lunedì 25 ottobre 2010

Donne in attesa ( II )

KVINNORS VANTAN (DONNE IN ATTESA, 1952). Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer. Musica: Christoph W. Gluck; musiche originali di Erik Nordgren. Scenografia: Nils Svenwall. Montaggio: Oscar Rosander, Interpreti: Anita Björk (Rakel), Maj-Britt Nilsson (Marta), Eva Dahlbeck (Karen), Gerd Andersson (Maj), Aino Taube (Annette), Jarl Kulle (Carl Hesster), Karl Arne Holmsten (Egen, il marito di Rakel), Birger Malmsten (Martin, il marito di Marta), Gunnar Björnstrand (Fredrik, il marito di Karen), Björn Bjelvenstam (Henrik), Heekan Westergren (Paul, il marito di Annette), Naima Wifstrand (la vecchia Lobelius), Marta Arbin, Kjell Nordenskold. Produzione: Allan Ekelund per la Svenskfilmindustri. Durata: 107 minuti
Nel secondo episodio di “Donne in attesa”, che si svolge a Parigi, una ragazza viene corteggiata in maniera piacevole e inusuale da un giovane pittore e scultore: attraverso la porta lasciata socchiusa, il giovane le passa alcuni oggetti. Bergman ci mostra soltanto la ragazza, mentre li riceve e mentre pensa a cosa deve fare: la sorpresa è molta, e sa già che quel ragazzo le piace.
Dapprima arrivano dei bigliettini accuratamente piegati: chi li scrive è un bravo pittore e una persona gentile, sono quindi messaggi piacevoli. Poi è il turno di un bicchiere, probabilmente di vino rosso: la ragazza prende il bicchiere, lo tiene fra le mani, non beve ma il regalo le fa evidentemente piacere. Infine, ecco arrivare dalla porta socchiusa un altro oggetto: è una statuetta femminile, molto simpatica ma davvero curiosa, d’aspetto fuori del comune. La ragazza la rigira fra le mani, la sorpresa è grande, si accorge che quel ragazzo comincia davvero a piacerle.
Bergman non ci mostra la conclusione di questa scena, ma subito dopo vediamo i due giovani insieme, nelle strade di Parigi, e sappiamo da subito che i due si metteranno insieme, anche se non saranno soltanto giorni felici.
Questa statuetta mi ha colpito molto, perché si tratta di un simbolo tutt’altro che casuale, e non credo che sia lì per caso. Mi stupisce piuttosto la data del film: 1952. In quest’anno, gli studi sul matriarcato e sull’arte del Paleolitico e del Neolitico non erano ancora così avanzati, ma forse sono io che mi sbaglio – in fin dei conti non sono un esperto, queste cose le capisco appena.
Direi che è meglio dare la parola a chi se ne intende davvero, in questo caso la lituana Marija Gimbutas (1921-1994) che all’argomento ha dedicato studi serissimi come archeologa e come antropologa.
(...)Per l'Europa antica, con la sua effusione di arte religiosa, sono state individuate così tante statuette in così tanti siti, che non si possono quantificare con precisione. In tutto le statuette dell'Europa antica sono all'incirca centomila o più, contando anche le statuette rotte o danneggiate, ignorate nei primi scavi.. Fortunatamente, insediamenti, cimiteri e tombe, che rappresentano eccellenti contesti, costituiscono la maggior parte dei siti neolitici. Le innumerevoli statuette del neolitico, nei loro siti originari, conservano in profondità la ricchezza della spiritualità antico-europea.
(...) Il corpo umano è uno dei simboli più importanti dell'Europa antica. Dalla nostra moderna prospettiva culturale, si tende spesso ad accostare la nudità all'eccitazione sessuale. Il moderno specialista proietta queste abitudini indietro di migliaia di anni e presuppone che quell'antica rappresentazione del corpo si ponga fondamentalmente al servizio dello stesso desiderio. Il nostro schema culturale è inoltre condizionato dalla presunzione che le rappresentazioni femminili riguardino invariabilmente la "fertilità della terra"; da qui, tutti i manufatti che espongono nudità femminili diventano "statuette della fertilità". Le culture dell'Europa antica senz'altro avevano a che fare con la fertilità. Ma, per quanto possiamo vedere, l'ampia varietà di statuette, in particolare i loro contesti archeologici del neolitico, suggerisce un ruolo religioso più complesso svolto dalla forza femminile. L'arte molto sofisticata del neolitico mette in scena, accentuando la nudità femminile, una sessualità naturale e sacra dimenticata dalla cultura moderna.

Nell'arte religiosa, il corpo umano simboleggia miriadi di funzioni oltre a quella sessuale, in particolare la procreazione, la nutrizione e il potenziamento della vita. Io non credo che nelle prime ere esistesse l'oscenità come concetto che coinvolgesse il corpo femminile o quello maschile. La rappresentazione del corpo svolgeva altre funzioni, nello specifico l'aspetto nutritivo e procreativo del corpo femminile e le qualità del corpo maschile che stimolano la vita. La forza femminile, come la dea gravida della vegetazione, incarna profondamente la fertilità della terra. Ma la complessa, sofisticata arte che coinvolge la dea neolitica, è un mutevole caleidoscopio di significati: essa personificava ogni fase della vita, della morte e della rigenerazione. La dea era la Creatrice dalla quale tutta la vita - umana, vegetale e animale - deriva, e alla quale tutto ritorna. Il suo era un ruolo che andava ben oltre l'erotismo.

Il fatto che queste statuette femminili non riproducano realisticamente il corpo umano o animale, smentisce il loro utilizzo come mera arte erotica. Il corpo è quasi sempre astratto o esagerato in qualche sua parte. Le modifiche non sono accidentali: Un breve sguardo sull'arte neolitica mostra che i più raffinati artigiani della ceramica potevano ottenere qualunque effetto desiderassero. Le modifiche apportate intenzionalmente al corpo umano esprimevano diverse manifestazioni dell'intima forza divina. Prima di discutere le tipologie di divinità rappresentate dalle statuette, occorre concentrarsi sulle varie particolarità dell'arte delle statuette: schematizzazione, maschere, geroglifici ed esagerazione di alcune parti del corpo, ovvero tutto ciò che era convenzionale per gli artisti dell'Europa antica. (...)

Nell'Europa antica, i corpi maschili e femminili stilizzati, congiuntamente ai loro simboli, spesso rappresentavano la forza sacra. Molte statuette sono veri capolavori di ceramica, ma altre sono stranamente incomplete, a volte limitandosi a niente più che un semplice cilindro d'argilla con seni o natiche esagerati o un ventre gonfio senza braccia o gambe. I loro creatori spesso vi incidevano simboli, come bi-linee o tri-linee, spirali o meandri, zig-zag o losanghe.
Le statuette stilizzate costituiscono uno degli aspetti più accattivanti e intriganti dell'arte antico-europea. Benché la pregevole somiglianza realistica sia quella che più attira l'attenzione, sono state trovate molte più figure stilizzate rispetto a quelle a figura intera. Questo non dovrebbe sorprendere, dato che l'arte preistorica era un'arte simbolica. Gli artigiani dell'Europa antica potevano facilmente creare statuette stilizzate e, come la croce cristiana, queste figure comunicavano nell'arte religiosa gli stessi concetti simbolici dell'arte rappresentativa. Queste immagini semplificate non sviliscono il corpo umano: anzi esprimono un messaggio sacro.

PARTI DEL CORPO ESAGERATE. Per esprimere determinate funzioni sacre, spesso le statuette e altre opere d'arte in ceramica presentano insolite mutazioni o enfatizzazioni. In particolare le statuette femminili mostrano questo genere di accrescimento per rappresentare il complesso della forza femminile. Alcune statuette hanno un corpo esageratamente appesantito e sono state interpretate da qualcuno come figure obese o "grasse signore". Indubbiamente il corpo esageratamente appesantito doveva essere tenuto in gran conto, dal momento che compare, sotto forma di statuette femminili, in molte diverse culture. Altre statuette si concentrano sugli organi sessuali, i seni, la vulva e le natiche. Una tale enfasi accresce il potere di quella particolare parte del corpo. Per esempio molte statuette e molti vasi mostrano seni prominenti. La tradizione di enfatizzare i seni in realtà incominciò molto prima, durante il paleolitico superiore, e proseguì anche fino all'età del bronzo. I seni simboleggiano il nutrimento e la rigenerazione della vita. La riproduzione dei seni sulle ceramiche rituali mostra chiaramente il corpo femminile, e per estensione il corpo della femmina divina, come involucro di nutrimento o di rinnovamento. Nonostante i seni incarnino naturalmente il nutrimento e il sostentamento della vita, la loro vivida riproduzione sui muri delle tombe megalitiche indica anche il vasto ruolo spirituale della dea antico-europea per quanto riguarda la morte e la rigenerazione della vita.

In molte statuette, i seni e le parti superiori del corpo appaiono relativamente sottili e de-enfatizzate, mentre le parti inferiori - natiche, cosce e gambe - sono ingrandite oltre le proporzioni naturali. Il centro gravitazionale delle statuette, e il suo significato religioso, soggiace nella parte bassa del corpo. Queste statuette spesso esibiscono vulve e natiche enfatizzate. Nonostante si pensi quasi automaticamente alle vulve e alle natiche come a simboli sessuali, nell'arte dell'Europa antica esse significano più propriamente elargizione di vita e sostentamento, piuttosto che erotismo. Il valore simbolico delle natiche enfatizzate è collegato ai seni e al doppio uovo, in cui il potere del simbolo vivificante si accresce duplicandosi. Talvolta l'artigiano modellava le natiche di una statuetta su pezzi d'argilla o su ciottoli a forma di uovo trasmettendo così l'interconnessione dei simboli delle natiche e dell'uovo. Questo simbolismo fu ereditato dal paleolitico superiore: su rocce risalenti al periodo Magdaleniano, nel sud della Francia (La Roche, Lalinde) e della Germania (Gönnersdorf), gli artigiani incidevano le natiche su silhouette e le contrassegnavano con una, due o più linee. Le statuette del primo neolitico con le natiche a forma di uovo spesso sono incise con bi-linee, forse per illustrare la dimensione per la quale un essere umano diventa due: la gravidanza.
Sia nell'arte del paleolitico superiore che in quella del neolitico la vulva domina le rappresentazioni simboliche, apparendo separatamente, oppure molto ingrandita su statuette e recipienti di ceramica. La vulva compare come un triangolo, un ovale, un cerchio aperto, o anche come una gemma o un ramoscello - il che enfatizza il suo ruolo generatore di vita rispetto a quello erotico. La frequenza e la durata nel tempo di questo simbolo (più di trentamila anni) nei reperti archeologici, testimoniano del suo ruolo essenziale nel sistema di credenze. Tre grandi figure femminili scolpite nella roccia ad Angles-sur-l'Anglin (Vienne), nella Francia meridionale (risalenti circa al 17.000-14.000 a.C.), non esibiscono testa, seni, mani e piedi, ma sono dotate di vulve prominenti. Giedion (1962, p. 178), commentando il fregio di Anglin, dice: "Se ci fosse stato il bisogno di rappresentare il corpo intero, lo si sarebbe potuto fare agevolmente per lo spazio disponibile. Ma evidentemente questo bisogno non era avvertito, e così sono stati incisi solamente l'addome, l'arca pelvica e la vulva. La figura intera non era importante, ma solo le parti che stanno per il tutto". Si può facilmente comprendere perché la vulva figurasse in modo tanto preponderante sulle tracce scritte e i messaggi simbolici codificati dagli artigiani sulle statuette. Su una statuetta del 5000 a.C. circa, dei semicerchi mettono in evidenza una vulva ovale, mentre una decorazione a meandri e spirali si sviluppa sulle natiche e le cosce (fig. 3). Questa combinazione simbolica comunica dinamismo: crescita, flusso e mutamento. Come anche in altre forme simboliche, la forza femminile è attiva e dispensatrice di vita. La dea incarna il mistero di una vita nuova.
Marija Gimbutas, da “Le dee viventi” (The living Goddesses: Religion in pre-patriarchal Europe, Univ. of California 1999). Pubblicato in Italia da Edizioni Medusa, Milano.
(pagine 37-40)
Ecco: un po’ lungo, ma direi che ne valeva la pena. Tutto il libro è di quelli da conoscere, da leggere con attenzione: Maria Gimbutas è stata una grande divulgatrice, ma purtroppo solo in America, non certo da noi. Da noi, quando si parla di questi argomenti, si ride e si rimane sconcertati: l’ilarità cresce ogni volta che, a proposito di queste statuette, si parla di “veneri”: la Venere di Willendorf, per esempio. Una Venere quella roba lì?
Maria Gimbutas ci ricorda un concetto che è sotto i nostri occhi ad ogni momento, la stilizzazione: ma se non vogliamo vedere non riusciremo a vedere nemmeno ciò che sta sotto al nostro naso, e continueremo a ritenere i nostri antenati (europei, si badi bene) come dei minorati mentali mentre la realtà era ben diversa. En passant, si può ricordare che fino a pochi decenni fa essere grassi era una fortuna riservata a poche persone, molto invidiate: si spiega così anche la grassezza dei Buddha, e anche il mito delle epiche mangiate di Gargantua e Pantagruel. (Questa qui sotto è la famosa e bellissima "Dormiente" di Malta, conservata nel Museo de La Valletta).

Nel film ci sono molti altri dettagli che andrebbero approfonditi: ed è un peccato che Bergman non sia più qui per potergli chiedere che intenzioni aveva, e se eventualmente ha avuto delle consulenti.
Per esempio, nel primo episodio Jarl Kulle ripesca un bambolotto dall’acqua, lo sistema meglio che può e lo mette a guardia della soglia; nel secondo episodio c’è una magnifica evocazione della Luna, la “casta diva” che per la nostra cultura è strettamente legata all’universo femminile; nell’ultimo episodio, Eva Dahlbeck spinge via una carrozzina proprio prima di entrare in casa – così almeno lei crede: l’ascensore si bloccherà e la costringerà ad un imprevisto tutto sommato piacevole. Questa carrozzina spostata significa forse che i due protagonisti si sentono ormai troppo vecchi per avere altri bambini, ma la storia che vediamo seguire a questo inizio sarà una piccola smentita a questa mia ipotesi. Sempre nell’episodio centrale (che è il più lungo) si può sottolineare la presenza molto potente delle musiche dall’Orfeo di Gluck: una discesa agli inferi per recuperare la vita dell’amata Euridice.
Ma a questo punto, per chiudere, preferisco ricordare una delle principali teorie di Maria Gimbutas: da archeologa, stanca di ritrovare armi e spade e corazze, si chiese: “è mai esistita un’epoca senza guerre?”. E si dedicò a cercare insediamenti umani precedenti, sempre più antichi: in Europa si potevano ancora trovare aree mai toccate dalla “civiltà”, e scavare. La risposta fu positiva, Maria Gimbutas trovò i resti di città antiche senza mura protettive, senza fortezze, dove le armi erano solo quelle necessarie per la caccia e il sostentamento umano. Quella civiltà pacifica era matriarcale, durò per secoli, e fu spazzata via dall’arrivo di quelli che probabilmente sono i nostri veri antenati, i guerrieri (cioè assassini, Caino e Abele) dell'etnia Kurgan: i dettagli li potete trovare nel libro che ho citato sopra, le prove ci sono e sono abbondanti. Ognuno è poi libero di farsi un’opinione, ma gli studi della Gimbutas sono serissimi e ben saldi sulla nostra madre terra; e ringrazio Ingmar Bergman per avermi permesso questa digressione, della quale sentivo il bisogno – visti i tempi che corrono.

4 commenti:

Marisa ha detto...

Apprezzo il fatto che l'immagine della statuetta femminile di stile arcaico ti abbia dato lo spunto per il bellissimo exursus sul "matriarcato" e i suoi simboli, aspetti che hanno nutrito e regolato per millenni la vita ed aperto la strada alla sua visione sacra.
Dal leggendario e monumentale libro di Bachofen (del 1861, ma tradotto in italiano solo nel 1988!) sul matriarcato si è finalmente riavviata almeno la curiosità per il mondo pre-patriacale in cui è quasi sempre stata confinata la nostra coscienza, con tutti i pregiudizi e le conseguenze che essa comporta...
Mi fa molto piacere che in un regista come Bergman, così profondamente segnato dai conflitti di stampo patriarcale, nei momenti più felici e giocosi, riemergano spontaneamente influssi "matriarcali".

Giuliano ha detto...

Questo film mi ha veramente spiazzato, mi ricordavo solo un po' del primo episodio (la scena del pontile) e quasi tutto l'ultimo (l'ascensore, impagabili i due protagonisti), ma questa cosa della statuetta mi ha davvero sorpreso, perché se guardi il disegno è proprio uguale!
Ho imparato a conoscere la Gimbutas da una di quelle conferenze che trasmetteva la TSI (come i doc. su Jung, su Zolla, su Campbell...). L'argomento è molto bello, purtroppo: 1) ahimè, io non sono all'altezza di portarlo avanti 2) purtroppo, non sono questi i tempi. Anzi, le donne che arrivano al potere sono anche peggio dei maschi: pensa alla Thatcher, alla Rice! E da noi c'è la Carfagna, la Gelmini, mi sa che sono tutte di etnia Kurgan.

Marisa ha detto...

Questo perchè anche le donne partecipano da troppo tempo allo spirito patriarcale ed hanno rimosso , come tutti, lo strato più profondo e vicino ai ritmi della natura. La femminilità, come quasi tutta la sessualità, viene utilizzata quasi esclusivamente come mezzo di seduzione e di strumentalizzazione ai fini del potere o del piacere, come immediata soddisfazione del desiderio, proprio secodo il modello consumistico dell'usa e getta...

In quanto ai due modelli delle sculture e bassorilievi a cui allude la Gimbutas, le immagini più naturalistiche con l'evidenziazione degli attributi fisici e sessuali (seni, fianchi,ecc...,stile Botero) erano finalizzate a celebrare la "Grande Madre" come portatrice di Vita e di fertilità, quelle più astratte e stilizzate (stile Modigliani o Picasso) si riferivano di più alla sua parte spirituale e al rapporto con la morte. Questo per lo meno secondo il pensiero di Neumann, un allievo di Jung che ha lavorato molto sull'archetipo della "Grande Madre".

Giuliano ha detto...

Avrai notato l'immagine che ho messo in apertura: l'ho messa per sottolineare il contrasto con le immagini di donne che circolano adesso in tv e sui giornali. Una bellezza artefatta, che ha ben poco di femminile. Non sono sicuro del nome dell'attrice, ma questa è una bellezza vera, dovrebbe essere questo il modello di corpo femminile da indicare alle bambine.
Invece domina il tipo Barbie, come sottolinei tu; per contrasto ci sono sempre più ragazze obese, ma in questo caso direi che non c'è niente di positivo, in nessuno dei due modelli.

Le donne di Bergman sembrano più belle di quello che sono, e se si prova a cercare Liv Ullmann o Bibi Andersson nei film di altri si rimane sempre un po' delusi, perché sono donne belle ma normali. Nei suoi libri Bergman scherza e sorvola su questi film e su questi argomenti, ma io direi che si tratta di un rapporto profondissimo con la cultura matriarcale, quella vera.