Andrej Rublëv (id.) 1966 Regia: Andrej Tarkovskij; soggetto e sceneggiatura: Andrej Tarkovskij, Andrej Michalkov-Koncalovskij; fotografia (BN e Sovcolor, Scope): Vadim Jusov; musica: Vjaceslav Ovcìnnikov; suono: I. Zelenkova; montaggio: L. Fejginova, T. Egoryceva, O. Shevkunenko; scenografia: Evgenij Cernjaev (con la collaborazione di I. Novoderezkin, S. Voronkov); costumi: L. Novi, M. Abar-Baranovskaja; trucco: V. Rudina, M. Aljautdinov, S. Barsukov; interpreti: Anatolij Solonicyn (Andrej Rublëv), Ivan Lapikov (Kirill), Nikolaj Grin'ko (Daniil Cérnyj), Nikolaj Sergeev (Feofan Grek), Irma Raush [Tarkovskaja] (la scema), Nikolaj Burljaev (Boriska), Jurij Nazarov (il Gran Principe e il Principe Minore), Roland Bykov (il saltimbanco), Jurij Nikulin (Patrikej), Michail Kononov (Fomka), Stepan Krylov (il fonditore di campane), Sos Sarkisjan (Cristo), Bolot Bejsenaliev (il khan tartaro), N. Grabbe, B. Matysik, A. Obuchov, Volodja Titov, N. Glazkov, K. Aleksandrov, S. Bardin, I. Bykov, G. Borisovskij, V. Vasil'ev, Z. Vorkul', A. Titov, V. Volkov, I. Mirosnicenko, T. Ogorodnikova; produzione: Mosfilm (Gruppo Artistico degli Scrittori e Cineasti); direttore della produzione: T. Ogorodnikova; durata: 190'; data di lavorazione: 1966; prima uscita: 1969 (Festival di Cannes), 1971 (Urss); distribuzione italiana: Ceiad Columbia.
(...) L'uomo spalanca le ali e, dandosi una spinta, salta giù dal campanile. La folla rimane immobile, a bocca aperta, e terrorizzata si divide in due gruppi, liberando un passaggio al di sopra del quale passa, volando, l'uomo. Egli vola sopra la terra, come un angelo.
Vede i fiumi e i campi, la chiesina di pietre bianche sulla cima della collina circondata dalle foglie scintillanti delle betulle, il cimitero con le croci storte, il bagliore infuocato del sole sull'acqua, gli uomini che falciano il fieno immersi fino alla cintura nell'erba, le donne che raccolgono il grano. Da lì, da quella irraggiungibile, fantastica altezza, sembrano tutti piccolissimi. Vede lontananze azzurre e grigie che si allontanano sempre più l'una dall'altra in onde calme, fino all'estremo confine tra cielo e terra, isbe arrampicate su dolci pendii, greggi che brucano nei prati umidi immersi nell'ombra, campi di grano giallo dorati dal sole che al soffio del vento si abbassano e poi si rialzano formando continue onde, morbide strade polverose con isole di erba ancora intatta che si stendono attraverso i campi e lungo il fiume o si snodano tra boschi scuri, fitti e ispidi, tra campi rossi, gialli e ruggine e prati turchesi... Vede la sua terra, la terra dove è nato e dove morirà, la vede come nessun altro prima di lui l'ha vista e come certamente nessuno la vedrà ancora per molti molti anni. L'uomo alato scompare dietro il bosco. La folla, colpita, si inginocchia, poiché la santità dell'uomo che sta volando nel cielo è chiara e infinita. Rompendosi le ali e le braccia, spezzando i rami, l'uomo cade giù, nello scintillante biancore di un bosco di betulle, e, precipitato a terra, muore, rovesciando il volto sorridente e insanguinato mentre nei suoi occhi spiritati si rispecchia il cielo serale. Nel fitto del bosco di betulle appare un cavallo nero. Scorrono i titoli, mentre la cinepresa fa una panoramica sui bianchi tronchi delle betulle.
E di nuovo il cavallo nero, ma questa volta vicinissimo. Freme dalle narici, storce gli occhi e nitrisce piano, spaventato dalla vista dell'uomo morto.
(Andrej Tarkovskij, pag.116 di “Andrej Rublëv”, editore Garzanti 1992)
Torno sull’ Andrej Rublëv di Tarkovskij cercando di trovare un filo conduttore che mi permetta di chiudere il mio discorso, almeno per ora. Ma so che è un’impresa impossibile, il film è talmente ricco che non si finisce mai di tornarci sopra.
Il brano che ho riportato qui sopra viene dalla prima stesura che il regista scrisse per realizzare il film, che è stato pubblicato come libro a sè, e che presenta alcune differenze con quello che vediamo nella realizzazione definitiva. Nel film, questo volo è messo all’inizio; e l’uomo che vola (nel 1400) ha preparato una piccola mongolfiera, riempita con aria calda; nel libro era invece un volo leonardesco, che prevedeva ali artificiali, da aliante; ma poi lo svolgimento è lo stesso, compresa la catastrofe finale.
E’ una sequenza onirica eppure più vera del reale, realizzata in modo magistrale, molto breve. Dopo il volo iniziale, comincia l’azione vera e propria del film, con i tre monaci in viaggio, a piedi, nella pioggia.
Forse si può dire che il tema principale del film, il motivo che spinse Tarkovskij a realizzarlo, è il rapporto tra l’arte e il potere, o forse tra la libertà di pensiero e chi vorrebbe costringerla. E’ un tema sempre presente: si comincia con il giullare, che viene represso violentemente dalle guardie per essersi preso troppe libertà, e che viene stigmatizzato duramente da frate Kirill, perché “canto e danza sono opera del diavolo”. Si continua con i pittori accecati, con i tartari a cavallo nella Cattedrale, e in tutto il film è presente il tema dell’invidia, personalizzata da frate Kirill: perché il Signore ha distribuito il talento solo a certe persone, che magari non hanno fatto niente per meritarselo?
E, soprattutto: che senso ha l’arte nel tempo delle grandi tragedie? Si può fare arte, perdere tempo a dipingere o a scrivere, quando il mondo è sconvolto da peste, guerra, carestia?
Ci sono scene molto violente, nel Rubliov; e non c’è da stupirsi. Tarkovskij nasce nel 1932, quindi ha tutto il tempo di rendersi conto di cosa succede intorno a lui, e non sono eventi da poco.
Il fatto che un film come questo sia stato realizzato non può cessare di stupire. Il fatto che un giovane regista, nell’Unione Sovietica dei primi anni ‘60, abbia ricevuto fondi e mezzi consistenti per realizzare un kolossal sulla vita di un frate pittore di icone vissuto nel ‘400, è sinceramente qualcosa che va oltre la nostra immaginazione. A ciò si aggiunga che Tarkovskij è così abile (e quindi così disgraziato) da riuscire a realizzare un capolavoro, perfetto in ogni suo momento; un film che va in giro per il mondo, viene visto da tutto il mondo, riceve i premi più importanti. In ciò, Tarkovskij è recidivo: anche il suo primo film, “L’infanzia di Ivan”, aveva subito la stessa sorte...
In un paese normale, sarebbe l’inizio di una brillante carriera. Ma l’Unione Sovietica del 1966 non era un paese normale. Quando i burocrati sovietici si accorgono di aver finanziato un film sulla vita di un monaco pittore di icone, e che oltretutto è un film molto critico verso il potere, è ormai tardi per bloccare tutto. Tarkovskij viene severamente ripreso, e gli verrà impedito di fare cinema per otto lunghi anni. Gli va già bene, perché gli anni di Kruscëv e Brezhnev non sono quelli di Stalin; ma questo lungo divieto, questa paura di lavorare (e di pensare) come sapeva e come si sentiva, segnerà profondamente il giovane regista. Tarkovskij, dopo il Rubliov, tornerà al cinema solo nel 1974, con “Solaris”: un altro grande film, ma non è più la stessa cosa e si vede.
Andrej Rubliov è un personaggio storico, monaco e pittore di icone, vissuto tra il 1370 e il 1430, che fu allievo di Teofane il Greco, un altro grande pittore attivo in Russia in quegli anni. Ad Andrej Rubliov si deve la nascita della grande scuola russa, e la sua icona della Trinità è ancora oggi veneratissima.
La vita di Rubliov è narrata attraverso una serie di episodi, spesso drammatici, inseriti nella storia russa di quel periodo. La visione del film richiederebbe uno schermo enorme: il formato della pellicola è abbastanza fuori dal comune. Rivedendo il film sul dvd, dove è possibile fare il fermo immagine, quasi come alla moviola, colpisce la perfezione di ogni inquadratura. Non ho mai visto una perfezione simile, in ogni dettaglio. Il campo visivo da coprire è enorme, eppure non c’è niente che non sia meno che perfetto. Niente è lasciato al caso, tutto ha un significato forte, ogni dettaglio ha un suo preciso significato. Sembra di essere lì in mezzo, nella Russia del ‘400: gli sguardi dei bambini, la crudeltà dei tartari, il nudo femminile, il freddo e il fango, le pareti bianche della chiesa, tutto ha un’evidenza fuori del normale. A tratti sembra di essere entrati in un quadro di Bruegel, in un viaggio indietro nel tempo: il gelo, il freddo, gli animali, il fiume, i vestiti, la pioggia...
Tarkovskij non farà più un film così perfetto. Gli anni “di esilio” lo hanno segnato, ci sarà sempre nei film successivi un certo distacco, quasi uno sprezzo, una voluta e ricercata sciatteria alternata a momenti di di perfezione assoluta.
Forse solo un giovane (Tarkovskij aveva appena passato i trent’anni) poteva pensare di realizzare un film del genere senza pagare dazio. Il film racconta la negazione dell’arte: l’accecamento dei pittori (ad opera delle guardie del Principe, offese da alcune piccole critiche a loro rivolte per le circostanze nelle quali dovevano lavorare gli artisti), le bastonate al giullare, Rubliov che getta il nero sulla parete bianca, la violenza della guerra, l’intolleranza religiosa... Anche in URSS, come ai tempi di Rubliov, non era facile essere un artista, esprimersi con libertà era impossibile. Va però aggiunto che questo film esiste, e che ha circolato liberamente per tutti questi 40 anni; forse è un paradosso, ma nel mondo libero attuale un Tarkovskij giovane, che volesse realizzare un film come questo, non arriverebbe neanche nell’ufficio di un produttore. La censura del libero mercato è molto più forte di quella sovietica...
Ancora due parole prima di chiudere, per un pensiero che mi è sorto rivedendo il film: la somiglianza della sequenza della costruzione della campana con alcuni momenti (la fatica fisica, il lavoro manuale, le gru e le carrucole tirate a mano) con un film che racconta tutt’altra storia: il “Fitzcarraldo” di Werner Herzog. Herzog ha intitolato “La ricerca dell’inutile” il libro dove ha raccolto gli appunti presi durante la lavorazione del suo film; e anche costruire una grande campana in quelle condizioni è un’impresa titanica, costosa, e tutto sommato inutile. Ma quell’inutile, dopo i tartari e dopo la peste, significa molto (inutile come Mozart, come dice una vecchia battuta; e inutile come la ricostruzione della Scala nella Milano del 1946, prima ancora delle case e delle strade).
Di quella sequenza ricordo la fornace da scavare, l’estrema durezza e crudeltà del ragazzo, e la sua decisione estrema nel dirigere i lavori verso una direzione che in realtà non esiste.
E una sequenza misteriosa ed emblematica: una donna vestita di bianco, e un cavallo portato a mano da un ragazzo, passano sullo sfondo mentre Rubliov abbraccia e consola il ragazzo. Appaiono subito dopo il collaudo della campana, dopo che il primo rintocco, quasi miracoloso, è echeggiato per la valle.
6 commenti:
caro giuliano,
sono finita sul tuo bel blog via blog di robecchi. complimenti. mi ha flashato la prima immagine perché io amo il cinema di tarkovskij, le sue lentezze e complessità stratificate, così vere.
grazie. mi sa che passerò spesso per dilettarmi di buon cinema. buon proseguimento e vivi felice.
ab
Sto mettendo tutto il Tarkovskij che posso mettere, un po' alla volta: ma Solaris e Stalker e Lo specchio e Nostalghia sono già pronti. Però non sono un esperto, sono solo un appassionato di cinema. (Tarkovskij è stato il mio grande libro di filosofia)
Grazie per essere venuta fin qui!
Eccomi a cercare di mettere giù qualche mia impressione su questo capolavoro, senza minimamente pretendere di aggiungere qualcosa di importante, ma semplicemente per ragionare con te su qualche aspetto e, soprattutto per smaltire un pò di emozione condividendola.
Non so perchè hai messo la scena iniziale del volo a chiusura dei tuoi post, anche se c'è una circolarità nel senso che il film si chiude con una scena di natura con cavalli nella campagna russa e inizia con grandi inquadrature di paesaggio e la bellissima scena del cavallo nero che si rotola (in verità subito dopo lo schianto del volo). Io preferisco partire dalla scena iniziale perchè mi sono molto interrogata su questa e prorio sul suo possibile significato di apertura di un film così complesso, visto che Tarkovskij non fa niente di casuale ed approssimativo.
Gli incipit sono sempre molto importanti nelle grandi opere: "Nel mezzo del cammin..."
"Chiamatemi Ismaele..." e così via...
Mi sono venute un paio di idee: una me l'ha suggerita Tarkovskij stesso nella pagina che tu riporti sulla preparazione della scena, in cui dice che doveva trattarsi di un volo "leonardesco", sostituito poi con una rudimentale mongolfiera, più aderente ai tempi e allo spirito del popolo russo, immagino. Comunque l'idea dell'uomo che cerca di "volare", di andare contro le leggi della gravità e dell'aderenza alla terra è un veccho sogno dell'uomo e di Leonardo in particolare. E qui mi riporto alla discussione su Leonardo e le icone fatto da Candida a commento in un post di Stalker, alla particolare contrapposizione tra lo spirito leonardesco e quello che ispira le icone, quindi si può dire tra Leonardo, l'uomo del rinascimento che mette l'uomo al centro, e da lì cerca di elevarsi al divino, e Andrej Rubliov che con le icone testimonia l'ortodossia religiosa in cui il divino si espande e scende come luce dorata per la contemplazione umana.
Subito Tarkovskij ci avverte che qui siamo dalla parte di Andrej Rubliov e quanto pericolosa sia l'impresa leonardesca, anche se così affascinante, come testimoniano le altre sue opere dove appaiono continuamente opere di Leonardo, fino a "Sacrificio" dove dichiarerà esplicitamente, attraverso Otto, come Leonardo sia inquietante...
L'altra idea deriva in fondo dalla prima ed è una conferma mitologica. Mi sono venuti in mente i miti di Icaro e di Fetonte, dell'aspetto adolescenziale dell'uomo che nell'ebbrezza del volo sfida "il padre" e ne rimane distrutto. E' la classica hybris che agisce dal profondo, quando si sfidano gli dei o le forze archetipiche. Ma credo che sono miti che conosci bene e non mi dilungo.
Per questi post non sono andato in ordine, è un film troppo complesso per me, e avevo preferito procedere per impressioni, per immagini. Oltretutto, essendo un film a episodi si può "saltare" senza comprometterne troppo l'unità. (sono post che risalgono a più di due anni fa, quasi tre).
Procedendo per impressioni, e avendo visto il film già diverse volte nel corso degli anni, mi sono soffermato soltanto su alcuni elementi: questa sequenza, quello del volo iniziale, è di quelle così potenti che mi è difficile aggiungere qualcosa.
Icaro e Fetonte sono riferimenti perfetti, rimanendo nel film collegherei piuttosto questa scena all'accecamento dei pittori, più avanti. E' il tema, fortissimo in Tarkovskij (ma anche in Pasolini) dell'artista che non può dire quello che vuole, che ogni volta rischia di essere frainteso o deriso, o che addirittura rischia l'incolumità fisica. Tema che avrà la sua massima chiarezza nella figura dello Stalker.
L'immagine potente e bellissima del cavallo nero che si rotola e si rialza! Subito dopo lo schianto dell'uomo che sembrava un santo o un angelo nel suo volo. Perchè?
Intanto quello che sembrava un santo non lo era e si rivela un Icaro o un Fetonte, che nel suo orgoglio di "volare alto" si schianta rovinosamente a terra. "Chi troppo in alto sale..." non è moralismo, ma esperienza e saggezza. I confini tra diritto alla conoscenza e all'esplorazione e arroganza sono labili ed impercettibili, ma ci sono e sono inesorabili, carichi di conseguenze, come abbiamo visto con l'uso delle energie dell'atomo, di cui l'uomo si è impossessato. Da Prometeo in poi tutta la storia dell'uomo è una meravigliosa avventura per entrare nella conoscenza sfiorando sempre il grande pericolo di impossessarsesne per i suoi fini egoici e di potere, pericolo che non sempre riesce ad evitare.
Tarkovskij è sempre stato molto preoccupato di questo ed ha cercato di avvisare l'umanità come ha potuto, affidando cioè il messaggio alle bellissime immagini dei suoi film, che vanno visti (me ne convinco sempre più) come un grande affresco e portatori di un unico discorso per risvegliare la coscienza dell'uomo e richiamarla al suo vero compito di sviluppo spirituale.
"Non potrei mai fare un film senza portarci dentro la mia personalità" ha detto in una intervista e di questo dobbiamo tenere conto anche vedendo l'Andrej Rubliov, pechè non sappiamo come fosse il vero Rubliov vissuto a cavallo del '400, ma cerchiamo di capire come Tarkovskij ce lo rappresenta e quindi quale parte del grande pittore sta agendo in lui.
Qui ci dice che anche l'arte non è immune dai percoli dell'orgoglio, dell'inflazione e dell'invidia (vedremo la vicenda di Kiril) e questa sequenza iniziale è un potente avvertimento e una preparazione alla figura di Rubliov, che attraverserà tutto il film guardando (lo sguardo mite ed impareggiabile di Solinicyn!), soffrendo e provando grande compassione e pena per gli uomini.
Ma torniamo al cavallo nero. Per me esprime (è il termine che preferisce Tarkovskij invece di simboleggia) l'enegia naturale, legata quindi potentemente alla madre terra, che si rialza dopo "l'assalto al cielo", la consapevolezza che dobbiamo sempre tutto alla terra e lo sviluppo spirituale non deve tagliare questo legame, pena l'inflazione e il disastro sia individuale sia collettivo come "apocalisse"...
Scrive Vyseslavcev: "Per l'intellettualismo recente è profetica questa espressione di Leonardo da Vinci: "Un grande amore è figlio di una grande conoscenza". Noi cristiani orientali possiamo dire il contrario: "Una grande conoscenza è figlia di un grande amore".
Andrej Rubliov sottolinea questo aspetto. Le famose ragioni della testa e del cuore di Pascal anche qui vengono capovolte...
Tarkovskij va molto al di là del cinema, e fai bene a ricordarlo: io dico sempre che questi film sono stati i miei libri di filosofia, e che partendo da Tarkovskij si possono fare scoperte straordinarie - ma non è che mi capiscano in tanti. Anzi, a dire il vero, quasi tutti si annoiano (ma qui ti rimando alla prima puntata su "Le soulier de satin" di Oliveira).
:-)
E' vero, questa è una figura prometeica: si vuole volare in alto, ma non siamo all'altezza. Lo stiamo facendo anche oggi, siamo tutti felici della nostra tecnologia ma è anche una tecnologia molto fragile, basta un vulcano in Islanda per mandare tutto in confusione. I nostri telefoni e videotelefoni e navigatori satellitari sono più fragili di questa piccola mongolfiera...
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