Roma (1972) Regia: Federico Fellini - Soggetto e sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno. Musica: Nino Rota, diretta da Carlo Savina - Ideazione scenografica: Federico Fellini - Scenografia e costumi: Danilo Donati . Coreografia: Gino Landi - Affreschi e ritratti: Rinaldo Antonello, Giuliano Geleng . Con: Peter Gonzales (Fellini a 18 anni), Fiona Florence (Dolores), Marne Maitland (guida alle catacombe “underground guide”), Britta Barnes, Pia De Doses (la principessa), Renato Giovannoli (card. Ottaviani), Elisa Mainardi, Paule Rout, Paola Natale, Marcelle Ginette Bron, Mario Del Vago, Alfredo Adami, Stefano Mayore, Gudrun Mardou Khiess, Giovanni Serboli, Angela De Leo, Libero Frissi, Dante Cleri, Mimmo Poli, Galliano Sbarra (presentatore avanspettacolo), Alvaro Vitali (si esibisce al Teatro Jovinelli), Norma Giacchero, Federico Fellini. Sono stati intervistati: Marcello Mastroianni, Anna Magnani, Gore Vidal, John Francis Lane, Alberto Sordi. Durata: 119'
La troupe che sta girando il film sta per scendere nel sottosuolo, negli scavi per la metropolitana che era allora in costruzione. A fare da guida c’è un uomo, che di solito viene presentato come “guida alle catacombe”, e che su Imdb è indicato come “underground guide”: a tutti gli effetti, lo si direbbe piuttosto un ingegnere capocantiere, e così lo chiamerò d’ora in avanti. D’altra parte, il suo rapporto con gli operai parla chiaro; e che sia lui a fare da guida alla troupe è più che naturale. L’ingegnere è piccolo di statura, vestito con eleganza ma poco appariscente, gentile e distaccato, competente e disponibile; si vede subito che gli operai lo trattano con rispetto e anche con affetto, ma il suo è un volto senza entusiasmo.
Mi piace molto che Fellini abbia colto, sul volto di quest’uomo, quest’espressione di stanchezza e disincanto. E’ un’espressione che conosco, e che ho imparato a riconoscere come segno distintivo. E’ l’espressione dei migliori, di chi sa veramente cosa significa il lavoro, e sa cosa significa la responsabilità: a tutti i livelli c’erano, e forse ci sono ancora, persone così, sia tra i manovali che tra i dirigenti. Quello che Fellini ci mette davanti è il volto di un uomo che è stato in qualche modo segnato da ciò che ha visto e vissuto, che conosce bene il mestiere ma anche i suoi pericoli, e sa cos’è la stanchezza, anche quella fisica, sua e degli operai. E che sa bene che il lavoro onesto (serio ed onesto) non è quasi mai ripagato nella giusta maniera. Questo ingegnere non è un carrierista, ha fatto il suo lavoro perché gli piaceva farlo, e si è sempre comportato con correttezza. Non a caso, gli operai lo rispettano e lo amano: cosa che non capita quasi mai ai capi, soprattutto nei cantieri e sugli impianti.
Questo volto è un’espressione di profonda amarezza, ma anche e soprattutto di finezza personale e di vera civiltà. Mi trovo a pensare che al mondo servirebbero più persone come questo ingegnere, e che invece queste persone vengono sempre messe ai margini. A comandare, a decidere, finisce sempre qualcun altro: la faccia diverse da questa, di una sicurezza che sconfina nell’arroganza, e il più delle volte acclamato come decisionista – poi passeranno gli altri a raccogliere le macerie e a riparare i danni. E’ solo nei periodi di pace, subito dopo i danni causati dai capi “che sanno comandare” che si apre qualche spazio di comando per le persone come questo Ingegnere; di solito sono periodi in cui la gente vive bene e in tranquillità, periodi di civilità e di crescita sociale ed economica, ma la fascinazione per i capi “che sanno comandare” è sempre in agguato, e anche questa è una storia ben nota.
Per contrasto, è utile osservare la gioia quasi infantile, l’entusiasmo con il quale la troupe – l’aiuto regista, la bionda americana, l’operatore - si mettono il casco e salgono nel carrello che li porterà sotto terra, sotto Roma: per loro è quasi una gita scolastica.
In “Roma” (1972), Federico Fellini gira una delle più belle scene di lavoro che io mi ricordi. E’ una piccola sorpresa, perché questa scena non me la ricordavo, non in questo modo. In effetti, è facile confonderla nel ricordo con una scena simile che si trova in “Block notes di un regista”, girato qualche anno prima, alla quale somiglia molto ma che è più umoristica e surreale: nel tunnel della metropolitana appaiono antichi romani, le targhe delle stazioni sono scritte in marmo e in latino... Qui invece è tutto molto verosimile, al limite del documentario, e non sono riuscito a capire se la scena sia stata girata sui luoghi veri (cioè negli scavi per la metropolitana) o se sia stata ricostruita in studio. Sicuramente in studio è stata girata la scena successiva, quella degli affreschi, una delle più celebrate e famose di tutto il cinema di Fellini; e il fatto che non si riesca a distinguere la cesura tra le due sequenze è davvero il complimento migliore che si possa fare a scenografi e maestranze che hanno lavorato al film.
Dicevo inaspettato perché “Roma” è anche il film dove, pochi minuti prima, una giovane donna sale sulla piattaforma dove c’è anche l’operatore, viene sollevata in alto da una gru e grida di sotto che è bellissimo, che si vede tutta la città e si vede anche la gente che lavora. E di sotto si commenta con la famosa battuta, in romanesco purissimo: “Ahò, chissà che cosa stà a guardà, quella. Se vede gente che lavora, allora di sicuro non è Roma.”
Un ottimo preludio a questa sequenza ctonia, molto lunga, oscura, è la grande zanna di mammut che compare al suo inizio. E’ un calarsi nell’oltretomba, non diversamente da come fecero Ulisse ed Enea; e preludio è anche alla sequenza della scoperta degli affreschi.
Può stupire che l’ingegnere non porti il casco, che lo tenga in mano come se fosse un cappello qualsiasi, mentre tutti lo tengono ben saldo in testa. E’ vero che trent’anni fa le regole di sicurezza non erano così ferree come oggi, ma sta anche ad indicare – forse una licenza poetica, sicuramente un’indicazione di lettura – un mondo che non era ancora irreggimentato, non militarizzato: un mondo più libero, in definitiva. Fateci caso: a molti piace portare elmetti, uniformi, anfibi, guanti; adesso anche le pettorine per le “ronde”.
Portare addosso i mezzi di sicurezza è scomodo, pesante, antipatico; le persone serie li portano quando è indispensabile, e poi se ne liberano volentieri non appena finito il pericolo. Ma spesso c’è dietro un piacere infantile, ci si sente più grandi e più fieri, più rispettati, più importanti; e anche più servi, a dirla tutta, perché sono i servitori quelli che portano divise e livree che li rendono tutti uguali.
Il nostro ingegnere sembra volerci dire che la forza vera sta all’interno, dentro di noi; soprattutto in un viaggio come questo che ci porta in luoghi oscuri.
Una riflessione simile, ma a Milano, l’aveva già fatta Dino Buzzati con una personalissima rilettura del mito di Orfeo (“Poema a fumetti”, ed. Mondadori): forse la porta dell’inferno si nasconde nei pressi della metropolitana; forse scavando la si può trovare e penetrare negli inferi. Una fantasia, più che una vera e propria riflessione; una di quelle immagini millenarie che abitano da sempre il nostro inconscio e i nostri sogni. Questo ingegnere è anche il nostro Virgilio, nel viaggio nell’Oltretomba? Può darsi, è una lettura accettabile soprattutto se si tiene conto della scena seguente, che è una delle sequenze magiche e indimenticabili di Fellini, una di quelle a cui il regista riminese deve la sua fama mondiale: la scoperta degli affreschi e del Tempio ipogeo, e la loro scomparsa sotto gli occhi dei presenti impotenti a preservarli.
Ma di questa sequenza, davvero fuori dal comune, bisognerà parlare in un altro post.
L’attore che interpreta l’Ingegnere si chiama Marne Maitland: per me era un completo sconosciuto, ma cercando notizie su Imdb ho trovato la lista dei film che ha interpretato, e sono un’infinità (una lista davvero impressionante!). Maitland è nato in India nel 1919, probabilmente era inglese, ma di più non saprei dire.
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