giovedì 31 dicembre 2009

Il tapiro di Kubrick

2001: A Space Odyssey [2001: Odissea nello spazio] Regia : Stanley Kubrick, 1968. Sceneggiatura: Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke (tratto dal suo racconto «La sentinella») Fotografia: Geoffrey Unsworth. Assistente alla fotografia: John Alcott . Montaggio: Ray Lovejoy. Scenografia: Tony Masters, Harry Lange, Ernie Archer. Effetti speciali (ideazione e direzione): Stanley Kubrick Effetti speciali (supervisione generale): Wally Veevers, Douglas Trumbull, Con Pederson, Tom Howard. Interpreti: Keir Dullea (astronauta Bowman), Gary Lockwood (astronauta Poole), Douglas Rain (la voce di HAL 9000), Daniel Richter (la scimmia che guarda la luna), William Sylvester (dottor Floyd), Leonard Rossiter (Smylov), Margaret Tyzack (Elena), Robert Beatty (Halvorsen). Durata originale: 161 minuti (nei cinema: 141 minuti)

Forse non ci avete mai fatto caso, ma è di un tapiro l’osso che vediamo diventare arma e poi astronave all’inizio di “2001 Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick. E’ una delle sequenze più famose del cinema, ma anch’io non ci avrei mai pensato se non avessi avuto fra le mani il dvd che contiene il film: con il fermo immagine e la possibilità di andare avanti e indietro è infatti diventato finalmente possibile fare anche in casa (e non solo in moviola) osservazioni profonde e pensose come questa, ed anche più profonde.
Un osso di tapiro, dunque: probabilmente il femore, l’osso del prosciutto insomma.
Chissà se qualcuno ha mai fatto prosciutti di tapiro: comunque sia, è singolare che nel film (scritto da Arthur C. Clarke e filmato nel 1968 con la regia di Kubrick) il primo bagliore d’intelligenza sia associato ad un atto violento. Quando il nostro antenato (pitecantropo, australopiteco?) capisce che con quell’osso può fare qualcosa, la prima vittima a cadere è proprio un tapiro, ed è di un tapiro il cranio che vediamo fracassare nella famosa sequenza.
Ma che animale è di preciso un tapiro? Vado a prendere il mio vecchio Brehm e trascrivo qualcosa.
Innanzitutto, il tapiro non è parente del maiale, come si potrebbe pensare: nella catena evolutiva sta invece dalla parte del cavallo e del rinoceronte, nell’ordine dei Perissodattili.
Per la precisione, la sequenza è questa: Regno: animale, Sottoregno: metazoi, Tipo: vertebrati, Classe: mammiferi, Sottoclasse: placentati, Ordine: perissodattili.
L’ordine dei perissodattili in epoca preistorica prevedeva grande varietà di specie e di forme, come documentato dai fossili; oggi invece ha solo tre grandi famiglie, Rinocerontidi, Tapiridi ed Equidi.
Gli altri animali che così ad occhio potremmo associare al tapiro appartengono invece all’ordine degli Artiodattili: le differenze sono argomento da specialisti e non starò qui a trattarle, ma i nomi dei due differenti ordini si riferiscono all’articolazione del piede, un carattere esterno molto evidente che si può brevemente riassumere nel numero di dita che appoggiano terra. In particolare, nei perissodattili è il terzo dito ad essere particolarmente sviluppato. Quella che può sembrare una proboscide, nel tapiro, è in realtà un prolungamento del labbro superiore. Sono classificazioni che risalgono ai secoli passati e che si basano soprattutto su osservazioni esteriori, dello scheletro e degli organi interni, ma che hanno trovato conferma anche nelle recenti indagini con il DNA.
Oggi esistono solo quattro specie di tapiro, le principali sono il tapiro d’America (tapirus terrestris) che vive in un’area che sta più o meno tra il Messico e il Brasile, e il tapiro dalla gualdrappa (tapirus indicus), tipico dell’Indonesia e delle zone vicine (Thailandia, Birmania).
Il mio libro dice che il tapiro americano ha un comportamento molto simile a quello di maiali e di cinghiali, e che se preso da piccolo può essere addomesticato: e dev’essere questo il caso dei tapiri di Kubrick, che si mostrano molto mansueti e che recitano con grande naturalezza, da attori consumati, accanto ai mimi travestiti da scimmia antropomorfa.
Il tapiro di Kubrick vive quest’avventura senza mai toccare il monolite, se no (se solo l’avesse annusato o assaggiato) chissà che cosa mai sarebbe successo e che piega avrebbe preso l’evoluzione delle specie. Qualcuno ha provato ad immaginarlo: è l’inventore di “Barbarella” Jean Luc Forest (con Gillon), in una storia pubblicata sul mensile Alterlinus, maggio 1976. Direi che è un’ipotesi più che plausibile (in questa storia Barbarella non c’è, ma ha delle sostitute che non la fanno rimpiangere).

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