giovedì 14 ottobre 2010

Lolita ( Kubrick )

Lolita (idem, 1962) Regia di Stanley Kubrick. Dal romanzo di Vladimir Nabokov. Sceneggiatura di Vladimir Nabokov, Stanley Kubrick Fotografia: Oswald Morris Musica: Nelson Riddle Con James Mason, Peter Sellers, Sue Lyon, Shelley Winters, Gary Cockrell, Jerry Stovin, Diana Decker, Lois Maxwell, Shirley Douglas (152 minuti)

In “Lolita” non c’è musica. O meglio: c’è, ma è come se non ci fosse. E’ la normale musica da film, da colonna sonora: fa da sottofondo, magari è piacevole, ma ci si fa appena caso.
Conoscendo Kubrick, è un particolare importante. Anche se questo è un film del primo Kubrick, quello degli anni 50 (la svolta avverrà con “Il dottor Stranamore”), c’era molta musica anche nei suoi primi film, e in Kubrick la musica è fondamentale, un vero elemento narrativo al pari dei dialoghi e delle immagini.
C’è un’altra cosa che colpisce in “Lolita” di Kubrick, ed è la sgradevolezza dei personaggi. Non degli attori, si badi bene, che sono scelti con grande cura e sono bravissimi, ma proprio dei personaggi, e del modo in cui sono rappresentati. C’è una sgradevolezza di fondo in tutto il film, una sgradevolezza cercata, come se Kubrick avesse voluto sondare l’aspetto sordido, vorrei dire sporco, che c’è in ognuno di noi. Perché ad essere sgradevole, e sordido, non è solo il pedofilo Humbert Humbert (interpretato da un grandissimo James Mason) ma un po’ tutto il campionario di umanità presente nel film, a partire dalla madre di Lolita (Shelley Winters, altrettanto grande in una parte così ingrata), e passando per l’ineffabile Quilty, che della sgradevolezza è l’emblema.
Ma anche la ragazza, Dolores Haze detta Lolita, al di là dell’aspetto fisico è tutt’altro che gradevole; anche senza entrare nei particolari (ma Nabokov nel libro lo fa ), non è certo la simpatia la sua dote principale.
Ecco dunque un possibile significato dell’assenza di musica nel film, o della scelta di musiche insipide e che scivolano via senza un ricordo: è un aspetto fondamentale del sordido, dello sgradevole, della mancanza di profondità e di gusto. In tutti noi c’è un angolo così, ed è questo che interessa a Kubrick nel soggetto. Non a caso, sceglie per Quilty (un personaggio che nel romanzo è quasi un’ombra) un attore fenomenale e strabordante come Peter Sellers: perché è su di lui che si concentri la nostra attenzione, e non su Humbert, che invece è presente dall’inizio alla fine.
Incuriosito dal film, e da altri libri e frammenti di Nabokov che avevo letto e che me ne avevano mostrato la grandezza, quest’inverno mi sono finalmente deciso a leggere “Lolita” per intero. Devo dire che la prima parte è davvero pesante, e dire che è scabrosa significa usare un gentile eufemismo. Ho fatto fatica a superare la centesima pagina, avrei buttato via volentieri il libro ma mi sono fidato di Nabokov e di Kubrick. E infatti nella seconda parte il libro prende quota, diventa quel viaggio attraverso l’America che si racconta, e diventa anche un viaggio dentro di noi, che – sembrerà strano a dirlo, e certo Nabokov si ribellerebbe all’idea – lo apparenta un po’ a “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.
Nella seconda parte del libro, Humbert e Lolita viaggiano molto, e si fermano in alberghi e motel: ed è qui che salta fuori in pieno l’aspetto sordido, un po’ sporco, dei personaggi e dell’ambiente.
Nel film, Kubrick deve per forza di cose ridurre questo lungo viaggio a poche sequenze, ma sono magistrali. Magistrale è il colloquio serale tra Quilty (in ombra) e Humbert (in luce) proprio in un albergo; e magistrale è l’arredamento della stanza d’albergo in cui Humbert e Lolita trascorrono la loro prima notte. Del resto, si sa che uno dei punti di forza di Kubrick è l’esattezza del dettaglio: in “Lolita” è mostrata chiaramente la linea di confine tra la realtà e l’idealizzazione che della realtà noi facciamo nelle nostre fantasie. E, se le nostre fantasie sono sordide, la realtà sarà sicuramente peggiore: noi non ce ne accorgiamo, l’occhio della cinepresa sì; e a volte basta una fotografia per smontare certi nostri momenti.
Kubrick nei suoi film ha fatto un viaggio all’interno della natura umana; ne ha mostrato il meglio (il tenente Dax di “Orizzonti di gloria”) e il peggio (Alex di “Arancia meccanica”, Humbert di “Lolita”). E’ questa la sua grandezza, che lo apparenta a registi altrimenti diversissimi, come Jean Renoir; ed è anche questo scavare nell’animo umano (nel nostro animo) che lo rende sgradevole a molti, e non consigliabile agli spettatori più sprovveduti.
(continua)

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