CUORE DI VETRO (Herz aus Glas, 1976) di Werner Herzog. Scritto da Werner Herzog con Herbert Achternbusch. Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein Musica: jodler tradizionali, musica del tempo dei trovatori, Popol Vuh Con Josef Bierbichler, Stepan Guttler, Clemens Scheitz, Sonja Skiba, Volker Prechtel, molti attori non professionisti (93 minuti)
In “Cuore di vetro”, gli attori recitano sotto ipnosi. Quale è il senso di questa scelta, che a prima vista appare come qualcosa di inquietante, di mostruoso, e anche di insensato? “Cuore di vetro” , oltre ad essere un film fascinoso come pochi, è anche un caso unico nella storia del cinema; ma il senso dell’operazione voluta da Herzog esiste e non è difficile da trovare.
Il punto di partenza sono antiche leggende bavaresi, riprese dallo scrittore Herbert Achternbusch in un suo romanzo di poco precedente al film. Al centro di queste leggende c’è il montanaro Mühlhias, cioè “Matthias del Mulino”, o più semplicemente Hias. Vissuto nel ‘700, ha lasciato queste profezie oscure, nello stile di Nostradamus, che un tempo erano molto popolari; oggi sono quasi dimenticate ma Achternbusch le riprende, prese dai manoscritti del tempo e dalle biblioteche locali, e nel film ne ascoltiamo parecchie.
Siamo in Baviera a fine ‘700. Il padrone della vetreria è anziano, forse invalido forse no (è fermo su una sedia, ma probabilmente per sua volontà). Suo figlio, che ne ha preso il posto, impazzisce cercando il segreto del vetro rubino, il vetro rosso; e trascina con sè nella follia il villaggio, finendo per incendiarlo. In mezzo a questo scenario si muove Hias.
Herzog decide di portare sullo schermo il libro di Achternbusch, e sceglie di far recitare gli attori sotto ipnosi. Dopo aver messo un bando sui giornali, scrittura tra i volontari che si sono presentati quelli che possono essere sottoposti all’esperimento senza problemi. Quelli che vediamo sono dunque quasi tutti attori non professionisti, con qualche eccezione.
“Cuore di vetro” sta ad indicare qualcosa di molto duro ma anche molto fragile. E’ una frase che il padrone della vetreria rivolge al veggente Hias, verso la fine del film: “Anche tu hai dunque un cuore di vetro”. Si tratta di due uomini giovani: il padrone della vetreria è anziano e invalido, suo figlio è ossessionato dalla produzione del vetro rubino, del quale si è perso il segreto; e Hias è un montanaro giovane e molto forte. Si sono ritrovati in carcere l’uno per aver appiccato un disastroso incendio e aver ucciso una ragazza, l’altro per aver previsto tutto questo. (Il rubino rosso, il vetro color rubino, esiste veramente: non è un vetro colorato ma è prodotto con materiali che gli danno quel colore caratteristico. E’ molto pregiato e difficile da lavorare, ma non si tratta di un segreto.)
Il senso dell’ipnosi è questo: nel villaggio nessuno si rende conto di cosa succede, tranne il chiaroveggente che avverte gli altri con le sue visioni. E’ per questo, di conseguenza, che il veggente Hias, interpretato da Josef Bierbichler, è l’unico degli attori che non è mai sotto ipnosi.
Hias vive lontano dal villaggio, in un punto alto; solo così tiene lontana la malvagità e le influenze nefaste. E’ un punto più alto anche dal punto di vista della metafora, ad indicare un livello superiore; però Hias ha delle visioni strane, poco lucide, come quella dell’orso per il quale chiede che venga organizzata la caccia, e contro il quale alla fine combatte, ma che in realtà non esiste (vediamo Hias stanare un orso inesistente e lottare con il pugnale contro di lui, corpo a corpo: ma noi lo vediamo combattere da solo).
Il film finisce con Hias che torna alle sue montagne, e che racconta una nuova visione: un’isola in mezzo al mare, e quattro dei suoi abitanti che vanno a cercarne i confini remando su una piccola barca. E’ una delle sequenze più belle mai filmate da Herzog (ed è tutto dire), qualcosa che non si può raccontare ma soltanto vedere; e questa metafora del villaggio sotto ipnosi dove succedono violenze e omicidi, e dove l’unica persona cosciente dice cose incomprensibili, è decisamente inquietante anche oggi. Questo è un soggetto che non perderà mai di attualità, purtroppo.
Le notizie su questo film, veramente unico e di enorme suggestione, le ho tratte dal dvd della Ripley’s Home Video, che ci fornisce un servizio straordinario: rivedere il film intero accompagnati dal commento di Werner Herzog. In un altro film sarebbe poco più di una curiosità, ma in “Cuore di vetro” (così come in “Kaspar Hauser”) avere l’autore che ti spiega passo passo cosa succede è qualcosa di meraviglioso. Ringrazio l’editore, e passo parola: tutti i film di Wenders e di Herzog della Ripley’s forniscono questa meravigliosa possibilità.
Fra le molte spiegazioni che dà Herzog, ecco alcuni appunti che mi sono segnato: 1) Il rubino come ricerca di qualcosa di personale, quasi come in Fitzcarraldo o in Aguirre; analogie con il sangue, ma niente alchimia. 2) La figura del padrone che impazzisce trascinando con sè nella rovina il villaggio non è in Achternbusch ma è un’invenzione di Herzog. 3) Il padrone apre il divano del mugnaio (che si suppone conoscesse il segreto del rubino, ma è morto da poco) come un aruspice, cercando un documento e guardando l’imbottitura come se dovesse dargli un responso; e l’imbottitura del sofà sembra il pelo di un animale. Alla fine, renderà il divano alla vedova (sordomuta) pagandola con dieci monete d’oro per il disturbo. 4) Il segreto del mugnaio, come il segreto della campana nell’Andrej Rubliov di Tarkovskij...
Herzog all’inizio lavora con un ipnotizzare esperto, ma lo liquida subito quando si accorge che si prende troppo sul serio e inizia a fare discorsi “new age”. Da quel momento in avanti, è Herzog stesso a ipnotizzare gli attori (“se avessi usato attori coscienti avrei fatto meno fatica, - ride Herzog, - perché gli attori coscienti collaborano; ma questo film non avrebbe avuto molto senso se fosse stato girato in un altro modo”). Herzog dedica particolare cura nello smontare tutti i luoghi comuni sull’ipnosi, residuo di racconti sette-ottocenteschi; spiega che l’ipnosi è uno stadio intermedio tra la veglia e il sonno, nel quale ognuno mantiene la sua personalità e la memoria viene amplificata, così che far ricordare la parte da recitare era paradossalmente più facile (l’ipnosi è ancora oggetto di studio da parte dei neurologi). Racconta della ragazza che interpreta Ludmilla: sotto ipnosi, le mettono davanti uno scaffale di oggetti di vetro rubino, e le dicono soltanto che è una città di vetro. Poi lei va avanti da sola, descrivendo minutamente la città che vede, come appare nel film. (Ludmilla è la cameriera che verrà poi uccisa dal padrone ormai folle, e che assimila il sangue al vetro rubino). La sequenza ha molte analogie con quella girata da Peter Brook nel Mahabharata, il palazzo dell’illusione: il film di Brook è di una quindicina d’anni successivo.
Il film è girato in Baviera ma anche in Svizzera, con sequenze girate appositamente in Alaska e a Yellowstone. La sequenza finale, quella delle isole, è girata in Irlanda a Skellig Rock, dove in passato abitarono dei monaci ma che è disabitata dall’anno mille, più o meno, con sporadiche visite di altri navigatori che vi hanno soggiornato. E’ un’isola quasi impossibile da raggiungere per molti mesi all’anno, è in mezzo al mare aperto ed è poco più di uno scoglio.
Dice ancora Werner Herzog: « Questi paesaggi hanno tutti qualcosa in comune (...) Queste immagini sono tutte dentro ognuno di noi; evocandole non faccio altro che ridestare negli spettatori qualcosa che è già dentro di loro. Risveglio il “fratello” (il bambino) che dorme dentro di loro. (...) ma preferisco andarci piano con questi discorsi » « Cerco delle immagini che abbiano uno spessore. Di superficialità se ne vede fin troppa, alla tv, nella pubblicità, sui giornali, addirittura al cinema. Immagini consunte. E’ necessario creare una nuova grammatica delle immagini, dobbiamo visualizzare e cogliere immagini che non siano tanto consunte e degradate come la maggior parte di quelle che ci circondano.»
Herzog dice che non cerca tanto il colore, quanto la luce. Quando si è trovata la luce giusta, il colore viene da sè. Dice che da bambino ha vissuto in posti come quelli che si vedono nel film, e che dormiva in materassi fatti con la felce seccata, e che la notte il fiato gelava sopra le coperte; e che litigi come quello dei due che vediamo nel film sono molto comuni, anche all’Oktoberfest (i due bevitori uno di fronte all’altro, uno dei quali morirà secondo la profezia di Hias).
Herzog cita Caspar D. Friedrich per un’inquadratura del finale, nell’isola (“ma non è un periodo artistico che mi appartiene molto”, aggiunge).
Le musiche sono dei Popol Vuh, un gruppo tedesco guidato da Florian Fricke, amico e fedele collaboratore di Herzog in molti film; ma all’inizio ascoltiamo un antico jodler svizzero a più voci, molto suggestivo, vicino alla polifonia e molto diverso da come siamo abituati a immaginare gli jodler. E nel finale, sull’isola vista da Hias, viene eseguita una canzone trobadorica, forse provenzale.
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