Stalker (id) (1979) Regia: Andrej Tarkovskij. Dal racconto «Picnic sul ciglio della strada» di Arkadij e Boris Strugackij. Sceneggiatura: Arkadij e Boris Strugackij. Versi di Fjodor Tjutcev e Arsenij Tarkovskij. Fotografia: Aleksandr Knjazinskij. Musica: Eduard Artemev (e brani dal Bolero di Ravel e dalla Nona sinfonia di Beethoven). Interpreti: Aleksandr Kajdanovskij (lo Stalker), Anatolij Solonicyn (lo scrittore), Nikolaj Grinko (lo scienziato), Alisa Frejndlich (la moglie dello Stalker), Natasha Abramova (la figlia), F. Jurna, E. Kostin, R. Rendi; produzione: Mosfil'm (Secondo Gruppo Artistico); direttore della produzione: L. Tarkovskaja; durata: 161'
Una stanza, all'interno di una Zona proibita dove è successo qualcosa che le autorità non sanno o non vogliono spiegare, presidiata da imponenti misure di sicurezza; e due uomini che cercano di raggiungerla, con l'aiuto di una misteriosa guida. E' il soggetto di “Stalker”, uno dei film più belli di Andrej Tarkovskij, uscito nel 1979. Tarkovskij partì da un racconto di fantascienza dei fratelli Strugatzkij, che si rifaceva in modo evidente al meteorite caduto su Tunguska, in Siberia; ma ne trae una storia molto più profonda e spesso impressionante. Innanzitutto per la figura del protagonista, che è lo stalker del titolo, interpretato da Aleksandr Kajdanovskij.
Stalker è una parola inglese, che viene da "to stalk", verbo che indica un particolare tipo di camminare ("inseguire furtivamente la selvaggina", specifica il mio dizionario), e la stanza nel cuore della Zona è un luogo dove si realizzano i nostri desideri. Ma non i nostri desideri coscienti, come scoprirà uno dei due "esploratori", bensì quelli più profondi e inaspettati. Cosa si nasconde dentro il nostro cuore? Che cosa vogliamo, veramente? Un altro stalker è entrato nella stanza, e poi si è suicidato, si racconta nel film: voleva salvare il fratello perduto nella Zona, ma ne è uscito ricco sfondato, pieno di soldi. Non ha retto di fronte alla sua vera natura, una rivelazione inaspettata del Sé più profondo. Questo e molto altro contiene il film, che vive sulle immagini e non sulle parole, come quasi sempre succede in Tarkovskij; un film non raccontabile se non in alcuni suoi momenti.
Bisognerebbe vederli, i film di Tarkovskij: ma lui non faceva molto per farsi piacere. Ha girato film classificati come fantascienza, come questo e il precedente “Solaris”, ma si capisce da subito che della fantascienza non gli importava nulla; gli capita di essere di una sciatteria irritante, eppure è un maestro del cinema fin dai suoi esordi (Andrej Rubliov, del 1966) e ne conosce ogni segreto. Tarkovskij depista lo spettatore, i suoi personaggi imbastiscono lunghi discorsi filosofici che sono subito cancellati da apparizioni misteriose, i fenomeni atmosferici sono più importanti dei discorsi, ogni sua sequenza è come un quadro, ed è incantato da Leonardo.
Non si può raccontare Tarkovskij: ed oggi è quasi impossibile vederlo, a meno di ricorrere al dvd o alle cassette. Trovarle però non è facile: la censura di mercato è ben presente e molto forte, da questo punto di vista credo che i film di Tarkovskij circolassero più facilmente in Unione Sovietica. Ed oggi non si insegna più a guardare, né tantomeno ad avere pazienza.
Il film comincia con lo Stalker a casa sua, con la moglie e la figlia, una bambina malata (forse per l’effetto della Zona), e misteriosa. La bambina ha dei poteri sovrannaturali, riesce a spostare gli oggetti guardandoli: però non cammina, il padre è costretto a portarla in spalla.
Prosegue, in un bianco e nero virato e inquietante, dentro il bar dove i tre protagonisti si ritrovano. C’è anche una donna, portata dallo scrittore; ma lo Stalker la scarta subito, e la donna se ne va via offesa, dando dello stupido allo Scrittore che l’ha fatta venire fin lì. E’ una donna elegante, vivace e curiosa, ha una bella macchina. Forse per lei la Zona era solo un’emozione da raccontare alle amiche, qualcosa come una seduta spiritica.
Da qui in avanti comincia qualcosa che somiglia ad un film d’azione, l’entrata nella Zona, su una vecchia jeep, è contrassegnata da scontri con militari e raffiche di mitra. Non è facile, entrare nella Zona; e qui la lettura politica è più che giustificata, vista la situazione storica. Ma va detto che anche entrare nella Vita non è facile...
Il meteorite, o quel che era, è caduto vent’anni prima; cominciò a sparire la gente, la Zona venne recintata, poi si sparse la voce dell’esistenza della Stanza. La Stanza è dove si avverano i desideri, quelli più intimi che nemmeno noi conosciamo.
All’ingresso nella Zona colpiscono i colori scelti da Tarkovskij: colori molto marcati, verdi pieni, saturi, forti, irreali per troppo realismo. La Zona è ricca d’acqua, questi verdi così intensi ne sono la testimonianza.
Al minuto 55 lo Stalker spiega qualcosa: La Zona è forse un regalo, o forse un avvertimento che ci è stato dato. Ci sono stati altri Stalker, il più famoso è quello che tutti chiamavano “Maestro” e che solo in seguito, dopo l’incidente nel quale morì il fratello, gli venne affibbiato quel soprannome: il Porcospino. Il Maestro era diventato intrattabile, scorbutico; la Zona gli aveva rivelato il suo vero carattere, e non si era piaciuto.
Come dice un grande poeta inglese:
God's must deep decree
bitter would have me taste:
my taste was me.
(Gerald Manley Hopkins, 1844-1889)
( la più oscura sentenza di Dio volle che assaporassi l'amaro sapore: quel sapore ero io.)
(versione di P.Valduga)La storia la conosciamo già: il Porcospino si recò nella Stanza, chiese la salvezza per il fratello perduto, ne tornò ricco a palate, i soldi gli spuntavano da tutte le parti. Non resse alla rivelazione, si tolse la vita.
Al minuto 64 ascoltiamo la prima delle tre poesie che Tarkovskij ha messo nel film. E’ una poesia di Arsenij Tarkovskij, padre del regista e grande poeta russo.
... che si avverino i loro desideri... che possano crederci,
e che possano ridere delle loro passioni!
Infatti, ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale,
ma solo attrito tra l'animo e il mondo esterno.
E, soprattutto, che possano credere in se stessi,
e che diventino indifesi come bambini:
perchè la debolezza è potenza,
e la forza è niente.
Quando l'uomo nasce è debole e duttile,
quando muore è forte e rigido.
Così come l'albero, mentre cresce, è tenero e flessibile,
e quando è duro e secco, muore.
Rigidità e forza sono compagni della morte;
debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza.
Ciò che si è irrigidito non vincerà.
( Arsenij Tarkovskij )
Quando nasce, l’uomo è tenero e debole; quando muore è duro e rigido (forte)
(Tao te ching, LXXVI)
I desideri più veri e più puri si realizzano sempre, me lo ha confermato spesso la mia esperienza.
(M.K.Gandhi, autobiografia, pag.149 ed. Newton Compton)
4 commenti:
Questo discorso sul tenero e debole dell'inizio della vita e dell'irrigidimento che appartiene alla morte è il tema centrale, come hai citato, del Tao ed ha tanta parte nel pensiero anche della nostra religione, anche se pochi se lo ricordano e ne tengono conto: "Se non tornerete come bambini..."
Mi piace aggiungere che anche Jung la pensava così e paragonava il processo di guarigione attraverso la sua psicoterapia a un passaggio dallo stato di "aragosta" ad uno stadio "umano". Nello stadio di aragosta, diceva, si è duri fuori (la corazza dell'aragosta intesa come difese nevrotiche che ci irrigidiscono e ci isolano dalla vita) e molli dentro( paurosi e flaccidi come molluschi); nello stadio umano, dopo un vero lavoro su di sè, si diventa duri dentro (con una vera spina dorsale dritta e flessibile) e molli fuori, cioè teneri verso gli altri, senza paura di essere sempre feriti e perciò disponibili ed aperti. Un bel programma, no?
Rigidità e forza sono compagne della morte: è la frase che più mi aveva colpito, al mio primo incontro con Tarkovskij. Non a caso, le grandi sconfitte, la morte di milioni di persone e la distruzione sono legate proprio ai movimenti politici che propagandano morte, teschi, durezza... I problemi si risolvono meglio in un altro modo, ma non credo che l'umanità sarà mai pronta per queste cose. Comunque sia, il fatto che l'icona di Cristo duri da duemila anni è già un successo.
Sui molluschi e i crostacei, la metafora è bella ma io - cresciuto con Darwin - ho un grande rispetto per chi ha lo scheletro al di fuori. Un'aragosta potrebbe dire che disprezza noi, così mollicci all'esterno; e le conchiglie sono quasi sempre bellissime.
Ovviamente aragoste e conchiglie sono perfette così e bellissime, perchè è "nella loro natura" avere il duro fuori e il molle dentro. Il problema si pone per l'uomo quando, per un eccesso di difesa, inverte il proprio schema. Avere una salda colonna portante dentro e rimanere teneri fuori è il grande capolavoro dei maestri, che possono essere gentili ed aperti, ma sempre con una grande saldezza interna. Il "diventa te stesso", frutto del "conosci te stesso" è sempre stata la meta di ogni vero Maestro.
Vero, In un mondo ideale è così, ed è stata una delle più grandi conquiste l'aver potuto andare in giro senza armi e senza armatura - tanti però spingono per un ritorno a quei tempi (per esempio il consigliere regionale lombardo arrestato di recente perché si è scoperto che faceva il commerciante d'armi...).
(ne taccio il nome per decenza, ma ha patteggiato tre anni di galera).
Cara Marisa, se sono ancora qui è perché ho fatto da tempo la mia dura corazza...Il ponte levatoio è alzato, spero che le mura del Castello tengano.
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