibilmente, misteriosamente, in quell'ambiente fra i più improbabili, Satyricon sembrava aver trovato una sua naturale collocazione. Non pareva neanche più mio nell'improvvisa rivelazione di un'intesa così segreta, di legami tanto sottili e mai interrotti, fra l'antica Roma della memoria e quel pubblico fantastico dell'avvenire.
(Federico Fellini, da “Intervista sul cinema” a cura di Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983)

sabato 22 ottobre 2011

Il viaggio di Mastorna ( I )

Block-notes di un regista (“Fellini: a director’s notebook”, 1969). Regia di Federico Fellini. Sceneggiatura di Bernardino Zapponi e Federico Fellini. Fotografia: Pasqualino De Santis. Musiche: Nino Rota. Con Marcello Mastroianni, Federico Fellini, Marina Boratto, Caterina Boratto, Prof. Genius, David Maunsell, molti attori non professionisti e brevi apparizioni di Nino Rota, Giulietta Masina, Bernardino Zapponi. Durata: 36 minuti (54’ negli USA)

“Il viaggio di Mastorna” è il film che Fellini non ha fatto. Se ne è favoleggiato a lungo, per diversi anni si è pensato che sarebbe stato” il nuovo di film di Fellini” dopo quello che aveva appena finito: ma il turno di Mastorna non venne mai. Non si sa quanto ci sia di vero in questa favola, Fellini era un burlone e in queste cose giocava e ci si divertiva molto. Esistono libri e saggi sull’argomento, ma l’unica cosa certa – l’unica solida e tangibile – sono le sequenze che vediamo dentro “Block-notes di un regista”, un piccolo film di 35 minuti girato nel 1967, che in origine doveva essere un servizio per la NBC americana, ma poi divenne qualcosa d’altro, fu firmato da Fellini, ed appartiene ufficialmente all’elenco dei suoi film, è un Fellini con tutti i crismi e i bolli notarili.
Si tratta di pochi minuti, i cinque iniziali e altri tre (quasi quattro) dal minuto 19 al minuto 22.
Ecco come inizia:
Voce dello speaker, fuori campo:
- Queste strane costruzioni dovevano apparire all’inizio di un film che si chiama «Il viaggio di G. Mastorna». Qui doveva atterrare un aereo dal quale sarebbe disceso l’eroe del film: un orchestrale, suonatore di violoncello. Da questa piazza cominciava il suo misterioso viaggio, ma il film non fu mai fatto e le costruzioni rimasero così: inutilizzate, deserte. Qualche anno dopo il regista del film, Federico Fellini, venne a scuriosare con una piccola troupe televisiva tra le vecchie costruzioni.Voce di Fellini, fuori campo:
(riascoltata oggi, ricorda curiosamente quella di Valentino Rossi)
- Mi sembrano più belle adesso, così abbandonate, cadenti, piene di erbacce... Ma vedo che c’è qualcuno qui. Chi sono? Buongiorno!Si tratta di giovani hippies, quasi tutti doppiati con accento inglese. Uno di loro dice: “Francamente, sono rimasto un po’ sorpreso di trovare la Cattedrale di Colonia qui da queste parti; ma mi ci sono trovato bene e ci sono rimasto, insieme ai miei amici.” Gli hippies celebrano un “matrimonio laico”; un altro racconta che non possono ripartire perché la loro macchina non ha le ruote: le hanno vendute.
Un altro del gruppo, con una gran barba nera da pirata, si avvicina e spiega:
- Ho scritto una poesia sulle rovine del tuo film. Si chiama “Mastorna blues”: « Io vivo in una città chiamata Mastorna, che è il sogno di un pazzo apposato sull’erba. Una città inutile dove nessuno ama, vive, lavora, odia, muore. C’è un aeroplano inchiodato che non può sollevarsi, e le botteghe hanno porte di legno che mai si apriranno. Mastorna, città triste e bella, di una bellezza che amo sopra ogni altra, perché si chiama demenza. Città di poveri e di stracci, come ogni cosa. Qui voglio morire, un giorno, ed essere sepolto in quella chiesa di carta, dove non entrano preti.»
Segue il rumore di un aereo, ma l’aereo non c’è. Arriva un temporale improvviso, vento e polvere si alzano fra le rovine; la cinepresa entra nell’aereo, tra le impalcature. L’aereo è vuoto, anche se si intravvede una sagoma umana dietro un finestrino; e dentro è tutto in rovina. Una voce femminile ci informa che ci sarà un atterraggio d’emergenza (echi di “Orizzonte perduto” di Frank Capra?). La scena cambia rapidamente, siamo da un’altra parte, una città forse del Nord Europa, dentro una tempesta di neve.
Neve. Un uomo di spalle, con un cappotto pesante, si allontana dall’aereo e cammina nella grande piazza deserta. Nella mano destra ha un violoncello. Lo vediamo allontanarsi, sempre di spalle; l’ultima inquadratura è per il violoncello abbandonato nella piazza, chiuso dentro la sua custodia, mentre la neve continua a scendere.
Voce di Fellini (fuori campo):
- Ecco, questo è Mastorna: l’eroe del mio film, un violoncellista. Doveva cominciare così il suo viaggio, con un atterraggio di fortuna in una piazza di una città sconosciuta. Ma il viaggio finì subito, come vedete. Per la verità, non incominciò mai; e tutto quello che avevamo preparato per il film (qui appare Fellini in prima persona, mentre cammina su una strada di campagna) venne sistemato in un grande magazzino, una specie di cimitero degli elefanti, un cimitero di scenari, di disegni, di costumi.Entriamo anche noi nel magazzino.
- Ecco, è tutto raccolto qua in attesa del giorno che riprenderò in mano il progetto. Mi dà una strana sensazione aggirarmi qua dentro, qualcosa che assomiglia al rimorso, come se mi sentissi sotto lo sguardo di milioni d’occhi che aspettano. (La sua assistente prende in mano dei disegni.) Il bozzetto che la segretaria vi sta mostrando rappresenta la piazza dell’atterraggio. Ma ora basta parlare di Mastorna, parliamo del nuovo film. E’ un altro viaggio, ma un viaggio nel tempo...
Da qui in avanti, il film parla della preparazione del “Satyricon”, che sarebbe uscito di lì a poco. Ci spostiamo al Colosseo, di notte, con personaggi equivoci, e poi via in cerca dell’antica Roma, con veggenti improbabili e improbabili professori, su e giù per Roma, tra le campagne e dentro gli scavi della metropolitana. C’è anche un anticipo di “Roma”, l’abbozzo della scena della perdita degli affreschi. Viene da pensare, guardando queste scene, all’intero cinema di Fellini. Ognuno trova in Fellini ciò che cerca dentro se stesso, verrebbe da dire: anche in un film così breve ci sono mille immagini, storie, pensieri, volti, eppure nell’immaginario comune Fellini è rimasto questo qua, quello un po’ equivoco delle prime sequenze al Colosseo e delle prostitute. Io dentro a Fellini ho trovato tante cose, se qualcuno ci ha trovato solo i travestiti e le prostitute (meno di cinque minuti sul totale del film) direi che è un problema suo, e sorvolo.
Io continuo a cercare Mastorna, e lo ritrovo al minuto 16: o meglio, trovo il suo interprete.
Voce di Fellini:
- Lo sapete chi abita qui, all’inizio dell’Appia Antica? Il mio amico Marcello Mastroianni (...)Segue un filmato che fa finta di essere documentario: Mastroianni tra belle donne, assistenti premurosi, ammiratrici, che prova costumi e risponde fingendo interesse alle domande di una giornalista straniera: ammette che lui “sull’isola deserta” non porterebbe libri ma Quattroruote e Linus. Sbuffa e si rifiuta di interpretare un Abate Faria, invece propone a Fellini di fare Mandrake insieme: “Un Mandrake de Frosinone, che te ne pare?”. Poi arriva un pullman di turiste americane: nel giro di Roma è prevista anche una sosta sotto casa Mastroianni. Marcello non si sottrae, saluta e benedice le turiste estasiate, lanciando anche un bacio. Tutto questo, con la consueta eleganza e con il necessario distacco. Fellini e Mastroianni ci si divertivano parecchio, in queste scenette: penso che sarebbero andati avanti per ore, ma poi il film bisogna pur continuarlo.
Siamo al minuto 19, e si torna a parlare di Mastorna.
Voce di Fellini:
- Marcello avrebbe dovuto essere Mastorna. Speravo che scegliere lui mi risolvesse ogni perplessità, e un giorno facemmo un lungo provino.Segue il provino: anche questo un piccolo divertimento privato, girato per l’occasione (e per gioco) ma tutt’altro che banale. Vediamo Mastroianni vestito da Mastorna, seduto, col suo violoncello, mentre truccatrici e costumiste e personale vario gli girano intorno. Ha i baffetti, un abito grigio; gli mettono il cappello e gli tolgono il cappello per vedere come sta, c’è una scena simile con Peter Falk in “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Intanto Mastroianni suona davvero il violoncello, traendone note esilaranti e pensose, e Fellini si sbraccia dietro la cinepresa. Voce di Fellini:
- Marcello sentiva il mio disagio, era disorientato dalla mia incertezza. Provammo coi baffi, senza baffi, con la parrucca, senza, le lenti a contatto, ma Mastorna non c’era. Continuava a nascondersi, inafferrabile.La scenetta del provino finisce con uno sguardo eloquente di Mastroianni.

Mastroianni: E va be’, allora mi strucco. Andiamo a mangiare?
Voce di Fellini: Sì.
Mastroianni: Ma senti un po’, Federi’, quando abbiamo fatto “La dolce vita”, non era giusto il personaggio? E in “Otto e mezzo”, non t’andavo bene?
Voce di Fellini: Sì, sì...
Mastroianni: E allora, che ci avrà di tanto complicato ‘sto Mastorna? Che ce dovrebbe ave’, du’ capocce? (si fa serio). No, Federico, il fatto grave è che io non sento la tua fiducia. E’ come se tu avessi paura. Se ti convinci che io sono Mastorna, (si toglie i baffetti finti) non avresti più dubbi: io divento Mastorna.

Siamo al minuto 22, e Mastorna finisce qui. Adesso si torna al Satyricon, Fellini va al macello di Roma per cercare comparse: gladiatori robusti, panze e muscoli rigorosamente “de Roma antica”. Ne trova in abbondanza, sono le facce e le panze che si possono vedere ancora oggi nel “Fellini Satyricon”. Del film (36 minuti titoli di coda compresi) segnalo ancora la lunga galleria di personaggini dei provini finali, la bellezza di Marina e Caterina Boratto, un gaudioso film muto (rigorosamente finto) su antichi romani che si accoltellano allegramente, e soprattutto le musiche di coda, dove un Nino Rota ispiratissimo trascrive le musiche da circo di “Otto e mezzo” per organo (un organo piccolo, quasi una fisarmonica) e chitarra.

Del “Viaggio di Mastorna”, quando ormai era chiaro che non si sarebbe fatto più, è stata pubblicata la sceneggiatura – segno che qualcosa c’era per davvero – ed anche un album a fumetti disegnato da Milo Manara, che ebbe l’approvazione di Fellini stesso. Il fumetto (che io ho voluto solo sfogliare in libreria) è rimasto famoso per un particolare: pare che vi sia l’unico ritratto autentico (opera di Manara) dello scrittore Carlos Castaneda.
Castaneda è figura leggendaria, di lui esiste solo una foto certa che lo ritrae molto giovane, al tempo della laurea. Castaneda scrisse molto di sciamanesimo, di droghe e allucinogeni, di voli mistici, di esperienze extrasensoriali: cose di cui Fellini si occupava da tempo, almeno da “Giulietta degli spiriti” in avanti; anche in questo piccolo film c’è una sequenza con un mago sensitivo, però virata sul comico e sullo sberleffo (è lo stesso “mago Genius” che appare brevemente in “Giulietta degli spiriti”). Forse era questo il “viaggio” di cui Fellini non voleva parlare. Gli sarebbe piaciuto, ma non sono cose che si possano raccontare.

Il viaggio di Mastorna ( II )

Su Fellini e “Il viaggio di Mastorna” non si finirebbe mai di prendere appunti: il che è ben strano, per un film che non è mai stato girato se non in poche sequenze – quelle che si possono vedere in “Block notes di un regista”, con Mastroianni, girate nel 1969.
Per mettere almeno un po’ in ordine le cose che ho raccolto io, comincio dalla sceneggiatura per il film, che non solo esiste ma è anche stata pubblicata di recente: l’amico Matteo me lo aveva scritto in un commento, due anni fa: «...del Mastorna ho appunto letto la sceneggiatura, - scritta con Dino Buzzati e Brunello Rondi - pubblicata in un libro chiamato "Il viaggio di G. Mastorna" (edito da Quodlibet). Molto interessante è anche la prefazione di Vincenzo Mollica, che ne ricostruisce la vicenda. Di "Block Notes" posso dirti che m'è piaciuto molto, le sequenze che ci mostrano ciò che è rimasto di Mastorna sono molto affascinanti.» (Matteo Aceto)
A proposito di Buzzati e dei suoi progetti con Fellini, sul Corriere della Sera 16.4.1997, Tullio Kezich scrive un articolo a partire da una lettera di Buzzati a Fellini del 1966, dove dice che “Il viaggio di Mastorna” parte da un racconto di Buzzati del 1938, dal titolo “Lo strano viaggio di D. Molo”, che Fellini lesse sulla rivista “Omnibus” ai tempi del liceo. Un’altra fonte probabile è il racconto di Fredric Brown, “Assurdo universo”.
Il soggetto, come lo descrive Kezich, è questo: «Domenico è un ragazzino dodicenne ossessionato dall’idea di aver commesso sacrilegio con una confessione reticente: colto da malore, muore e finisce nel regno dell’attesa, dei processi e delle condanne. Assolto alla fine di un lungo travaglio, dovrebbe andare in paradiso: e invece torna sulla Terra avendo compreso il segreto e assaporato il dolore della vita.»
Ecco alcuni brani della lettera, la prima di quelle spedite da Buzzati a Fellini:
«...per natura, sia tu sia io siamo facilmente sedotti da idee narrative, pittoriche, di situazione, che nella loro accentuata stranezza e straordinarietà assumono, almeno per noi, un significato magico. Stiamo bene attenti: il pubblico, specialmente italiano, è in questo settore maleducatissimo, anzi non lo ama affatto, quando addirittura non ne prova fastidio e gli dà la baia. Un film per esempio come “L’anno scorso a Marienbad” (di Alain Resnais) a parte il fatto che era fondamentalmente sbagliatocome concezione artistica (non si può raccontare una cosa fantastica con un linguaggio fantastico) non poteva interessare il grande pubblico. E “La dolce morte” (titolo suggerito da Buzzati) non può essere, mi sembra, un film da cineteca, sarebbe un delitto; dovrà parlare al cuore anche dei cavallanti, dei camionisti. (...) I morti...saranno tutti giovani, cioè nel migliore momento della loro vita? Oppure vedremo anche dei vecchi, dei malati, degli storpi? I morti (e questo è importantissimo) avranno ancora desideri materiali e sentimenti? Saranno tutti più o meno sereni? O in certi casi si arrabbieranno, soffriranno, piangeranno? Al primo quesito, dopo averci pensato su, io adesso non saprei ancora rispondere. Se si fanno giovani tutti i morti, si ottiene indubbiamente un forte shock iniziale, e lo spettatore si rende subito conto della situazione anche senza bisogno di spiegazioni (le quali appesantiscono). D’altra parte, la generale giovinezza rischia di determinare una certa monotonia e rende più difficile quella caratterizzazione di personaggi anche minori che di Fellini è una delle più belle caratteristiche. Circa i desideri materiali e i sentimenti, io direi che conviene stabilire una graduatoria qualitativa. La quale corrisponde, mi pare, alla stessa concezione religiosa dell’India. Se non mi sbaglio, tu hai pensato alla stessa soluzione. Cioè: l’aldilà è un lunghissimo cammino, che ci dovrà portare, chissà quando, all’identificazione con Dio, quando l’uomo si spoglierà completamente della sua personalità, come di un inutile e ingombrante fardello. Ne segue che: - L’uomo spiritualmente arretrato, come la maggioranza di oggi, continuerà per un pezzo, anche nell’aldilà, ad avere i desideri e i sentimenti che gli appesantivano o contristavano la vita. – L’uomo spiritualmente avanzato sarà molto più libero e parecchi interessi mondano gli saranno ormai estranei. Ma anche lui, che non ha raggiunto ancora la vetta, incontrerà delle remore, delle tentazioni, che tenderanno a trattenerlo se non addirittura a tirarlo indietro. Questa soluzione gli permetterà di far sopravvivere anche nel mondo dei morti gli interessi umani, senza dei quali il film riuscirebbe astratto e di nessun interesse per la massa. (...) Il senso fondamentale del film, dal punto di vista poetico, dovrebbe essere secondo me quello di un commosso addio alla vita terrena, con una quantità di struggenti nostalgie...I morti , consapevolmente o no, anelano a raggiungere Dio. Anelano ad avanzare, a diminuire l’immensa distanza che ancora rimane. Chi più chi meno, tutti hanno perciò smania di partire... Ma chi vuole partire incontra continue difficoltà. Non già ostacoli angosciosi come in Kafka. Anzi, tutti saranno buoni e gentili, cercheranno di porgere aiuto. Però ci sono molte prenotazioni, l’aereo o il transatlantico non partono tutti i giorni, ci si accorge che i documenti non sono in regola, e così via. Lo facciamo partire il protagonista? Soltanto verso la fine o ripetutamente durante il corso del film? Oppure non riusciremo a vedere soddisfatta la sua attesa? Questo bisogna discuterlo.
(Dino Buzzati a Federico Fellini, progetti e idee per “Il viaggio di Mastorna”)
Un film molto simile a questo soggetto oggi esiste: è “After life” (Dopo la vita) del giapponese Hirokazu Kore-Eda, uscito nel 1998. Ovviamente, lo stile di Kore-Eda è molto diverso, la suggestione di cosa ci succede dopo la morte appartiene a tutta l’umanità, e mi sembra improbabile che Kore-Eda abbia mai letto questo brano di Buzzati; però dovrei informarmi, perché la vita riserva molte sorprese, grandi e piccole.

«...perché, diceva Fellini, gli artisti sono come i sonnambuli, percorrono ad occhi chiusi una strada fragile e sconosciuta e se li svegli di colpo e gli chiedi di spiegarti dove stanno andando, e perchè ci vanno, paiono degli idioti spaesati.»
Roberto Benigni, intervista al Venerdì di Repubblica, 14.10.2005

(continua)