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venerdì 30 luglio 2010

Munchhausen di Terry Gilliam

Il barone di Munchhausen (The Adventures of Baron Munchausen, 1988) Regia di Terry Gilliam. Dai libri di Rudolph Erich Raspe e Gottfried August Burger, Sceneggiatura di Charles McKeown e Terry Gilliam. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Scene di Dante Ferretti. Costumi di Gabriella Pescucci. Musica: Eric Idle, Michael Kamen. Con John Neville, Eric Idle, Sarah Polley, Oliver Reed, Charles McKeown, Winston Dennis, Jack Purvis, Valentina Cortese, Jonathan Pryce, Uma Thurman, Robin Williams, Sting (126 minuti)

Ecco un altro film esemplare: in teoria c’è tutto per far nascere un capolavoro, in pratica il film non decolla mai. Ci ho pensato a lungo, e non sono riuscito a stabilire bene il perché di questo fallimento. Ci sono dei difetti evidenti, ma molti film belli e di successo (a partire da Via col vento e da Casablanca) sono pieni di difetti, eppure non ci si fa caso. Ci sono dei meriti strepitosi, per esempio le scene e i costumi – opera di Dante Ferretti e di Gabriella Pescucci – sono di quelli da stropicciarsi gli occhi, meravigliosi e di grande giustezza e fantasia. C’è la storia, la vecchia storia del Barone fanfarone e dei suoi magnifici servitori. C’è il teatro nel teatro (il film comincia sul palcoscenico), che a me piace sempre moltissimo; e ci sono scene divertenti e memorabili, come la nascita di Venere dalla conchiglia, come in Botticelli: Venere è Uma Thurman a diciott’anni, il gelosissimo Vulcano è un grande Oliver Reed. E Robin Williams è il re della Luna (per motivi burocratici recita sotto il nome Ray D. Tutto), con Valentina Cortese a fargli da regina: le loro teste si staccano dal corpo per elevarsi e dedicarsi ai pensieri spirituali, ma il corpo le reclama sempre con insistenza per tutte le altre cose.
Non so: di certo il film appare troppo lungo, molto slegato, quasi che fosse montato controvoglia, di fretta, dopo che la produzione si è lamentata per i troppi soldi spesi: e forse è andata proprio così. Rivedendolo, mi ha ricordato un po’ “Eyes wide shut” di Kubrick (uscito diversi anni dopo): anche qui tutto bello, ma qualcosa manca – e quel qualcosa era il tocco finale di Kubrick, che non ha potuto finire il suo lavoro. O forse è la storia che imprigiona un po’ troppo Gilliam: il regista inglese aveva alle spalle due capolavori di fantasia come “Brazil” e “I banditi del tempo”, ma in questi due film aveva una libertà d’invenzione che qui non ha, ed è come se fosse un po’ in gabbia. Di sicuro, so che molti attori sono sbagliati: a partire dal protagonista John Neville, che è certamente un ottimo attore di teatro ma che qui pare sempre spaesato e coperto sotto quintali di trucco. Ma anche i servitori sono un po’ pallidi, e le musiche firmate da Michael Kamen sono un po’ troppo di seconda mano: cose già sentite da altre parti, e anche in arrangiamenti migliori.
Il pensiero corre a cosa ne avrebbe tratto Fellini (ma non credo che gli interessasse il soggetto), a Méliès nel 1911 (un anno triste per il vecchio mago, inventore degli effetti speciali: ma il film ha molte buone trovate) e soprattutto al vecchio film tedesco del 1942, regia di Joseph von Baky: anche quello non era un capolavoro, ma la scena del Barone sulla Luna era notevole. E’ un peccato non averlo sottomano...

martedì 20 luglio 2010

Brazil ( I )

Brazil (1985) Regia di Terry Gilliam. Scritto da Terry Gilliam, Tom Stoppard, Charles McKeown. Fotografia di Roger Pratt. Musiche originali di Michael Kamen; “Brazil” di Ary Barroso, eseguita da Geoff & Maria Muldaur. Con Jonathan Pryce (Sam Lowry), Kim Greist (Jill Layton), Robert De Niro (Archibald "Harry" Tuttle) , Ian Holm (il capufficio), Michael Palin (Jack Lint), Katherine Helmond (la madre di Sam), Bob Hoskins (l’idraulico), Ian Richardson (Mr. Warren), Peter Vaughan (Mr. Helpmann), Jim Broadbent (Dr. Jaffe), Charles McKeown (Harry Lime), Barbara Hicks (Mrs. Terrain), Diana Martin (il Telegramma Cantato), e altri. Durata 142’

“Brazil” non ha nulla a che fare con il Brasile: lo dico per chi non c’era e per chi non ha mai visto il film. E’ una variazione sul tema di “1984” di George Orwell, e “Brazil” è una canzone molto famosa, quella che molti di noi ancora canticchiano quando siamo soprappensiero.
“Brazil” di Terry Gilliam incomincia così:
« Ore 20.49, un luogo qualunque del XX secolo.»
Dalla tv, parte un allegro spot con una rassicurante voce maschile:
- Salve gente! Sono qui con voi per parlarvi di condutture. Le condutture della vostra casa vi sembrano vecchie e fuori moda? Perché non le cambiate? Central Service ve ne offre una vasta gamma dalla linee nuove ed eleganti (...) Non perdete tempo! Recatevi subito alla più vicina sala d’esposizione di Central Service. Ricordatevi: “CENTRAL SERVICE”, la garanzia di un grande nome.
Alla fine dello spot, vediamo che il televisore da cui si parlava era nella vetrina di un grande negozio di elettrodomestici, che salta in aria; ne nasce un incendio. Parte il titolo del film: BRAZIL, scritto in allegre luci al neon, da insegna di Las Vegas.
Dalla tv rovesciata per terra, tra le fiamme, si continuano le trasmissioni. Nello stesso tono allegro e rassicurante dello spot, ecco l’intervistatore del telegiornale, che si chiama David:
- In rappresentanza del Ministero dell’Informazione abbiamo qui il Viceministro, l’onorevole Eugene Helpmann.
- Buonasera David!
(Helpmann ha una faccia bonaria e paterna da vecchio colonnello inglese, coi baffi bianchi)
- Signor Viceministro, cosa c’è dietro al grande aumento del numero degli attentati terroristici?
- Una mancanza di sportività. C’è una sparuta minoranza di persone che sembra aver completamente dimenticato i vecchi valori di una volta, e non riesce a sopportare l’idea di aver perso la sua battaglia. Se queste persone accettassero le regole del gioco, otterrebbero molto di più dalla vita.
- Tuttavia, signor Helpmann, c’è chi ritiene che il Ministero dell’Informazione si sia ampliato troppo, e in settori che non sono di sua competenza.
- Vede, in una società libera l’informazione deve penetrare ovunque, ed è solo per questo che ci stiamo potenziando.
- E’ un potenziamento un po’ caro: si parla di spese intorno al sette per cento del bilancio statale.
- Mi rendo conto delle preoccupazioni dei contribuenti. La gente vuole che il suo denaro non vada sprecato, per questo insistiamo nella politica degli investimenti e del recupero dei costi dell’informazione. Chi viene condannato dal Tribunale deve pagare non solo le spese della sua detenzione, ma anche quella degli interrogatori, degli accertamenti e delle indagini fatte sul suo conto.
- Lei pensa che il governo vincerà questa battaglia contro il terrorismo?
- Ne sono convinto. La nostra morale è molto più elevata della loro. Stiamo ribattendo colpo su colpo ogni loro mossa, e sono già molti quelli che hanno deciso di ritirarsi dalla lotta. Credetemi, il terrorismo ha le ore contate.
(Durante la trasmissione, ci siamo lentamente spostati dalla piazza in fiamme dopo l’attentato terroristico all’interno del centro computer del Ministero dell’Informazione, dove un solerte funzionario scova uno scarafaggio e cerca di catturarlo. Ma lo scarafaggio cade nella stampante del computer: morendo la sporca e cambia un cognome, che da “Tuttle” diventa “Buttle”). Intanto, Mr. Helpmann sta finendo il suo discorso.
- ... e quindi un criminale non deve costare nulla ad un cittadino onesto.
- Signor Helpmann, torniamo al terrorismo. Sono diciassette anni che dalla prima bomba...
- E’ un numero che gli porterà sfortuna!
Helpmann ride, molto contento della sua battuta.
- Grazie signor Viceministro, non ho altro da chiederle.
- Grazie a lei David, e grazie a tutti i telespettatori. Buon Natale!
Riascoltare oggi queste battute iniziali di “Brazil” mette i brividi. All’epoca, non le avevo capite: ma oggi è tutto più chiaro. Notate: il Viceministro non risponde mai alle domande. Ci gira intorno, si aggrappa alle ultime parole dette, lancia slogan (“il cittadino onesto non deve pagare per i criminali”), ma non entra mai dentro al problema. E il problema è quello, terribile: sono 17 anni che il terrorismo mette le bombe, la gente continua a morire e non si è mai riuscito a risolvere il problema; però intanto si è instaurato un clima di terrore dall’alto, e di controllo continuo sulla vita di ogni cittadino, fin nell’intimità.
Quando uscì il film, il terrorismo era l’IRA, o le BR in Italia. Oggi, alla parola “terrorismo” di solito aggiungiamo quasi automaticamente un aggettivo, “islamico”. Per combattere il terrorismo islamico, ormai da dieci anni, le donne non possono più portare pinzette per le ciglia e forbicine per le unghie sugli aerei, e i bambini non possono portare da casa nemmeno una bottiglietta d’acqua da bere. Non è stata una misura transitoria, nessuno si è preoccupato, nessuno ha detto "purtroppo bisogna prendere questi provvedimenti", e tutti ci siamo abituati senza troppi problemi, anzi ben contenti, contentoni. Le videocamere ci osservano ovunque, e registrano i nostri movimenti; carte di credito e bancomat e telepass segnano ogni nostro passaggio, tra poco spariranno tutti gli impiegati di banca, e anche la tv sta diventando interattiva: saremo costretti a parlare soltanto con le macchine, qualsiasi cosa succeda. E la manutenzione, chissà a chi finita in mano la manutenzione degli impianti... Nessun film, nessun autore satirico, avrebbe mai immaginato uno scenario simile: eppure è diventato tutto vero.
Un’altra cosa che nessuno avrebbe mai previsto è il telefonino, magari con annesso video, macchina fotografica digitale, e connessione internet. Gli autori di fantascienza si sono spesso dilungati a descrivere un mondo dove a poveri umani tartassati (o androidi, o cyborg) veniva imposto a forza un meccanismo che li rendeva rintracciabili ovunque, e ne marcava ogni passo. Ovviamente, i poveri disgraziati a cui era toccata questa sorte facevano ogni sforzo possibile per liberarsi di quel terribile marchingegno: un collare, un braccialetto, una pillola, un microchip, una carica esplosiva, un circuito stampato ben in vista sulla fronte, che magari l’Eroe staccava via incidendo la carne con un coltello, in una scena molto drammatica.
Nessuno avrebbe mai immaginato che gli umani si sarebbero dotati volentieri, orgogliosi, di uno di questi marchingegni, lamentandosi anzi molto e molto soffrendo se non ne hanno uno, o se ne hanno un modello vecchio di tre mesi e non aggiornatissimo, e magari sfottendo il loro vicino che non ha lo stesso collare – pardon, videofonino – o che ne ha uno più vecchio che magari funziona ancora.
Non ho potuto controllare l’originale, ma penso che le “condutture” della versione italiana siano “tubes” nell’originale: del resto, il film è strabordante di tubi e di fili e di condutture, con annessi idraulici ed elettricisti ed esperti di condizionatori d’aria. Quando uscì il film, anche questo poteva sembrare un dettaglio poco comprensibile: oggi, nell’epoca di Youtube, è tutto molto più chiaro. (continua)

lunedì 19 luglio 2010

Brazil ( II )

Brazil (1985) Regia di Terry Gilliam Scritto da Terry Gilliam, Tom Stoppard, Charles McKeown. Fotografia di Roger Pratt. Musiche originali di Michael Kamen; “Brazil” di Ary Barroso, eseguita da Geoff & Maria Muldaur. Con Jonathan Pryce (Sam Lowry), Kim Greist (Jill Layton), Robert De Niro (Archibald "Harry" Tuttle) , Ian Holm (il capufficio), Michael Palin (Jack Lint), Katherine Helmond (la madre di Sam), Bob Hoskins (l’idraulico), Ian Richardson (Mr. Warren), Peter Vaughan (Mr. Helpmann), Jim Broadbent (Dr. Jaffe), Charles McKeown (Harry Lime), Barbara Hicks (Mrs. Terrain), Diana Martin (il Telegramma Cantato), e altri. Durata 142’
Si dice “dittatura”, e la gente pensa: “ordine”. Fateci caso: è quasi un riflesso condizionato. “Ordine” perché c’è uno che comanda, e gli altri stanno zitti e obbediscono; ed era ora che qualcuno facesse ordine, che non se ne può più che ognuno fa quello che gli pare. “Ordine”, pena di morte, delinquenza, zingari ed extracomunitari in campo di concentramento, ben chiusi; “fare come le SS”. A questi concetti si associa l’idea di fascismo, il culto del duce. L’idea di fondo è che siano tutte cose che toccheranno agli altri, non si sa bene quali altri ma comunque altri; e che a noi nessuno ci verrà a toccare, perché noi ci comportiamo bene.
Se si spiegasse davvero cos’è una dittatura (e non importa il colore, i dittatori sono tutti uguali e usano le idee politiche sociali e religiose per i loro fini, scegliendo quella che è più in voga al momento e svuotandola di senso, ma ripetendone in continuazione il nome), sarebbe già un bel passo in avanti, ma non si farà mai.
Dittatura è dove vengono in casa tua e picchiano tuo padre e tuo fratello, e portano via i tuoi vicini di casa, e non puoi nemmeno rivolgerti alla polizia, perché è proprio la polizia a farlo. Dittatura è il contrario di ordine: è morte, macerie, distruzione. Per rimettere ordine, dopo una dittatura, ci vuole una gran fatica e molto tempo. Ma queste, si sa, sono parole al vento: quando comincia il film, tutto è in perfetto Ordine – come abbiamo visto.
C’è solo questo piccolo incidente, un cognome letto male dal computer centrale del Ministero dell’Informazione: è così che un commando efficientissimo penetra armi alla mano nell’abitazione del pacifico signor Buttle, lo impacchetta, lo porta via, e fa firmare la ricevuta alla moglie: il tutto davanti ai bambini e forando il pavimento dell’inquilina del piano di sopra con una fresa efficientissima per entrare nell’appartamento di sorpresa. Peccato che, come ormai sappiamo, il ricercato fosse il signor Tuttle, e non il signor Buttle: Tuttle continuerà la sua opera clandestina, il povero Buttle farà una brutta fine.

“Noi non facciamo mai errori”, dicono in continuazione al Ministero dell’Informazione; e se capita un errore, è facile rifilarlo all’ufficio vicino: accadrà anche con il povero Buttle.
Tuttle è interpretato da Robert De Niro: una parte breve ma molto spettacolare, da vero super eroe. E’ un idraulico efficientissimo, che si muove tra i tetti e le case su cavi manovrati come se fosse Spiderman, o Tarzan. Al minuto 25, infatti, nell’appartamento di Lowry salta l’impianto di condizionamento, e si rischia di morire dal caldo; il nostro protagonista telefona alla Central Service ma gli risponde una segreteria telefonica da call center (guarda caso! siamo in piena attualità, anche dopo un quarto di secolo va proprio così dappertutto, questa sì che è una profezia avverata). La telefonata è intercettata dal misterioso Harry Tuttle che gli ripara seduta stante il guasto.
- Soltanto il Central Service potrebbe toccare i tubi.
- Lei vuol dire che è una riparazione illegale?
Tuttle non chiede soldi per la riparazione, dice che lo fa perché gli piace, per spirito di servizio. Mentre lavora, canticchia “Brazil”.
- Presto non si potrà più aprire un rubinetto senza chiedere l’autorizzazione a qualcuno.Bisognerà sostituire un pezzo rotto con uno illegale. Tuttle chiede se Lowry è d’accordo, l’altro gli dice di sì, basta che funzioni tutto. Poi suonano alla porta: sono due idraulici veri, gli unici autorizzati, quelli della Central Service (il capo è Bob Hoskins); Lowry li mette alla porta terrorizzandoli con la richiesta del modulo 27b/6, ma torneranno.
Finito il lavoro, Tuttle se ne va via volando attaccato a un cavo, come un supereroe.
(continua)

domenica 18 luglio 2010

Brazil ( III )

Brazil (1985) Regia di Terry Gilliam Scritto da Terry Gilliam, Tom Stoppard, Charles McKeown. Fotografia di Roger Pratt. Musiche originali di Michael Kamen; “Brazil” di Ary Barroso, eseguita da Geoff & Maria Muldaur. Con Jonathan Pryce (Sam Lowry), Kim Greist (Jill Layton), Robert De Niro (Archibald "Harry" Tuttle) , Ian Holm (il capufficio), Michael Palin (Jack Lint), Katherine Helmond (la madre di Sam), Bob Hoskins (l’idraulico), Ian Richardson (Mr. Warren), Peter Vaughan (Mr. Helpmann), Jim Broadbent (Dr. Jaffe), Charles McKeown (Harry Lime), Barbara Hicks (Mrs. Terrain), Diana Martin (il Telegramma Cantato), e altri. Durata 142’
Nonostante il suo pessimismo di fondo, e l’atmosfera cupa, Brazil è un film divertente e pieno di gags, spesso virato al grottesco; fa pensare ma si passano due ore piacevoli. Il momento più terrificante è nel finale, quando il camion passa su un ponte, e si vede finalmente il paesaggio devastato, accuratamente nascosto alla vista da una serie di enormi pannelli pubblicitari. Così è ridotto il mondo, ma è meglio che non si sappia troppo in giro.

La fonte più che dichiarata è “1984” di George Orwell, ed era l’anno giusto, ma uscì prima un altro film “serio” – e un po’ noioso: “Orwell 1984”, regia di Michael Radford. “Brazil”, il titolo nuovo che fu scelto, è la canzone che accompagna i sogni di Sam Lowry, il protagonista del film: che si vede mentre vola sopra le nuvole come un vero supereroe, sconfiggendo terribili nemici (il più spaventoso, un enorme samurai) e guadagnando l’amore di una bellissima ragazza.
La ragazza la troverà veramente: ha i capelli corti, non come la bionda dei suoi sogni, ma per il resto è identica. Fa la camionista e abita sopra i Buttle: è lì che l’ha conosciuta. All’inzio la ragazza non vuole saperne di lui, poi le cose cambieranno – ma questo è un film che non si può raccontare, va proprio visto.
“Brazil” deve qualcosa a “Blade runner” (1981), sempre per la parte visiva; da Brazil hanno attinto a piene mani, soprattutto per la parte visiva, i fratelli Wachowski con “Matrix” e anche l’ultimo Spielberg (“A.I.”, “Minority report”), i videogames (Supermario, con tutti questi tubi e con Bob Hoskins a fare il Super idraulico; e l’archivio dove lavora Lowry, che sembra una sala da videogiochi), ma anche “Truman show” (1997, regia di Peter Weir).
Sono tutti nomi e titoli che più o meno direttamente rimandano a Philip K. Dick, uno degli scrittori più grandi e visionari degli ultimi cinquant’anni, e che sarebbe un peccato relegare nella fantascienza. E’ soprattutto la mescolanza degli anni ‘30 e ‘40 con i tempi attuali ad essere tipica e caratteristica di Philip K. Dick, soprattutto in un romanzo come “Ubik”; ma va anche detto che Dick è contemporaneo di questo film, e non molto più vecchio di Gilliam e dei suoi collaboratori.
Leggendo “Ubik” ho ritrovato la stessa mescolanza di spinotti telefonici anni ‘40 e computer velocissimi, burocrazia spaventosa e metodi spicci, posta pneumatica, ciclostile macchina per scrivere e computer fusi insieme, cups of tea, manopole in bachelite, cavi e tubi ovunque (come a casa mia, del resto), maschere No e samurai, armature come nel “Lancillotto” di Bresson, e tanto altro ancora.

Ci sono citazioni esplicite divertenti da individuare: la tv che trasmette Casablanca, i fratelli Marx e i vecchi western; molto Orson Welles, nelle soluzioni visive e altrove (il vicino d’ufficio di Sam dopo la promozione si chiama Lime, Harry Lime). Lowry abita nella “Torre Shangri La”, e il suo nome viene da Malcolm Lowry, lo scrittore di “Sotto il vulcano”. Ma c’è anche Kubrick: soprattutto nel finale, “2001” e “Shining”, e ovviamente Metropolis di Fritz Lang, e la scalinata di “La corazzata Potiomkin”, con l’inevitabile carrozzina, sempre nel finale. Ma anche Ingmar Bergman nel 1968, direi “La vergogna”, per quei carri armati misteriosi.
Davanti a questa profusione di fantasia e di stile viene spontaneo un pensiero: che peccato che Gilliam si sia normalizzato, subito dopo “Brazil”... Ha continuato a fare film “strani”, ma stando ben dentro le regole del cinema “normale”; l’unico paragonabile a “Brazil” è “Paura e delirio a Las Vegas”, del 1998, con Johnny Depp: un film che però non è perfettamente riuscito.
Va detto ancora che uno degli autori del film è Tom Stoppard, un nome molto importante del teatro inglese; e che l’impressione di vedere un adattamento del “Castello” di Kafka, con la sua miscela di tragico e ridicolo, è a tratti molto forte.

“Brazil” è un film molto ricco, dove è difficile stare dietro alla quantità di invenzioni e di citazioni; letteralmente, non si sa mai cosa succederà nella scena successiva. Meritano almeno un cenno frasi come “La verità vi rende liberi” (very Orwell!), gags come quella del telegramma cantato (che si chiama Diana Martin: non so niente di lei, qui ha una parte piccolissima ma è favolosa), e storie secondarie come quella sulla chirurgia plastica, alla quale si sottopone la madre di Lowry (una donna molto influente) e le sue amiche, con sequenze grottesche che anticipano molte delle nostra trasmissioni tv di oggi, Lante della Rovere, Ripe di Meana, Mamme Scicolone, nuore del Buce e vedove d'Almirante in quantità industriale.
All’inizio del film Lowry non vuole fare carriera, gli piace stare all’archivio (dipartimento del Ministero dell’Informazione, non un gran posto) dove il suo capo (Ian Holm coi baffetti, una caratterizzazione da grandissimo attore) lo porta in palmo di mano e dove è molto libero; ma la mamma (molto influente) lo spinge e può farlo promuovere anche contro la sua volontà.
- Avrai pure delle ambizioni, dei sogni nascosti.
- No! No, non ho nessun sogno.
Ma noi sappiamo che non è vero. E quando al minuto 40 Lowry va dalla vedova di Buttle (per portarle di persona l’assegno, perché lei non ha il conto corrente) conosce Jill Layton, la ragazza dei suoi sogni, che abita sopra i Buttle. A questo punto, ricorre a tutto pur di avere la promozione che gli consentirà di avere notizie sulla ragazza; veniamo a sapere che il padre di Lowry era molto amico di Helpmann, il viceministro che avevamo visto in tv all’inizio del film, e che da qui in avanti avrà una parte fondamentale nel film.
Il finale è visionario e indimenticabile, con citazioni anche da Capra (la scena di Tuttle che scompare avvolto dai giornali, girata in perfetto stile “It’s a wonderful life” o “John Doe”), echi di Lovecraft (creature striscianti e mostruose), rimorsi per la morte di Buttle, citazioni dal noir anni 40.

Ma a me piace l’idea di chiudere il discorso con quest’immagine ispirata al film di Gilliam, la Electriclerk, che è "una fusione tra un Mac del 1988 con una macchina per scrivere Underwood del 1923” della quale troverete altre notizie sul sito http://blog.makezine.com/ : il suo inventore Andrew Leman dice che funziona benissimo.