sabato 28 dicembre 2019

Il giardino di mezzanotte


 
Il giardino di mezzanotte (Tom's midnight garden, 1999). Regia di Willard Carroll. Da un romanzo di Philippa Pearce. Sceneggiatura di Willard Carroll. Fotografia di Gavin Finney. Musiche di Debbie Wiseman. Interpreti: Anthony Way (Tom da ragazzo), Nigel Le Vaillant (Tom adulto), Joan Plowright (Mrs. Bartholomew), Florence Hoath (Hatty bambina), Caroline Carver (Hatty ragazza), Greta Scacchi (zia di Tom), e molti altri. Durata: 1h40' circa

Una bambina ha un amico immaginario, o forse il contrario: come vi piace, insomma. Ci sono poi una pendola magica e una porta che si apre, ma solo a mezzanotte, su un giardino incantato ma che è realmente esistito tanti anni fa. Ad aprirla di giorno, quella porta, si rischia una grande delusione: un piccolo cortile, oggetti abbandonati, galline, un meccanico al lavoro su una vecchia automobile.

 
"Il giardino di mezzanotte" è un romanzo di Philippa Pearce (inglese, 1920-2006) che mi dispiace di non aver mai letto (l'ho cercato ma non l'ho trovato); il film che ne è stato tratto nel 1999 è piuttosto bello, non un capolavoro ma piace per la chiarezza della narrazione e per la simpatia dei giovani attori e attrici. Tra gli interpreti ci sono due star del cinema inglese, Greta Scacchi e Joan Plowright; la Scacchi è molto sacrificata nel ruolo della zia del protagonista, Joan Plowright ripete un po' il suo cliché di quegli anni (l'anziana signora benevola) ma come sempre ispira simpatia. Un punto debole del film sono i costumi, soprattutto quelli fatti indossare a Greta Scacchi; belle invece le scenografie e molto ben trovato il giardino vero e gli altri luoghi scelti per il film, così come gli arredi.

 
La storia inizia con due fratelli nell'Inghilterra di inizio '900 (l'anno preciso non viene indicato); il minore si prende una malattia infettiva e deve stare in isolamento, così i genitori pensano bene di mandare il maggiore dagli zii, per la durata della malattia. Il ragazzo non ne è affatto contento, ma il palazzo dove abita la zia con suo marito si rivelerà pieno di sorprese, forse fatato. Aprendo una porta, a mezzanotte quando suona una vecchia pendola, nell'atrio a piano terra, si troverà infatti in un giardino incantato, che di giorno scompare. Lo racconta, ma non gli credono: i ragazzi di quell'età hanno una gran fantasia, commenta lo zio. Ma nel giardino di mezzanotte ci sono anche delle persone: un giardiniere, e soprattutto una bambina un po' più piccola di lui. La bambina è l'unica a vedere il ragazzo, e qui smetto di raccontare cosa succede perché è pur vero che si tratta di un libro per ragazzi (e ragazze) ma non si svela mai il finale di storie come questa.

Il regista inglese Willard Carroll, nato nel 1955, ha all'attivo altri tre film come regista ma parecchi come sceneggiatore; è sua anche la sceneggiatura di questo film. Le musiche di Debbie Wiseman sono piacevoli e molto adatte alla narrazione. Il soggetto, dal romanzo di Philippa Pearce, ha qualcosa in comune con "Il giardino segreto" di Ivy Compton Burnett, ma qui prevale l'elemento magico e il vero protagonista è il Tempo.
"Il giardino di mezzanotte" è stato realizzato in precedenza dalla tv inglese per un telefilm in sei puntate del 1989, con altri interpreti; non so se sia mai arrivato da noi ma è facile pensare che abbia avuto successo e che abbia spinto alla realizzazione del film dieci anni dopo.





lunedì 23 dicembre 2019

Prigionieri del passato (Random Harvest)


 
Prigionieri del passato (Random harvest, 1942). Regia di Mervyn Le Roy. Tratto dal romanzo di James Hilton. Sceneggiatura di Claudine West, George Froescher, Arthur Wimperis. Fotografia di Joseph Ruttenberg. Musiche di Herbert Stothart. Interpreti: Ronald Colman, Greer Garson,Philip Dorn, Susan Peters, Henry Travers, Reginald Owen, e molti altri. Durata: 122 minuti
 
James Hilton è l'autore di uno dei romanzi più famosi del Novecento, "Lost Horizon", che diffuse e rese popolare il mito di Shangri-La, la terra misteriosa perduta tra le cime dell'Himalaya dove regna l'armonia e dove non esistono malattie, forse nemmeno la morte. Da "Lost Horizon" fu tratto un ottimo film, con regia di Frank Capra: il titolo italiano è "Orizzonte perduto" (qui). Un altro libro famoso di James Hilton è "Goodbye Mr.Chips", che racconta una storia più normale: il percorso di vita di un professore in un college inglese. Il film che ne fu tratto, diretto da Sam Wood, non è però memorabile. Un terzo romanzo, "Random Harvest" ("Prigionieri del passato" è il titolo italiano) è all'origine di questo film di Mervyn Le Roy.

 
Il soggetto, notevole, parla dei reduci della guerra 1914-1918, molti dei quali subirono traumi spaventosi non solo a livello fisico ma anche e soprattutto mentale; la descrizione di cosa succede loro occupa le prime pagine del libro, e da questo punto di vista "Random Harvest" va a collocarsi con altri libri più famosi, come quelli di Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale), di Dalton Trumbo (E Johnny prese il fucile) o di Emilio Lussu (Un anno sull'altipiano). Un romanzo pacifista, insomma, che si differenzia dagli altri libri citati perché nei capitoli successivi la storia prende percorsi più convenzionali, salvo poi capovolgere tutto nel finale. Lo shock della perdita di una grande quantità di giovani è rimasto per decenni nella memoria degli inglesi, le classi scolastiche vuote alla fine della guerra sono state raccontate in diversi libri e film; testimone diretto ne fu anche Benjamin Britten, che era troppo giovane per partecipare alla guerra ma fu ben presente e attento negli anni immediatamente successivi.
Protagonista è Mr. Rainier, membro di una famiglia di industriali ed erede di un patrimonio importante, che viene ritrovato dopo mesi e mesi dalla sua famiglia: gravemente ferito, si è ristabilito fisicamente ma ha perso la memoria ed è ancora ricoverato in ospedale perché non era in grado di dire il suo nome. Tornato a casa, gradatamente Rainier riprende il suo posto nella vita normale e anche il suo posto nella direzione dell'azienda; tutto sembra superato, sembrano aprirsi anche nuovi affetti, ma c'è ancora un vuoto da colmare nella sua memoria.

 
Il film del 1942 diretto da Mervyn Le Roy è una onesta versione del romanzo di James Hilton, che purtroppo non riesce a rendere la profondità dell'originale, se non a tratti. Come capita sempre con i libri molto complessi ci sono tagli e modifiche, e purtroppo qui si tagliano o si riducono a pochi istanti anche pagine fondamentali. Tra i personaggi tagliati, spiace soprattutto per il vicario Blampied, qui ridotto a poco più di un'apparizione ma che nel libro ha alcune delle pagine più belle. La sceneggiatura è comunque fatta con intelligenza, e chiarisce perfino qualche punto oscuro nella trama complessa della vicenda. La regia è pulita ed essenziale, con un bel ritmo. Greer Garson è perfetta per il ruolo, anche se la sua caricatura di scozzese in teatro è un po' così. Ronald Colman è un po' troppo vecchio per alcuni momenti del film, ma è comunque un ottimo attore e nel finale commuove davvero. Nel libro ci sono pagine di alto livello, l'argomento è di quelli importanti ed è un peccato che Hilton sia stato rimosso dal nostro immaginario; io ho trovato i suoi libri solo sulle bancarelle, in vecchie edizioni dei primi anni '60, e non so dire se i suoi libri siano stati ristampati di recente.
Qualche nota biografica: James Hilton è inglese, 1900-1954; dagli anni '30 lavora a Hollywood come sceneggiatore. "Lost Horizon" esce nel 1933, subito dopo ne viene tratto un film di grande successo diretto da Frank Capra; "Goodbye Mr Chips" esce nel 1938, poi ne verrà tratto un film diretto da Sam Wood. "Random Harvest" (Prigionieri del passato) è del 1941, l'anno dopo esce il film di Mervyn Le Roy. Di James Hilton è anche la sceneggiatura per "Mrs. Miniver" del 1942, regia di William Wyler.

 
Alcuni estratti dal libro, che mancano nel film: il titolo originale è “Random Harvest” dove harvest è la mietitura (il raccolto), e random significa “a caso, casuale”:
Nel libro, il narratore incontra Rainier quando ancora non ricorda i tre anni passati dalla trincea al "risveglio" a Liverpool:
- Dunne dice che casi simili sono dovuti a sogni ricordati a metà. Dovrebbe leggere il suo libro "Un esperimento nel tempo"; dice (...) che i sogni predicono realmente il futuro, però quando infine si avverano noi li abbiamo dimenticati, tranne che per quel guizzo irritante della memoria (...)
James Hilton , Random Harvest, pagina 10 ed.Garzanti 1965
 

Siamo nel 1939: Mr. Blampied è un sacerdote inglese di campagna, che diventa amico di Rainieri; e la Lega delle Nazioni è l’antenata dell’ONU.
« Biffer se ne infischia », era un modo inadeguato di esprimere l'entusiasmo col quale egli aveva accettato la proposta di Paola. L'ex pugile era in realtà felice di contribuire a mettere nel sacco le autorità, il maligno potere che da quando era scoppiata la guerra continuava a ostacolare in tutti i modi la sua amministrazione del « Barbagianni ». Gioviale, obeso e un po' torpido d'ingegno dopo le centinaia di collisioni che il suo cranio aveva dovuto sopportare negli anni passati, Biffer rimaneva un prodotto di un'educazione antiquata che gli aveva insegnato a leggere con difficoltà le parole stampate e a crederle con facilità; così che egli aveva più fiducia nelle cose che leggeva meno difficilmente : per esempio, la cronaca sportiva dei quotidiani, le predizioni di « Old Moore » e gli « articoli poderosi » dei giornalisti più banali del momento. Aveva alcuni odi veementi (per esempio, per la burocrazia, per le interferenze del governo e per l'opinione pubblica) e alcuni affetti non meno veementi tra l'altro per Horatio Bottomley, per « il buon vecchio » (ossia il defunto Edoardo VII) e per Oxford durante le regate. S'inorgogliva dell'affermazione diffusa che « non c'è in tutta Londra un locale più signorile del Barbagianni, e il fatto che il «Barbagianni» avesse la ventura di ospitare una vittima delle cose da lui più odiate, aggiungeva sapore a un naturale impulso generoso. (...)
(James Hilton, Prigionieri del passato, pag.193 ed. Garzanti 1965)
 
 
« Segua quella visione, » disse una volta Blampied. « La segua dovunque ne sarà guidato. Ci rifletta. Ne scriva. La predichi, le direi, se questa parola non fosse stata profanata da tanti miei confratelli. »
« Non potrei predicare, sa? Dopo quell'unica volta non mi presenterò mai più al pubblico. »
« Ma non occorre un pubblico per predicare. Occorre solo quello che lei ha già, una fede. »
« La sua è la stessa fede? »
« Lei ha la sua visione dell'Inghilterra, io ho la mia del mondo, ma la sua Inghilterra si adatterà al mio mondo. » Aggiunse, dopo una pausa: « Le sembro arrogante. Non a torto forse. Ma non dobbiamo aver paura di una segreta speranza. Dopo tutto siamo le spie di Dio e il nostro compito è di esplorare un territorio rubatoci dal nemico quando la fede era perduta. » Si toccò il colletto con gli occhi : brillanti di malizia. « Non le parlo così, sa, per via di questo. La religione è solo una delle cose che possono morire senza fede. Prendiamone un'altra, qualcosa che secondo lei io possa discutere con maggiore imparzialità : la Lega delle Nazioni, per esempio. La Lega soffre ora della più mortale delle moderne malattie, l'approvazione popolare senza la fede privata; morrà perchè esigeva una crociata e noi le demmo invece una campagna sui giornali, perchè merita la nostra passione e noi la sommergiamo con voti di fiducia e atti d'indifferenza. Sarebbe uscita viva dall'anima di un santo; ma una clausola di un trattato poteva mettere solo al mondo un nato morto. Avrebbero dovuto predicarla finchè non ne fossimo tutti infiammati; l'hanno invece esaltata e gonfiata finchè oramai ne siano quasi tutti stufi. Ho perfino pensato qualche volta che avremmo dovuto darle un rito, un gesto da farsi ogni volta che se ne citava il nome, il Segno della Croce per i fedeli mettiamo, o, per gl'infedeli, il fiammifero che si spegne dopo avere acceso due sigarette. » Come ricordandosene a quel punto tirò fuori la pipa e cominciò a riempirla. « Questo è il momento giusto per dirvi come sarei felice che rimaneste con me sempre - voi due - se qui siete felici, si capisce. »
« Siamo molto felici. Ma io devo trovare il modo di guadagnarmi la vita. »
« La vita è più importante che il modo di guadagnarsela. Una quantità di gente che si guadagna la vita non vive, ma muore lentamente. Non la imiti mai. Sono i becchini della nostra civiltà, gli uomini prudenti, quelli che cercano i compromessi, i fabbricatori di denaro, gl'impiccioni. La politica è piena di gente così, e anche gli affari, e anche la Chiesa. Sono popolari, hanno successo, alcuni di essi lavorano duro, altri se la prendono comoda, ma sono tutti dei gran parolai. Non ci sono mai stati nella storia del mondo dei becchini così affascinanti, e il loro fascino viene in gran parte dal fatto che essi non sanno chi sono, come ignorano quello che siamo noi. Ci definiscono dei matti, degli stravaganti, dei relitti della società, dei pazzi innocui che non è possibile comprare col denaro o blandire coi complimenti. Ma verrà forse il giorno in cui noi, gli uomini pericolosi, saremo uccisi o fatti re, perchè verrà forse anche un tempo in cui non basterà amare l'Inghilterra come uno stanco uomo d’affari ama il suo sonnellino dopo i pasti. (...)»
(James Hilton, Prigionieri del passato, pag.257 ed. Garzanti 1965)
 
 

venerdì 20 dicembre 2019

Il Faust di René Clair


 
La bellezza del diavolo (La beauté du diable, 1949) Regia di René Clair. Liberamente tratto dal Faust di Goethe. Sceneggiatura di René Clair e Armand Salacrou. Fotografia di Michel Kelber e Giulio Venanzo. Musiche di Roman Vlad. Interpreti: Gérard Philipe, Michel Simon, Nicole Besnard (Margherita), Simone Valère (principessa), Carlo Ninchi (il principe), Paolo Stoppa (il procuratore). Raymond Cordy (Antonio), Gaston Modot (capo degli zingari), Tullio Carminati (ciambellano) Durata: 95 minuti

"La beauté du diable", girato nel 1949 da René Clair, è una versione del Faust di Goethe che ha il suo punto di maggior interesse nella presenza di due dei più grandi attori nella storia del cinema: Gérard Philipe e Michel Simon. Gérard Philipe fu attore di teatro prima che di cinema, ebbe una carriera folgorante ma durata troppo poco: Philipe fu stroncato da un tumore nel 1959, a trentasei anni. Michel Simon, svizzero di Ginevra, è una pietra miliare nella storia del cinema, da "L'Atalante" di Jean Vigo a "Boudu salvato dalle acque" di Jean Renoir passando per decine di film dove è impossibile non notare la sua presenza. Nel film di René Clair, Michel Simon e Gérard Philipe si scambiano i ruoli: all'inizio lo scienziato Faust è impersonato da Michel Simon, e il diavolo è Gérard Philipe, giovane e bello. Dopo aver firmato il patto, Faust entrerà nel corpo del giovane (Gérard Philipe) e il diavolo rimarrà sulla scena ma sotto le sembianze di Michel Simon.

 
Si tratta di una riscrittura del Faust di Goethe, con molte libertà rispetto all'originale, dove Margherita è una giovane zingara, manca Valentino, e non c'è Elena di Troia sostituita da una principessa senza nome. La giovane zingara salverà Faust nel finale, gettando dalla finestra la pergamena del patto col diavolo firmata col nome vero, Faust: dato che ora quel nome corrisponde alle sembianze prese da Mefistofele, il popolo si solleverà contro Mefistofele stesso, a questo punto abbandonato anche da Lucifero, perché ha fallito. Così Faust, rimasto giovane nelle sembianze, sarà libero, libero anche dal desiderio della ricchezza e del potere, e se ne andrà povero ma felice insieme alla carovana degli zingari. L'oro prodotto artificialmente è tornato sabbia; nel film infatti l'alchimista Faust era a buon punto nel trasformare la materia vile in oro, e sarà Mefistofele a portarlo al compimento dell'opera, anche se confesserà di aver bisogno dello scienziato Faust: "tu sei più bravo di me". Mefistofele mostra a Faust il suo futuro, dove seduce la bella principessa e poi farà uccidere il principe da Mefistofele. Alla fine della visione, Faust si stancherà anche della bella principessa; ed è questo l'errore di Mefistofele, il giovane Enrico (cioè Faust stesso) rifiuterà questo destino e da qui inizia la sua redenzione.
"La bellezza del diavolo" è uno dei capolavori nascosti, completamente scomparsi dalla programmazione televisiva e difficilmente reperibile anche su dvd: una volta la si chiamava censura di mercato, oggi potremmo dire con tutta tranquillità che si tratta di ignoranza e stupidità allo stato puro. Abbiamo reti tv che trasmettono 24 ore su 24, ogni giorno dell'anno: trovare un po' di spazio per i capolavori del cinema non sarebbe difficile e invece succede che perfino i film di Clair o di Lubitsch vengano ignorati. Un controsenso, ma così va e sappiamo anche di chi sono le colpe.
Quando il film uscì, alla fine degli anni '40, René Clair era considerato come regista di puro intrattenimento e si parlò molto di questo suo passaggio a un film "impegnato", tratto addirittura dal capolavoro di Goethe; oggi queste polemiche hanno un valore soltanto storico, come spettatori odierni possiamo anche ignorarle e ricominciare da capo a esaminare la filmografia del grande regista francese, dagli esordi con "Entr'acte" e il surrealismo passando per le piacevolissime commedie degli anni '30 (Sotto i tetti di Parigi, Il milione) e per i grandi successi di Hollywood (Ho sposato una strega, Avvenne domani, Il fantasma galante). A ben guardare, già con "À nous la liberté" (1931) Clair aveva sfiorato temi di grande impegno, anticipando il Chaplin di "Tempi moderni".

 
"La bellezza del diavolo", al di là di tutti questi discorsi, rimane comunque un film molto bello e molto ben fatto, e non riesco a capire come mai wikipedia riprenda soltanto, nella rassegna critica, alcune righe negative di Giovanna Grignaffini sul "Castoro Cinema" dedicato a René Clair, peraltro un libro utile e ben fatto. Iniziava così la sua recensione la Grignaffini, a pagina 108 del libro citato: «Il difetto maggiore di "La bellezza del diavolo" è quello di essersi lasciato imprigionare in una tale rete di rimandi, riferimenti filosofici e meditazioni trascendentali che ha finito per diventare e un vero e proprio filtro opaco rispetto alla struttura reale del film. (...) »
Una volta detto che i rimandi filosofici sono sempre i benvenuti, Giovanna Grignaffini riporta quasi soltanto pareri e dichiarazioni del momento in cui uscì il film, e quindi fa un lodevole lavoro storico; ma oggi si possono anche lasciare da parte quei pareri e quelle dichiarazioni, ormai molto datati, a partire da "il primo film di Clair esplicitamente dotato di un messaggio" che aveva senso nel 1949 e oggi non ne ha più, perché le nuove generazioni sono ormai completamente ignare di ciò che aveva significato René Clair ai suoi tempi. Più avanti, la Grignaffini fa notare il clima "da operetta" della corte del Re, da "opera buffa" con fondali di cartapesta; tutto questo mi fa che ricordare che il cinema di Clair ci riporta agli inizi del cinema. René Clair fu contemporaneo di Méliès e se ne ricordava ancora; e io direi che questo è un suo pregio, le capacità artigianali e la grande fantasia, nonché la libertà lasciata allo spettatore di immaginarsi qualcosa al di là dell'immagine mostrata hanno ancora molto senso anche nell'era dell'immagine computerizzata.

 
Giovanna Grignaffini riporta anche la battuta di Stendhal per l'uscita della prima edizione del Faust di Goethe, centratissima e micidiale: "non è necessario convocare le potenze celesti e infernali per raccontarci l'avventura di uno studente che mette incinta una serva", citazione fatta dallo stesso Clair come riportato dalla Grignaffini. Un po' drastico (nel mito di Faust, precedente a Goethe, c'è ovviamente molto di più) ma che riesce comunque a far sorridere. Dalle pagine di Giovanna Grignaffini rubo anche questa definizione: la "macchina fantastica per definizione che è la presenza in scena di Michel Simon". Michel Simon rimane un attore indimenticabile, alla pari con Gérard Philipe anche se in modo diverso.
 
Il film fu girato a Roma; oltre a Gérard Philipe e Michel Simon ci sono Nicole Besnard (Margherita), Simone Valère (la principessa) e molti attori italiani, come Carlo Ninchi (il principe) e Paolo Stoppa (il procuratore che indaga su Faust). Le musiche sono di Roman Vlad, anch'egli italiano: di origini rumene, fu anche direttore artistico alla Scala e curò programmi di divulgazione musicale alla Rai. Clair si muove con grazia, come sempre, anche nel senso di una facilità narrativa e di immagine che è davvero un dono del cielo, una grazia. Spero che nel frattempo qualcuno abbia restaurato le sue pellicole (molte ne avrebbero bisogno) e che presto ci sia una sua retrospettiva completa. Nel caso avvenisse, buon divertimento a tutti.




mercoledì 18 dicembre 2019

Anima persa


 
Anima persa (1977) Regia di Dino Risi. Soggetto di Giovanni Arpino. Sceneggiatura di Dino Risi e Bernardino Zapponi. Fotografia di Tonino Delli Colli. Musiche di Francis Lai. Interpreti: Vittorio Gassman, Catherine Deneuve, Danilo Mattei, Anicée Alvina, Ester Carloni, Michele Capnist, Gino Cavalieri. Durata: 1h40'

"Anima persa", tratto da un romanzo di Giovanni Arpino, racconta di un ragazzo (Danilo Mattei) che si trasferisce a Venezia per seguire la scuola d'Arte; è di famiglia ricca e va ad abitare dallo zio in un grande palazzo pieno di affreschi e con una enorme biblioteca. Lo zio, un ingegnere (Vittorio Gassman) ha una moglie giovane e bella (Catherine Deneuve) e si dimostra molto ospitale e perfino affettuoso, ma nel palazzo c'è qualcosa che non va. Rumori strani, grida: a un certo punto dicono al ragazzo che si tratta del fratello dello zio, che ha problemi mentali e che non si vuol far ricoverare in manicomio. Sarà proprio così?
Raccontato in questo modo, ridotto ai minimi termini, sembrerebbe la trama perfetta per un film dell'orrore: ma così non è. Non lo è prima di tutto per la bellezza delle immagini: siamo a Venezia, ed è una Venezia magica e splendida, fotografata da un maestro delle luci come Tonino Delli Colli. Non è un horror perché il soggetto tocca altri temi, più profondi; ma va anche detto che non è un film ben riuscito e che ha molti difetti. Ed è un peccato, perché si poteva fare di più e Dino Risi avrebbe avuto i mezzi per riuscirci.

 
"Anima persa" è in bilico tra capolavoro e fetecchia, e i due aspetti sono così ben mescolati e amalgamati che diventa difficile separarli. Ci sono tutti i difetti di Risi e anche tutti i difetti di Arpino, soprattutto una certa superficialità spacciata per profondità o per verità, come le battute sull'Ulysses di Joyce o i luoghi comuni stucchevoli su chi studia entomologia, davvero pessimi e degni di Fantozzi o di Pierino. La confezione è splendida, Venezia meravigliosa e oscura fotografata da un Tonino Delli Colli in gran forma, interni e palazzi sontuosi e cadenti, un teatro in disuso, costumi, scale, maschere, tutto magnifico; ma alla fine qualcosa non torna.

 
Il soggetto è interessante (il tema del doppio, Jekyll e Hyde) ma il finale è da filmetto, un Dario Argento o poco di più, ed è davvero un peccato ("Che fine ha fatto Baby Jane", e cosette così).
Vittorio Gassman ne è il protagonista perfetto: anche lui porta qui tutti i suoi difetti e le sue qualità, è severo e gigione, sembra profondo ma è in realtà molto superficiale. Anche qui, si poteva fare di meglio e Gassman avrebbe certamente potuto rendere meglio il personaggio. Stesso discorso per Catherine Deneuve, che ripete (molto bene, va detto) il suo personaggio di tanti film. Dietro il loro matrimonio c'è una storia di pedofilia, la giovinezza e l'innocenza dell'infanzia che non si possono conservare: il tema è importante, la realizzazione è da filmetto di terza visione, una moneta falsa. Si evocano dei e demoni, sullo sfondo c'è il tema della malattia mentale, e sono temi che colpiscono ma anche qui, a un certo punto, viene da dire un "mah". Danilo Mattei (il ragazzo protagonista) appare incolore, poco espressivo; bravina invece Anicée Alvina, sia pur doppiata come improbabile veneziana (questa del doppiaggio in un veneziano caricaturale è un'altra palla al piede del film). La Alvina ebbe momenti di grande successo grazie a un film con Robbe Grillet, "Spostamenti progressivi del piacere"; nel mio ricordo, avendo visto "Anima persa" un'unica volta quando era uscito nei cinema, al loro posto avevo messo Agostina Belli e Alessandro Momo (la scena della scuola di nudo), che invece sono in altri film di quel periodo.
 
Alcune battute del personaggio di Gassman meritano attenzione; è "un triestino asburgico di madre lingua tedesca", ma il clima che crea in casa è degno del peggior stile fantozziano, con letture collettive e obbligate di Hölderlin, una biblioteca enorme che sgomenta (dovrà mica leggerli tutti??), i recitativi di Bach "che non si possono interrompere" (per chi non lo sapesse si tratta del Vangelo: che sia in tedesco mi pare secondario, le "Passioni" di Bach sono una meraviglia da conoscere). Qui Dino Risi dà il suo peggio, tanto valeva chiamare direttamente Paolo Villaggio, che del resto con Gassman lavorava abitualmente in quel periodo. Pesanti e fastidiosi anche i luoghi comuni sull'entomologia e sulle scienze naturali, anch'essi parte di una subcultura caciarona che non si riesce a sradicare: se non ci fossero stati gli entomologi non sapremmo da dove viene la malaria, tanto per fare un esempio, e se non ci fossero stati i "pallosi" scienziati che studiano sui vetrini da laboratorio non avremmo gli antibiotici e moriremmo ancora di difterite e di tbc, ma vallo a spiegare a questa gente. Risi, Arpino e Gassman qui propagano e nutrono la stupidità, spiace dirlo ma è così. Questi grossi difetti sono di Arpino o di Risi, o magari di Zapponi che firma con loro la sceneggiatura? Non lo saprò mai, perché ho letto Arpino a suo tempo (compresi i litigi con Gianni Brera) ma non ho nessuna voglia di tornarci sopra. Ho ben presente anche Risi e Gassman nel "Sorpasso": le stesse battute stupide, la stessa superficialità e grossolanità. La normalità sarebbe dunque andare in spider suonando il clacson sull'Aurelia, secondo lo psichiatra Risi...meno male che ha rinunciato a fare lo psichiatra, viene da dire. Subcultura, grossolanità, superficialità e volgarità da leghisti ante litteram: è questo il difetto principale di Risi e di altri registi e attori della "commedia all'italiana" di quegli anni, e spiace ripeterlo ma bisognerà pur dirlo ogni tanto, altrimenti le nuove generazioni penseranno che eravamo davvero tutti così. Ammiro molto Dino Risi e non mi sono mai perso un suo film, ma l'assecondare i difetti del pubblico è stata la sua tara principale, per fortuna con molte felici eccezioni ("La marcia su Roma", "Fantasma d'amore", "Una vita difficile").

 
Penosa anche la battuta su Joyce "che non deve stare vicino a Goethe" visto che "Joyce è uno dei pagliacci della letteratura e della lingua" e andrebbe messo "con Gadda e Rabelais". E poi "Goethe è apollineo", ed ecco un altro luogo comune che si aggiunge ai tanti altri del film, di quelli che fanno dubitare che siano mai andati oltre una sfogliatura veloce sia di Gadda che di Joyce che di Goethe. Apollinea la scena del sabba, nel Faust di Goethe? E Gadda, divertente ma anche tragico, che spiega "barocco è il mondo" alle accuse di essere barocco, è un pagliaccio? E Joyce, maestro di ogni genere letterario? Chi sarà qui l'autore di queste fesserie, forse Arpino o forse Gassman, che sembra davvero credere nelle scemenze che dice (e che del resto ha ripetuto anche in altre sedi) ?

 
Belle le scene all'Accademia, con il maestro della scuola di pittura che partendo da un famoso Vermeer mostra (con mascherine sulla clavicembalista del quadro) che Vermeer contiene già tutta la pittura che seguirà, incluso Burri; e prima ancora dice che il disegno è la pittura, che non si può nascondere un cattivo disegno con il colore e che il cattivo disegno salta sempre fuori.


C'è poi il discorso sui rebus (minuto 17) tra surrealismo e poesia; all'ingegner Gassman piacciono ma non gli interessa risolverli:
- A volte penso che mi piacerebbe vivere dentro un rebus...
Deneuve: - Perché, non è così? Non viviamo tutti dentro un rebus?
Restando alla Settimana Enigmistica, il pazzo davanti alla petroliera arenata grida: "Eufrasio!" e nel finale si spiega perché: è una parola panvocalica, cioè contiene tutte le vocali dell'alfabeto. Il recluso pazzo "odia il ticchettio degli orologi", e dunque il passare del tempo, l'infanzia e la giovinezza che non si possono fermare. E' il tema principale del soggetto, ma è difficile rendersene conto. (Si potrebbe dire con una battuta che negli anni '70 non esistevano ancora gli orologi digitali: il tempo corre lo stesso, anche senza ticchettio).
Toccato in maniera superficiale anche il tema della malattia mentale: "i matti conoscono la verità e la verità fa paura, per questo li tengono rinchiusi" (i matti e i bambini conoscono la verità) dice l'ingegnere mentre si passa davanti al manicomio di Venezia. Si può ricordare che Dino Risi era laureato in medicina, specializzazione psichiatria.
Poi l'ingegnere dice che le donne sono come i vegetali, citando Strindberg (Strindberg, o piuttosto uno dei suoi personaggi? ecco ancora la superficialità...): "le donne hanno odore di sedano". Si tratta di citazioni fatte a capocchia, estrapolando una riga da testi complessi e senza citare la fonte precisa, così si fa dire a un autore quello che è possibile dire e anche il suo contrario. L'ingegnere di Gassman si spinge più in là, e dice apertamente che la donna è l'anello di congiunzione tra vegetale e animale, tirando in ballo l'evoluzione: un discorso che vorrebbe essere forse misogino, ma che serve solo a fare confusione. (Detto en passant, il DNA mitocondriale esiste davvero: ma questo è un discorso molto complesso, da scienziati "pallosi e chini sui vetrini del laboratorio", e che non ha niente a che vedere con il film).

 
Altri appunti presi durante la visione: 1) Gassman accompagna il nipote all'Accademia e definisce i "capelloni" che la frequentano (un termine molto usato da noi nel dopo' 68) come "residui di un esercito in fuga", "i figli di Assalonne, ribelli al padre". 2) L'educazione severa, asburgica (o forse fascista, sottotraccia?), è un altro dei temi buttati via nel film, e ancora una volta bisogna dire che si poteva fare di più. 3) Il cognome Stolz fa pensare a Verdi, il soprano Teresa Stolz; tradotto in italiano, "stolz" significa fiero o superbo. 4) Le musiche noiose sono di Francis Lai, che fa tanto "Anonimo Veneziano"; in effetti, la superficialità è la medesima. 5) Nel corso del film si storpia malamente qualche aria d'opera (l'Arlesiana?). 6) In definitiva, di questo film mi porto dietro Anicée Alvina, come modella: la stessa cosa che avevo pensato nel '77 insomma, quando avevo provato una sincera invidia per il protagonista che aveva più o meno la mia stessa età.
 
 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
 

domenica 15 dicembre 2019

Le orme


Le orme (Footsteps on the moon, 1975). Regia di Luigi Bazzoni. Scritto da Mario Fanelli e Luigi Bazzoni. Fotografia di Vittorio Storaro. Scenografia di Pierluigi Pizzi. Musiche di Nicola Piovani. Interpreti: Florinda Bolkan, Klaus Kinski, Peter Mc Enery, Nicoletta Elmi, Lila Kedrova, Caterina Boratto, Esmeralda Ruspoli, Rosita Toros, Myriam Acevedo, John Karlsen. Durata: 110 minuti
 
"Le orme" (Footsteps on the moon) è stato per me una piacevole sorpresa: era uscito nel 1975 ma io non ne sapevo o non ne ricordavo nulla, di certo lo avevo confuso con altri film usciti in quel periodo, sempre con la Bolkan. Anche di Luigi Bazzoni non sapevo niente, è difficile trovare informazioni e c'è pochissimo anche on line. Ho scoperto che era di Parma, che ha un fratello (Camillo) anche lui regista e direttore della fotografia, e che era del giro dei Bertolucci; ha fatto un film con Francesco Barilli, e qui lavora con Storaro (direttore della fotografia) e Perpignani (al montaggio).
Il soggetto di "Le orme" è di quelli che una volta riassunti fanno scappare la voglia di vedere il film: una schizofrenica e le sue visioni. Ma nel film c'è molto di più, innanzitutto dal punto di vista visivo, e poi è ben scritto e molto ben recitato, una vera e propria prova d'autore, ed è un peccato che dopo questo film Luigi Bazzoni non abbia più girato altro, a parte un frammento di documentario parecchi anni dopo. La protagonista, Florinda Bolkan, è un'interprete che lavora ad alti livelli, ed è di professionalità esemplare; ma a un certo punto della sua vita si perde, comincia ad avere strani sogni che si ripetono (un astronauta sulla luna, inseguito da misteriosi alieni); dopo essersi assentata dal lavoro, senza esserne resa conto, trova in casa una cartolina spedita da una località lontana a lei ignota (Garma) e scopre di essere stata effettivamente in quel posto, ma non ne ha memoria. Il resto del film non va raccontato, o quantomeno io non ho nessuna intenzione di rovinare la visione del film a chi ancora non lo conoscesse.
 

In realtà, il miglior riassunto di "Le orme" è nelle parole di Vittorio Storaro: «Colours can be used as a language. Unfortunately, today newer film makers seem to prefer to tell audience exactly what's going on, and what everything is about instead of using colour, productional design, music, actor's body language and camera angles to communicate.» (Vittorio Storaro per "Le orme" di Luigi Bazzoni, citato da Oliver Cramer sul blog "The Kirkpatrick Mission" )
(I colori possono essere usati come una lingua parlata. Purtroppo, i registi di oggi sembrano preferire il metodo di raccontare cosa succede, in modo piatto, invece di usare nella comunicazione colori, tecniche, musica, recitazione e fisicità degli attori, lo studio dell'angolazione delle riprese.)
Storaro ci dice che della storia raccontata, in "Le orme", ci deve importare poco o niente: il film è nei colori, nelle immagini, nella musica, nelle angolazioni dell'inquadratura, nello studio dei volti e dei luoghi, negli attori... E qui Storaro dà davvero il meglio di sè, la qualità delle luci e delle immagini ricorda molto "Il conformista" (quindi, una meraviglia nell'uso e nella scelta di luce e colori) e chi ha visto i grandi film di Bertolucci non si può perdere lo spettacolo del film di Bazzoni.
Altri riferimenti possibili: Wim Wenders, "Lo stato delle cose", per la fantascienza in bianco e nero virato: "Shining" di Kubrick per l'albergo vuoto e per la presenza della protagonista in epoche diverse, ma anche Henry James, "Il giro di vite", per la bambina e per le presenze inquietanti.
 

"Le orme" è girato a Phaselis, in Turchia; nei titoli di coda è citato il villaggio Valtur di Kemer, lì vicino, che ha ospitato la troupe. La città e l'albergo, nel film, sono chiamati Garma ma non so dire se sia una città vera; cercando su internet ho scoperto che esistono molte Garma: in Iran, Croazia, Iraq, Libia, Nepal, Tibet, Australia.
Le scenografie sono di Pierluigi Pizzi, uno dei più grandi in questo campo, la musica (molto funzionale) di Nicola Piovani, il montaggio di Roberto Perpignani, la fotografia di Vittorio Storaro.
Gli attori: Florinda Bolkan molto bella e molto brava, un'ottima prova, regge quasi da sola il film. Klaus Kinski (Mr.Blackmann) appare nella sequenza con gli astronauti; la bambina è Nicoletta Elmi, ci sono Lila Kedrova e Caterina Boratto, il giovane attore è Peter Mc Enery.
 

Luigi Bazzoni ha girato altri film prima di questo, alcuni con lo pseudonimo Marc Meyer. Non li conosco e mi segno due titoli a caso: "Giornata nera per l'ariete" e "La donna del lago" con Virna Lisi. Un suo film del 1968, girato come un western all'italiana, è in realtà una trasposizione della "Carmen" di Mérimée (e di Bizet), intitolato "L'uomo, l'orgoglio, la vendetta". "Le orme" è l'ultimo film di Bazzoni, e spiace che non abbia più continuato proprio quando cominciava a vedersi un vero lavoro d'autore; dopo "Le orme" troviamo solo i documentari (peraltro molto belli) della serie "Roma Imago Urbis", datati 1994 e girati con Vittorio Storaro.
Il soggetto è di Mario Fanelli, un autore che non conoscevo e che curiosamente nei titoli di testa è indicato (due volte) come Fenelli. Il titolo originale del romanzo di Fanelli è "Las Huellas". Fanelli ha lavorato molto in Jugoslavia, ha molti titoli di cinema su www.imdb.com scritti nel corso di una ventina d'anni, ed è indicato anche come co-regista di "Le orme".


E infine, pensando a quello che succede nel film, mi sono detto che se dovessimo davvero ricordare tutte le nostre vite precedenti saremmo come la Bolkan in questo film, vale a dire che sarebbe inevitabile stare molto male. Forse il non ricordare è una difesa:
«...Mnemosine è dunque la memoria della comunione originaria del celeste e del terrestre. Le era dedicata una delle due fonti che i morti incontravano nell'Ade; le anime di coloro che si erano purificati dalle passioni bevevano alla sua fonte l'acqua fresca di vita, e uscendo dai cicli dolorosi dell'esistenza si ricongiungevano agli dei. Quelle dei malvagi si abbeveravano invece alla fonte chiamata Lete, ovvero l'oblio, perdendo la memoria della loro passata esistenza terrena, e poi venivano scagliate in un pelago profondo, metafora dell'oscurità e della dannazione; ma se non erano del tutto malvage rientravano nella vita con altri corpi (...) »
(Alfredo Cattabiani, da "Erbario", editore Rusconi, pag.23)



venerdì 13 dicembre 2019

Ultimo tango a Parigi ( II )


Ultimo tango a Parigi (Last tango in Paris, 1972). Scritto e diretto da Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli, Agnes Varda. Fotografia di Vittorio Storaro Costumi di Gitt Magrini. Musiche di Gato Barbieri. Interpreti: Marlon Brando (doppiato da Giuseppe Rinaldi), Maria Schneider (doppiata da Maria Pia Di Meo), Massimo Girotti, Jean Pierre Léaud (doppiato da Massimo Turci), Gitt Magrini (madre di Jeanne), Laura Betti (è nelle scene tagliate dalla censura), Maria Michi (suocera di Brando), Giovanna Galletti (prostituta anziana), Armand Abplanalp (cliente prostituta), Catherine Allegret, Catherine Breillat, Veronica Lazar, Luce Marquand, e molti altri. Durata originale: 136 minuti

Su "Ultimo tango a Parigi" avevo scritto qui a suo tempo, rimarcando la mia distanza da questo film, cosa che del resto non ha la minima importanza. Nel frattempo (sono passati sette anni) l'ho visto finalmente in lingua originale (cioè francese e inglese) e in un'edizione decente, su dvd.
"Ultimo tango" si mostra per quello che è, un ottimo film anche se molto cupo e con parecchi difetti, finalmente oggi al riparo da commenti stupidi e da parodie cretine (ma qualche cretino o cretina si trova sempre, basterà aspettare).
La prima cosa da dire è che si tratta di una vanitas, (qui per una spiegazione più completa) come poi sarà "Io ballo da sola" (qui) : un soggetto importante nella storia dell'Arte, la giovane e la morte, il decadimento fisico che non si può fermare, il destino comune a noi tutti; non stupisce che questo sia sfuggito a Germaine Greer (vedi interventi sul dvd, nel terzo documentario) che ne fa una lettura in chiave quasi esclusivamente femminista. Germaine Greer non riesce a capire che è questo il motivo per cui Maria Schneider si vede nuda e Marlon Brando invece no: la Schneider era perfetta per una vanitas, Brando nudo a quel tempo sarebbe stato magari un San Gerolamo; ma si sa che la lettura dei simboli è ormai cosa che sfugge quasi a tutti (rimando ad Elemire Zolla, "Aure", ed. Marsilio: il mondo in cui viviamo ha perso questa capacità di lettura). C'è poi questa battuta curiosa che Maria dice a Brando: "ti proibisco di scherzare sul '58"; questa me la dovevo proprio segnare, perché anch'io sono del '58, come anche Giacomo Puccini del resto. Il tempo, si sa, vola.
La censura operata su "Ultimo tango" va a colpire ben altro che la scena del burro, è il film intero che disturba e non certo per il sesso ma perché ha colpito in pieno uno dei nostri nervi scoperti: la morte, la giovinezza che passa, l'incertezza del futuro, il suicidio. Come nell'Amleto lo spettatore incolto e sprovveduto cerca di difendersi con la parodia o sbeffeggiando il testo, dicendo che è noioso, ripetendo stupidamente qualche frase buttata lì con l'aria di chi la sa lunga ("essere o non essere": ma avete mai letto il monologo di Amleto per intero?). L'essere o non essere, oppure i dialoghi tra Brando e la Schneider ridotti a un "facciamo così, facciamo questo", come se fosse un film di Verdone. Con "Ultimo tango" Bertolucci è stato chiarissimo, siamo noi che abbiamo paura e cerchiamo di difenderci banalizzando e irridendo. E' paura, la verità della vita, la Vanitas, che fa paura.

Ci sono dei bei dialoghi, come questo di Maria Schneider con Brando:
- Eri felice da piccola?
- L'infanzia è meravigliosa.
- I bambini sono peggio dei grandi, fanno la spia, sanno solo ammirare l'autorità, si vendono per una caramella.
- Io non ero così, scrivevo poesie, disegnavo bei castelli con le torri, tante torri.
- Non pensavi mai al sesso?
- No, niente sesso. Solo le torri.
- Ma eri innamorata del tuo maestro.
- Era una donna. (...)
Si tratta di ricordi veri o falsi? O magari falsi ricordi creduti veri?
 

Jean Pierre Leaud interpreta un regista che fa del "cinema verità", e sta filmando la sua ragazza come si farebbe oggi con lo smartphone.
Nel metrò, Maria Schneider dice a Leaud (non a Brando!) :
- Il film è finito. Sono stanca di farmi violentare, mi costringi a fare cose che non ho mai fatto.
Si rivolge non a Brando, ma a Leaud che la sta solo (solo?) filmando; direi che è qualcosa che Maria Schneider può effettivamente aver detto proprio a Bertolucci, durante le riprese. (segue riappacificazione e domanda di matrimonio)
Nel finale, Leaud e Maria sono nell'appartamento, felici; lei simula il volo, poi una nube sul volto. Leaud è severo, serissimo, e dice:
LUI: - Non possiamo più giocare così, non siamo più bambini. Siamo adulti.
LEI: - Adulti? Ma è terribile.
LUI: - Sì, è terribile.
LEI: - Gli adulti cosa fanno?
LUI: - Non lo so. Dovremo inventare i gesti, le parole... Gli adulti, per esempio... (si abbracciano) Una cosa la so per certo, gli adulti sono calmi, seri, logici, e pelosi. Sono rilassati, e risolvono tutti i problemi.
LEI: - Sì, sì.
LUI: - Perciò, questo appartamento non può andar bene per noi (...) è deprimente, c'è cattivo odore. (...)
(la causa del cattivo odore è probabilmente il topo morto trovato da Marlon Brando nelle sequenze precedenti)
E ancora:
Leaud: oggi è l'ultimo giorno di riprese, il film è finito. A me non piace ciò che muore e che finisce. Bisogna cominciare qualcosa di nuovo, insieme, subito.
 

Altri appunti presi durante la visione: 1) Ci sono molti treni (compreso il metrò in superficie) come in Ozu e in Wenders. 2) La prostituta dal viso pesantemente truccato, come la morte, per nascondere l'avanzare del tempo; il volto della suicida anch'esso pesantemente truccato, come per Eduardo de Filippo nel finale di "Gli esami non finiscono mai". 3) La pubblicità a vivaci colori, come in "Partner", soprattutto nel metrò, quasi sempre di detersivi. 4) La vita di coppia, il matrimonio. 5) Massimo Girotti "doppio" di Brando 6) Massimo Girotti, Maria Michi, Giovanna Galletti: Luchino Visconti e il cinema italiano, e Brando per Hollywood "mitica" 7) Anche girare un film è fermare il tempo, o il tentativo di farlo. Ma il tempo passa lo stesso, si ferma il passato credendo che sia il presente, la morte al lavoro, Cocteau... 8) La scena "del dito" di Maria Schneider fa il paio con quella "del burro", ma di questa scena non ho mai sentito parlare, ed è un altro caso da psicoanalisi. Sono comunque due scene eliminabili e poco significative; nella "scena del burro" c'è comunque un attacco alla famiglia e alla tradizione, nell'altra solo volgarità o poco più. 9) La tomba del cane Mustafà, oggi per quel nome dato a un cane si parlerebbe di vilipendio, bei tempi quando si poteva scherzare, e poi ci sono cani che si chiamano Dick, Bill, perché mai non Mustafà. 10) c'è una citazione dall'Atalante di Jean Vigo, sempre bella da rivedere. 11) Maria Michi è la madre della suicida, la Galletti è la prostituta americana 12) Nel documentario allegato al dvd, Vittorio Storaro dice che la luce predominante nel film è l'arancione, che allora non ne conosceva il simbolismo ma che oggi sa di cosa si tratta: il sole al tramonto ma anche l'utero materno visto dal di dentro.
E molto altro ancora.


 

martedì 10 dicembre 2019

Fantasma (Murnau, 1922)


Fantasma (Phantom, 1922). Regia di Friedrich W. Murnau Soggetto di Gerhart Hauptmann. Sceneggiatura di Thea von Harbou e Hans von Twardowski. Fotografia di Axel Graatkjaer e Theophan Ouchakoff. Interpreti: Alfred Abel, Aud Egede-Nissen, Frida Richard, Lil Dagover, Lya De Putti, Hans von Twardowski, e molti altri. Durata: 2h20'

"Fantasma" è del 1922, anno in cui Friedrich Murnau gira tre film: "Nosferatu", "La terra che brucia", e questo. "Der letzte Mann" è del 24, "Faust" e "Tartufo" del 1926: si passa da commedie a storie di vampiri, da Goethe a Molière. Murnau viene presentato ancora oggi come personaggio misterioso, oscuro al pari del suo "Nosferatu", ma forse tante idee andrebbero aggiornate e vanno considerate un residuo di quando la maggior parte dei suoi film erano poco visibili o considerati perduti. Per esempio, "Fantasma" è classificato da wikipedia.it alla categoria "horror": ma così non è, si tratta di un errore piuttosto grossolano.
 

"Fantasma" non è una storia di fantasmi: tratto da un romanzo di Gerhart Hauptmann (premio Nobel nel 1912) ricorda a tratti i drammi di Strindberg, ed è piuttosto parente del "Monaco nero" di Cecov, ma senza visioni. L'elemento soprannaturale è del tutto assente, però il protagonista, un impiegato comunale (l'attore si chiama Alfred Abel) pensa di aver trovato la Musa, sotto forma della poesia (l'amico rilegatore Starke gli dice che ha un grande avvenire) e dell'incontro casuale con la bella Veronika, di ricca famiglia, della quale si innamora perdutamente e senza speranza (anzi, i servitori lo mandano via e i familiari di lei lo denunciano per molestie).
 

L'incontro con la Musa (o con il monaco nero di Cecov, se si vuole) finisce così: l'editore rifiuterà le poesie, e il giovane si consolerà con una prostituta di nome Melitta che somiglia molto a Veronika, ma che chiede molti soldi. Ridotto a "un fantasma" (sono parole sue) perderà il lavoro e si farà invischiare in affari poco puliti; l'anziana zia che ha truffato lo denuncerà, e lui finirà in carcere. C'è un finale in positivo, che noi già immaginiamo perché il film è tutto un lungo flashback: la figlia del rilegatore è innamorata del giovane, lo attende all'uscita del carcere insieme al padre, e ci sarà una rinascita.

Il film è molto lungo, 2h20' circa, ben recitato, ed è molto diverso da "Nosferatu": il che fa pensare anche a quanta superficialità e a quanti luoghi comuni (magari divertenti da raccontare) circolino intorno al nome di F. W. Murnau. Non direi che sia un film riuscito, la narrazione è un po' macchinosa e gli attori non "bucano" lo schermo; però siamo nel 1922 e bisogna pur tenerne conto.
Buona comunque la recitazione di tutti, già molto simile a quella cui siamo abituati; bello il restauro del film, presentato su Raitre una decina d'anni fa, con virati molto significativi e mai messi a casaccio. C'è una sola sequenza onirica che rimanda all'espressionismo, a 40' circa dalla fine quando la città sembra cadere addosso al protagonista (la fine del quarto tempo, se non sbaglio).

Gli attori: Alfred Abel è il protagonista, forse un po' anziano per la parte, un Ugo Pagliai più snello. Aud Egede-Nissen (la Carozza del "Mabuse" di Fritz Lang) interpreta sua sorella, che lascia la casa e la madre malata; il "cognato" dissoluto convincerà il giovane alla truffa e alle rapine che lo rovineranno. Lil Dagover, interprete del "Caligari" di Robert Wiene, è la figlia del rilegatore; Lya de Putti, una delle grandi dive di quel tempo, interpreta il doppio ruolo di Veronika e della sua sosia Melitta (Melitta ha più spazio, Veronika si vede poco).
 

"Fantasma" è comunque n film di grande spessore, ben recitato e ben fatto; probabilmente il problema per lo spettatore di oggi sta nel soggetto o magari nella sua riduzione. Chissà come è il romanzo originale, viene da chiedersi; e, in ogni caso, per le storie di Muse e di poeti forse non è più il tempo. Questo è il tempo in cui si ride e si alzano le spalle su Auschwitz, nel 1922 i tempi brutti stavano per arrivare e chissà quanti anni buoni abbiamo ancora davanti noi, cen'tanni dopo.