Macbeth (1948, restaurato nel 1980). Regia: Orson Welles. Dal dramma di William Shakespeare. Sceneggiatura: Orson Welles. Fotografia: John L. Russell Scenografia: Fred Ritter. Costumi: Orson Welles, Fred Ritter, Adele Palmer. Musica: Jacques Ibert. Cast: Orson Welles (Macbeth), Jeanette Nolan (Lady Macbeth), Dan O'Herlihy (Macduff), Edgar Barrier (Banquo), Roddy McDowall (Malcolm), Erskine Sanford (Duncan), Alan Napier (un monaco), John Dierkes (Ross), Keene Curtis (Lennox), Peggy Webber (Lady Macduff e una strega), Lionel Braham (Siward). Archie Heugly (il giovane Siward), Christopher Welles (figlio di Macduff), Brainerd Duffield (primo sicario, una strega), William Alland (secondo sicario), George Chirello (Seyton), Gus Schilling (portiere), Jerry Farber (Fleance), Lurene Tuttle (gentildonna, strega), Charles Lederer (strega), Robert Alan (terzo assassino), Morgan Farley (il dottore). Durata: 107 minuti (più tardi ridotto a 86 minuti, restaurato nella lunghezza originale nel 1980).
Dopo l’apoteosi del cinema di “Citizen Kane” (“Quarto potere”), e di seguito a due lavori di alto virtuosismo registico come “Lo straniero” e “La signora di Shanghai”, Orson Welles realizza un film che è quanto di meno cinematografico ci si potesse aspettare, soprattutto da uno come lui. Ed è quindi abbastanza comprensibile, facendo mente locale, che critici e pubblico siano rimasti un po’ perplessi davanti a questo “Macbeth”, tratto da Shakespeare, che per lunghi tratti sembra una ripresa teatrale, a partire dalle scenografie. Rivedendolo oggi, in versione integrale e sapendo che fu girato in economia e in pochi giorni (particolari che - giustamente - al pubblico pagante del 1948 non interessavano molto), il “Macbeth” di Orson Welles si rivela invece come film notevole, di grande impronta personale, che merita una riflessione approfondita.
Orson Welles aveva già messo in scena più volte, in teatro, il “Macbeth”: lui stesso racconta con molta soddisfazione le leggendarie serate ad Harlem, con un cast tutto di afroamericani e lui a dirigere dietro le quinte. Da quell’allestimento riprende alcuni dettagli, come la bambola in stile vudu, modellata nell’argilla, che apre il film nella sequenza delle streghe.
Ma forse è meglio procedere con un po’ più d’ordine, cioè dal principio. Macbeth fa parte dei personaggi che raccontano una delle storie più antiche dell’umanità, la storia della ribellione contro la divinità e dell’affermazione del libero arbitrio: non è più Dio a decidere del nostro destino, ma vogliamo essere noi gli artefici della nostra sorte. In questo senso Macbeth si apparenta a Faust e a Don Giovanni, ma anche a Prometeo, e ad Adamo.
La storia è giustamente famosa: due nobili scozzesi, di ritorno dalla battaglia in cui hanno fedelmente servito il loro re, incontrano delle streghe. Le streghe, senza che sia stato loro richiesto, fanno alcune profezie: dicono molte cose, e definiscono Macbeth futuro re di Scozia, e il suo amico Banquo come padre della futura stirpe di re. I due rimangono esterrefatti, anche perché le streghe svaniscono senza lasciar traccia; ma subito la prima profezia si avvera: le streghe avevano salutato Macbeth, oltre che col suo legittimo titolo, come signore di Cawdor; ed ecco che i messaggeri del re gli portano la notizia che il feudo di Cawdor d’ora in avanti sarà suo, perché l’attuale Cawdor ha tradito la causa e sarà giustiziato. Da qui in avanti gli eventi precipitano, e le streghe si prenderanno gioco di Macbeth con altre profezie, e sempre nel modo più subdolo: dicendogli la verità. Macbeth diventerà re di Scozia, ma con la violenza e il tradimento.
Welles colloca la ribellione di Macbeth nell’ambito del conflitto fra il cristianesimo e il mondo che lo ha preceduto, e per farsi capire meglio introduce un personaggio che in Shakespeare non c’è, e che nei titoli di testa italiani viene presentato come “il religioso”. Lo interpreta l’attore Alan Napier: barba di tre giorni, trecce lunghissime sul davanti, invasato e sentenzioso, probabilmente alcolizzato; più uno sciamano o un predicatore che un vescovo cristiano. Questo “religioso” sembra uscito da un film di Frankenstein o un horror anni ’30; a dire il vero fa più spavento delle streghe, e non ci si stupisce che le streghe scappino alla sua vista. A tratti, è molto forte l’affiorare del ricordo del “Frankenstein” di James Whale (1931) anche per la grande croce sotto cui si ritroveranno Macduff e Malcolm esuli. Alla fine, il religioso verrà ucciso da Macbeth-Welles con un colpo di lancia, ma la sua parte trionferà sulle vecchie credenze.
Un’altra libertà rispetto a Shakespeare è che nel film di Welles le streghe vengono mandate via dal sacerdote cristiano, e non svaniscono da sole come nell’originale. Le streghe hanno inoltre nelle mani lunghi bastoni fatti a Y, il che fa pensare a un conflitto con la Dea Madre.
Va detto che in Welles le streghe sono poco più che pupazzi, diventano voci interiori, sono sempre viste da lontano o addirittura ridotte a pura voce come nella seconda evocazione, quella delle profezie sulla selva di Birnam e sul “nato di donna” (dove Welles sembra il mago di Topolino in “Fantasia”, in alto su una roccia sbattuta dai venti: puro teatro). Il dramma è tutto molto interiorizzato, anche per via dei cambi di scena effettuati da Welles passeggiando da una scena all’altra. Potrebbe essere un ottimo radiodramma. (ma nella versione italiana, pur ottima, tutto questo si perde).
C’è un forte richiamo ad Adamo, e non solo al vudù, nella statua di argilla forgiata dalle streghe. E’ una bambola forgiata nel fango, a cui viene messa una corona insanguinata; a teatro, Welles ambientò il suo Macbeth nero di Harlem tra i riti animisti caraibici e africani. La bambola nasce dal ribollire del fango primordiale nel calderone delle streghe.
Macbeth, così come ce lo presenta William Shakespeare, non è un “vilain”, un bruto assetato di potere: è anzi una persona fine, un intellettuale, parente stretto di Amleto. Questo pensare, questo rimuginare, sia pure in uomo d’azione, è una delle sue caratteristiche più importanti; e “the pale cast of thought” è ben visibile sul volto di Macbeth interpretato da Welles. Nell’interpretazione di Welles, Macbeth è un Amleto che ha accettato il suo destino e i mille compromessi che la vita ti pone davanti, ma che continua a non essere attrezzato per reggere a tanto peso. Cerca forza nel bere, e nelle profezie delle streghe; infine si rende conto dell’essenza profonda del vivere (“to be”), accetta tutto, e va a morire combattendo, in guerra, in duello. Almeno questo sa di poterlo fare, ed anche in questo è identico ad Amleto: con Amleto condivide anche il fatto di sapere in anticipo quali saranno le conseguenze dell’agire (e quindi dell’essere). Ma modificare il nostro destino non ci è concesso.
La moglie di Macbeth, della quale si ignora perfino il nome, è uno dei personaggi più forti ed indimenticabili di tutto il teatro e la letteratura. E’ lei che spinge Macbeth verso il suo destino, ancora più delle streghe; e nella prima parte della tragedia è impressionante per la sua forza e la sua determinazione ad andare verso il Potere. Nel finale della tragedia viene però messa da parte: ha svolto la sua funzione, il fatto è compiuto, la vediamo spegnersi lentamente nel rimorso per ciò che ha commesso. Nel film di Welles, Lady Macbeth sembra quasi ringiovanire nel corso del film; all’inizio appare più anziana del marito, l’obiettivo ne mostra le rughe d’espressione e le imperfezioni della pelle. Poi lui sembra via via invecchiare, farsi più corpulento (ma il film è stato girato in pochi giorni), e lei sembra diventare sempre più giovane. Non so quanto sia voluto quest’effetto, ma colpisce molto se si conosce il testo. La Lady diventa quasi virginale nel momento in cui mette la corona. Jeannette Nolan compie una grande prova d’attrice, anche lei molto tradizionale e senza grandi finezze, ma andando diritta al cuore del personaggio. La vediamo spesso vestita come la regina cattiva di Biancaneve, ma l’interpretazione è proprio da Lady Macbeth.
Nell’insieme, Macbeth e i suoi sembrano spesso barbari alla Gengis Khan, più che scozzesi (ma qualche kilt c’è) (e anche qualche vichingo...). Copricapi e corone sono quasi caricaturali, i costumi sono poco medievali, lo stile è molto misto, molti costumi sono pura fantasia (l’acconciatura del sacerdote!). Pochi soldi o un disegno preciso? I testi ufficiali dicono che nei costumi c’è dichiaratamente la mano dello stesso Welles: e nella scena finale, dopo il suicidio della regina, Macbeth porta una corona grottesca ed esagerata che sembra presa dalla Statua dalla Libertà...
Molto forte anche il richiamo ad Eisenstein, al cinema espressionista tedesco, e al cinema muto in generale. Viene in mente Eisenstein (“Alexander Nevskij”) per gli elmi, per i primi piani: ma nelle sue interviste Welles dice di aver visto pochissimo Eisenstein, quasi niente. Può ben darsi, ma risulta difficile crederlo. Nel complesso, questo Macbeth è più vicino a quello di Akira Kurosawa (“Il trono di sangue”) che a quello di Roman Polanski, o a Giuseppe Verdi.
Evidenti rimandi al cinema espressionista (Murnau, il Caligari, ma anche Dreyer) sono lo specchio che deforma l’immagine di Macbeth quando si mette per la prima volta la corona (ed è la Lady a reggere lo specchio), o l’ombra del dito indice di Macbeth che va a cercare lo spettro di Banquo nella scena del banchetto.
La recitazione è semplice, tradizionale, spesso un po’ rozza, così come accadrà quattro anni dopo nell’Otello, sempre da Shakespeare. Welles non va quasi mai in cerca di raffinatezze e di sottigliezze, il che paradossalmente finisce per dare più rilievo al testo, alla parola scritta, proprio grazie all’asciuttezza della parola. E’ un’operazione simile a quella che spetta all’uso della luce in Othello: Macbeth è quasi sempre in ombra, in notturna, i chiaroscuri e gli effetti di luce sono nel testo recitato. A tratti tutto diventa grottesco, quasi caricaturale, e si ha l’impressione di vedere un Ubu Roi.
E’ un “Macbeth delle caverne”, dove le scenografie colpiscono per la loro voluta durezza: sono scenografie da teatro, volutamente di cartapesta. Un colpo un po’ duro per il pubblico del cinema, abituato a ben altro, che però tutto sommato dà un’idea della vita reale di quei tempi, molto più realistica rispetto al lusso medievale-cinquecentesco di altre scenografie (si pensi al Robin Hood con Errol Flynn!). Niente arazzi e mobili intarsiati, ma pellicce per difendersi del freddo, non kilt e tessuti scozzesi ma stoffe più ruvide e semplici, pelli d’animali ed elmi da vichingo. Una volta diventato re, vediamo Macbeth che beve in un corno scavato, e non in un bicchiere. A portare un visibile costume scozzese “classico” è quasi solo Malcolm, futuro re, giovane figlio di Duncan: forse vuol dire il moderno che spazza via l’antico? Il pensiero viene spontaneo, avendo visto poco prima Macbeth vestito di pelliccia e i suoi sicari truccati come cavernicoli.
Anche il buio inchiostroso delle immagini contribuì a farlo amare poco dal pubblico e dalla critica. C’è molto teatro, e mancano le locations fascinose che metterà Polanski (o quelle scelte da Welles con l’Othello, pochi anni dopo). Niente scozzesismi di maniera, niente manieri aviti, quasi un’età della pietra, caverne e grotte, finestre che sono spaccature nelle pareti.
Come si diceva, è un film stranamente poco cinematografico; Welles ebbe grande successo in teatro con il ruolo di Macbeth, e il film sembra ritagliato su misura per lui. All’inizio, almeno ai miei occhi abituati a pensare Macbeth come magro e nervoso, Welles non sembra avere il fisico giusto. Lo vedrei meglio come Banquo, però qui Banquo è un personaggio che si vede poco: lo interpreta un attore (Edgar Barrier) dal volto sfuggente e infido, che somiglia piuttosto ad uno Jago. Ma si sa che in queste cose conta molto la prima impressione personale: per me Banquo avrà sempre la voce calda e fluente e l’aspetto fisico di Nicolai Ghiaurov, un “imprinting” che pesa molto su questo mio commento. (A proposito, per i curiosi metto qui un tentativo di rendere la pronuncia inglese: Bèn-quo, Bèn-kwo). Ma poi ci si abitua, e questa di Welles è una grandissima prova d’attore: basterà vedere Macbeth ubriaco prima con la Regina e poi con i sicari (che sembrano uomini delle caverne, molto clowneschi).
Molte le libertà rispetto al testo originale: la principale è la presenza del “religioso”, come si è detto. Inedito il rilievo dato a Seyton, usato come fool, quasi un preludio al Re Lear. L’attore che interpreta Seyton si chiama George Chirello: le biografie dicono che fu autista e cuoco di Orson Welles .
Welles fa partecipare la Lady al massacro a casa di Macduff: lei va avanti per non destar sospetti, inizia una conversazione con la giovane donna, poi arrivano gli uomini armati.
C’è una notevole caduta di gusto con il suicidio della regina, che in Shakespeare non c’è: esasperandone la morte e portandola in primo piano, Welles commette un errore. Nell’originale la morte della regina è solo una notizia che arriva senza dettagli, lontana e ovattata, che dà ancor più risalto alla reazione di Macbeth e alle celebri frasi che seguono (“La vita, che importa! E’ il racconto di un povero idiota...”). La morte di Lady Macbeth girata in questo modo ricorda molto una scena analoga in “Narciso Nero” di Powell e Pressburger, che è dello stesso anno.
Nella scena del banchetto, oltre allo spettro di Banquo Macbeth vede anche quello di Re Duncan, ma ci può stare; è però un altro errore, oltre al suicidio della Lady, la morte del bambino figlio di Macduff girata in maniera diversa dall’originale, resa molto più cinematografica e “d’effetto” contro la scabra semplicità di Shakespeare. Il figlio di Macduff (Christopher Welles) è un po’ petulante e poco “virile”, ma anche questo ci può stare.
L’edizione italiana è notevolissima, con le voci di Gino Cervi e di tutti i principali attori italiani dell’epoca,che recitano nella versione di Mario Praz. Le voci sono magnifiche, peccato per i tagli (la versione italiana è più corta).
Le musiche sono firmate da un compositore importante, Jacques Ibert: sono belle ma poco memorizzabili, con qualche inserto caricaturale come nella scena dell’ubriachezza di Macbeth. dai titoli di testa apprendiamo che le dirige Efrem Kurtz, un direttore d’orchestra che negli anni 70-80, già molto anziano, era ancora molto attivo anche in Italia.
In conclusione, un film grandissimo e una prova d’attore che dà i brividi, ma si capisce anche come mai pubblico e critica lo accolsero male, subito dopo Citizen Kane che era il trionfo del cinema, qui siamo all’anticinema. Scarsità finanziaria o disegno artistico preciso? Meglio lasciare la parola a Welles stesso.
(...) Orson Welles è senz'altro meno soddisfatto del suo precedente film tratto da Shakespeare, Macbeth, che durante la sua lunga programmazione nelle sale di Parigi ha provocato una grande varietà di commenti, molti dei quali non esattamente lusinghieri.
« La prima sera c'è stata una rissa nel cinema tra i sostenitori del film e i suoi detrattori, - mi ha detto. - L'indifferenza mi avrebbe fatto molto più male. Dopotutto, il film non può essere così scarso se è piaciuto a gente come Jean Cocteau. D'altra parte, non considero una nota di vanto il fatto che il film stia avendo un successo eclatante in Germania, dove il pubblico probabilmente è attratto dalla ferocia medievale della storia. Ora vedo i suoi molti difetti, in particolare nella versione riadattata, ma credo ancora che sia più fedele a Shakespeare di molte produzioni teatrali di Macbeth che ho visto. La cosa peggiore è che nessuno sembra giudicare il film per quello che è: cioè un esperimento messo in piedi in ventitré giorni con un budget estremamente ridotto.»
Orson Welles sembra stanco, e ammette di esserlo. La sua spossatezza nasce non tanto dal lavoro effettivo sulla produzione di Othello (che è durata oltre un anno) quanto dalle preoccupazioni connesse. "Tornare un po’ al teatro per me è una forma di rilassamento", dice con un sorriso ambiguo. Ma la sua capacità lavorativa è enorme. Sta sfruttando le sue esibizioni di ogni sera sul palcoscenico in due parti diametralmente opposte come un gradito cambiamento rispetto al lavoro cinematografico, ma le sue giornate sono ancora occupate dal montaggio e dal doppiaggio di Otello. E tra le due cose riesce anche a trovare il tempo per lavorare alla sua nuova produzione teatrale.
E i nuovi film? Niente da fare, ancora per un po'. (...)
(Da Sight and Sound, dicembre l950, intervista a Francis Koval)
(da “It’s all true- interviste con Orson Welles”, editore Minimum Fax 2005)
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