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C’è un equivoco di fondo in “L’attimo fuggente”, ed è quello di pensare che si tratti di un film sulla scuola: ma non è proprio così, quello della scuola e dell’insegnamento è solo il primo livello, quello più facilmente accessibile. Sotto c’è dell’altro, per esempio una questione che dà i brividi e alla quale non vogliamo mai pensare: e immagino che sia per questo tema, svolto in maniera toccante e sconvolgente, che Weir ha voluto affrontare questo film. Infatti, ogni volta che passa in tv "L'attimo fuggente", un film di Peter Weir del 1989, uno dei suoi grandi successi di pubblico, si torna immancabilmente a discutere del ruolo dell'insegnante: deve essere aperto e comprensivo oppure rigido e severo? E' così forte l'impressione che fa il film, ed è così bravo Robin Williams nell'interpretare il professor Keating ("O capitano, mio capitano...") che questo tema si porta via quasi tutte le riflessioni in proposito. Ma questo è un film di Peter Weir, e Weir è un autore molto sottile e non prevedibile, attento a cose che di solito sfuggono, presi come siamo dalla nostra vita quotidiana.
"L'attimo fuggente" (Dead poets society) parla del suicidio degli adolescenti, e lo fa in maniera molto drammatica. E’ un tema così forte e così duro che alla fine del film sono in pochi a volerlo ricordare: tutti si mettono subito a discutere se sia giusto il metodo di insegnamento del professor Keating, ma nessuno si ricorda cosa succede nella testa (e nel corpo) di un ragazzo di sedici o diciassette anni. Eppure ci siamo passati tutti.
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Il problema di quel ragazzo è dentro la famiglia, non fuori: ma ammetterlo significherebbe dover prendere su di noi le nostre colpe: meglio scaricare tutto su Keating.
La “setta” non ha nessuna colpa sulla morte del ragazzo, e qui va ricordato che le sette ci sono davvero, nelle Università e nei College inglesi e americani: sono circoli massonici, sette sataniche, magari si chiamano “Skull and bones” (“teschio ed ossa”) e generano presidenti USA (i due Bush, padre e figlio, fecero parte di quella setta). Se la setta dei “poeti morti” ci sembra strana, e invece troviamo normali gli ultrà del calcio o i fan club dei personaggi tv, forse il problema è in noi e non in quei ragazzi.
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Il messaggio di Keating è dunque quanto di più anticommerciale e anticonsumista possa esistere: per il mercato esistono solo le novità, un film di tre anni fa è già roba vecchia, figuriamoci un poeta morto. Il film è ambientato negli anni ’50, quando questo problema non era importante, ma è stato girato alla fine degli anni ’80, che da noi era l’epoca dei paninari: essere “fighi”, alla moda, era la cosa più importante; la cosa più importante del mondo era vestire con abiti di marca, e di quella marca ben precisa “altrimenti sei un tamarro”. Per il paninaro era importante avere un giubbotto con quella precisa etichetta, le scarpe di quella certa marca, avere le calze di quel certo tipo (che si vedessero bene!). I paninari oggi hanno quarant’anni, sono diventati la nostra classe dirigente e hanno grandemente influenzato la nostra società e le generazioni successive; le menti ristrette continuano a dare la colpa di tutto al ’68, ma il ’68 è stato quarant’anni fa, e quarant’anni sono un tempo lunghissimo. I sessantottini sono tutti in pensione, da tempo; e nel frattempo, qualcosa c’è pur stato. Secondo questo modo di pensare, oggi maggioritario, non vale il contenuto ma vale solo che sia nuovo e di moda. Non importa cosa c’è dentro, non vale la pena di portare pazienza, se è vecchio si butta via, e non importa di che materia sia fatto il nuovo. Il nuovo è un’ottima cosa, ma vale sempre la pena di guardarci dentro. Ragionando sul cinema, forse nelle nostre scuole varrebbe la pena di fondare un club di “registi morti”.
“Dead poets society” è un titolo molto duro e molto violento, peccato che nella traduzione italiana sia andato perso.
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I ragazzi, alla fine, riconoscono a Keating la buona intenzione e la volontà di fare cose buone, l’onestà. E’ per questo che gli sono vicini. E prima, appena venuto a sapere della tragedia, avevamo visto Keating piangere rileggendo il suo appunto su Thoreau, che aveva così entusiasmato i ragazzi.
E’ un invito a diffidare di tutti i profeti, come diceva Primo Levi.
«E’ molto difficile distinguere fra buoni profeti e falsi profeti. A mio parere i profeti sono falsi tutti. Non credo ai profeti, benché io... (ride) appartenga a una stirpe di profeti.» (intervista radiofonica del 1986 a Milvia Spadi, per la Westdeutscher Rundfunk; reperibile su “Primo Levi: Conversazioni e interviste” a cura di Marco Belpoliti, ed. Einaudi)
Ma forse è solo che la vita va così, tutti agiscono per il bene, o credono di farlo; sia i genitori che i professori. Weir lo sa e ce lo dice: il soggetto, anche se non sembra, è lo stesso di “Gli anni spezzati”, girato qualche anno prima.
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Gli antichi maestri (i poeti morti, ma solo fisicamente morti) insegnavano che leggere cose difficili, superiori alle nostre forze, è l’unico modo per crescere; leggere anche le cose che non ci piacciono, cercare di capire i punti vista differenti dal nostro, non fermarsi ai titoli ma leggere tutto l’articolo. I titoli non li fa mai l’autore, nei giornali: è una delle prime cose che ho imparato quando ho iniziato a leggere e informarmi. Sotto un titolo stupido o banale si può trovare un articolo interessante, e sotto un titolo allettante un articolo banale: la stessa cosa accade con i film e i romanzi; ed è questo che cerca di insegnare Keating. Per esempio, la mania degli incipit: Daniel Pennac suggerisce invece di aprire il libro a caso, una pagina qualsiasi, ed iniziare a leggere da lì, per poi magari tornare indietro. Scrivere un incipit bello è molto facile, come ci insegna anche Snoopy: “Era una notte buia e tempestosa, d’un tratto echeggiò uno sparo” Il difficile è andare avanti. Nel libro di Pritchard, quello che viene strappato nel film, la poesia è valutata in base a un grafico con ascisse e ordinate. Di per sè è un concetto che non mi dispiace, conoscere i ritmi e la metrica è importante: ma il mondo non finisce qui.
Nel film si dice anche che “la poesia non è una hit parade”, cioè non è la classifica dei più venduti: ma oggi si misura tutto unicamente con il metro del successo commerciale.
Il gesto di strappare le pagine, è quasi banale dirlo, è una metafora e non va inteso alla lettera. Si può ben strappare dalla nostra vita il tg5 o il tg1, cambiar canale con Bruno Vespa ed Emilio Fede. Del resto, siamo in un Paese dove il governo si fa vanto (con un mega spot tv) di aver portato da 5 a 10 anni la validità della carta d’identità: se siamo a questo punto siamo davvero messi male...
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Ho trovato bruttine le scene recitate in teatro, e Neil poco adatto al ruolo di Puck (Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate). Puck è un folletto dispettoso e pasticcione, forse sarebbe stato meglio un Mercuzio (Romeo e Giulietta), o un altro ruolo da innamorato. Nei film inglesi e americani, il teatro ha spesso grande importanza: o almeno lo aveva fino a qualche anno fa, ormai a teatro non ci va più nessuno, nemmeno gli sceneggiatori del cinema. Quelli che ancora lo fanno, vengono guardati come dinosauri e messi da parte: oggi va di moda il 3D, domani ci sarà un nuovo gadget da vendere e il teatro richiede troppo tempo e troppa pazienza.
Per quanto mi riguarda, per l’ambientazione, è un film che è molto distante dalla mia esperienza di vita. Welton è un collegio per ricchi, per quanto siano simpatici e commoventi questi sono tutti figli di papà con un futuro ben assicurato. La nostra realtà scolastica, e la mia in particolare, è molto diversa, a volte squallida; anche i miei coetanei erano molto più squallidi di questi ragazzi del film, gente senza veri interessi; e anch’io non ero un gran che, a dirla tutta. Forse Todd Anderson un po’ mi somiglia, ma è certamente più sveglio e più studioso di me. Un professore come Keating io lo avrei odiato, o lui avrebbe odiato me, oppure ci saremmo stancati di vederci tutti i giorni.
Altri appunti che mi sono segnato durante la visione del film:
1) E’ un collegio solo maschile, le ragazze non sono ammesse e verranno cercate altrove; 2) I quattro pilastri di Welton: tradizione, onore, disciplina, eccellenza. 3) Keating, il nome del professore, è la sintesi di molti nomi di poeti inglesi: Keats, Yeats, Browning, la serie è infinita e il nome è ben scelto. 4) Il collega che, all’inizio, rimprovera amichevolmente Keating: “quando si accorgeranno che non hanno talento, che non sono Shelley o Rembrandt, ti odieranno per quello che gli stai dicendo oggi”. 5) Gli autori citati: Thoreau, Whitman, Shelley, ma anche Frost e Tennyson. Di Frost questo verso: “scelsi la strada meno battuta”. 6) Il ritratto alle spalle di Keating, l’uomo con la barba bianca, è Walt Whitman. 7) Salire sulla cattedra: “per ricordarsi di guardare il mondo da angolazioni diverse”.
Degli attori, tutto il bene possibile. Memorabile, e anche un po’ prevaricante, l’interpretazione di Robin Williams. Dei ragazzi protagonisti, quasi tutti hanno continuato a fare cinema e tv ma nessuno è diventato una star: cosa ben strana, rivedendo il film, ma capita. Ethan Hawke (Todd Anderson , il compagno di stanza di Neil) ha fatto molti film belli in parti da protagonista, come “Gattaca”. Impagabili Josh Charles (Knox Overstreet , l’innamorato, che somiglia un po’ a John Lennon), e Gale Hansen (Charley “Nuanda” Dalton, fustigato dal preside per la “telefonata da parte di Dio”). Alexandra Powers è la bellissima Cris, e Cameron “il delatore” è Dylan Kussman, anche lui molto presente in cinema e tv, ma senza più l’evidenza che qui gli dà Peter Weir (quando si dice “un grande regista” si intende anche il saper dare rilievo agli attori: con Vittorio De Sica erano tutti perfetti, la stessa cosa capita con Weir).
Per la musica, oltre al grande Maurice Jarre ascoltiamo molte cose: canzoni, inni, jazz, rock and roll, un rap ante litteram nelle riunioni segrete dentro la grotta, ma anche Haendel (suites dalla “Musica sull’acqua”, quando gli studenti giocano a calcio), Beethoven (la Nona Sinfonia, e il Quinto concerto per pianoforte nella stanza di Keating quando riceve Neil), arpa e cornamuse scozzesi.
Ed il finale è con le cornamuse, così come l’inizio: le cornamuse, cioè (nel mondo anglosassone)la Tradizione. Un finale che sembra volerci dire che un altro mondo è possibile: ed è il migliore augurio possibile per questo inizio d’anno.
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2 commenti:
Ciao, giungo per caso sul tuo blog e trovo un post bellissimo su un film che vidi al cinema quando uscì (avevo diciott'anni!) e che divenne immediatamente un mio cult movie, anche se è da un po' che non lo rivedo. La tua disamina è molto interessante e gli spunti che sottolinei sono davvero pregnanti, soprattutto quelli sulla "febbre del nuovo" e sulla provocatoria necessità di avere delle "sette dei registi morti". Chi oggi si esalta troppo per il 3D (che è uno strumento come un altro), dovrebbe perdere qualche ora a rivedersi Lubitsch, Wilder e Lang...
salve Christian! Mi sono letto le interviste a Cameron, il regista di Avatar: il 3D dev'essere molto bello, la storia come l'ha riassunta lui mi sembra il remake di Roger Rabbit... (non scherzo!) Le tecnologie nuove sono sempre una bella cosa, ma il vero punto è sempre quello: per fare cosa?
Pensa che mi sto guardando i film di Melies,1898-1908, e la maggior parte ormai sono quello che sono, ma Melies aveva un'inventiva e una voglia di giocare che mi piacerebbe ritrovare.
Dico sempre: sono sicuro che giovani bravi ne esistono sempre, anche bravi come Lubitsch e Wilder e Lang: il problema è che oggi se li trovano li mettono subito alla porta.
(io invece quando uscì "Dead poets" avevo già trent'anni, quasi trentuno)
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