Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975) Regia di Wim Wenders. Tratto dal "Wilhelm Meister" di Wolfgang Goethe. Sceneggiatura di Peter Handke. Fotografia: Robby Müller. Musiche originali di Jurgen Knieper. Gustav Leonhardt suona in tv Johann Sebastian Bach: la numero 25 dalle “Variazioni Goldberg” Con Rüdiger Vogler, Nastassja Kinski, Hanna Schygulla, Hans Christian Blech, Peter Kern, Ivan Desny, Marianne Hoppe, Lisa Kreuzer, Adolf Hansen. (103 minuti)
Da Glückstadt, un Wilhelm un po’ più anziano di quello del libro (lo interpreta il trentenne Rüdiger Vogler), parte per il suo viaggio. Abbandona la sua stanza piena di dischi e di libri, saluta la madre, e sale sul treno che lo porterà verso Bonn.
Glückstadt è una piccola città molto bella, una tipica città di provincia del nord della Germania; ne vediamo la piazza e alcuni scorci. Wenders ci mostra con affetto e con piacere la sua Germania, e tutti i luoghi che andremo a vedere: questa felicità narrativa, e questo piacere di scegliere e filmare paesaggi e interni è uno dei motivi che spingono a vedere i film del regista tedesco, e ad amarli. In questo film, così come nel successivo “Nel corso del tempo”, veniamo a conoscenza di città e paesaggi della Germania che non possono non affascinare. Ed è davvero un peccato che l’Italia non abbia avuto un Wenders a raccontarla: non in quel periodo, quantomeno. I nostri cineasti della generazione di Wenders avevano altro da fare...
L’idea del viaggio di formazione fatto col treno è ancora più obsoleta di quella di Goethe a cavallo e in carrozza. Mi piace rivedere le carrozze e i treni degli anni ’70, perché questo è il mondo che io ho imparato a conoscere quando iniziavo ad uscire da solo. Quello che fa Wilhelm, nel film, lo abbiamo fatto in tanti: si prende il primo treno che passa, e si parte; il resto si vedrà. Ma non esiste più questo concetto di treno, oggi pare che si debba sempre e soltanto prenotare, non circolano quasi più i controllori, e se ne trovate uno e non avete il biglietto vi affibbiano multe spaventose, magari chiamano la polizia, è un delitto più grave che spacciare droga... Ma da Bonn in avanti il viaggio prosegue in auto, seguendo il corso del Reno.
Wilhelm si porta dietro due libri, dei tanti che ha in casa: Eichendorff, Vita di un perdigiorno, e L’educazione sentimentale di Flaubert. Sul treno, incontra due dei suoi compagni di viaggio: un vecchio, che perde sangue dal naso, e una ragazza molto giovane, quasi una bambina.
Il vecchio è la sintesi di diversi personaggi di Goethe: è abbastanza misterioso, così come è strana la presenza della ragazza accanto a lui. In che rapporto sono? La ragazza è con ogni evidenza la Mignon del libro, e le somiglia molto: non parla, ma è molto presente e vivace (la Mignon di Goethe parla male il tedesco, ma suona e canta canzoni struggenti e inusuali). L’uomo che la accompagna è un personaggio complesso. Sappiamo che è un ex atleta, che prese parte alle Olimpiadi di Berlino (o almeno così racconta) e che ebbe simpatie naziste; ma di più nel film non si riesce a sapere. In questo somiglia molto al personaggio dell’arpista, che nel libro accompagnerà Mignon per un lungo tratto: anche lui anziano e con un passato di cui vergognarsi, da nascondere. Però ha anche molti tratti del saltimbanco anziano che “vende” Mignon a Wilhelm, nel libro di Goethe: il vecchio e Mignon tengono insieme piccoli spettacoli, oppure chiedono l’elemosina per strada. Non suona l’arpa, ma un’armonica a bocca; e canta una canzone ambigua, la canzone di Rosenthal (un uomo viene picchiato da un tale che lo chiama Rosenthal, ma lui non è Rosenthal, e quindi la cosa non lo tocca – anche Totò amava raccontare una storiella simile, ma Rosenthal è un cognome ebraico). Il vecchio è l’attore Hans Christian Blech, Mignon è Nastassja Kinski quattordicenne, al suo primo film in assoluto.
Da lontano, da un altro treno che si incrocia a quello dove viaggiano i tre, arriva il quarto personaggio: è un’attrice, interpretata da Hanna Schygulla. Si chiama Therese, ed è anch’essa una sintesi di diversi personaggio goethiani: è in parte Philine, l’attricetta di facili costumi, e in parte le più nobili signore (la Contessa, Nathalie, Therese) che Wilhelm incontrerà nel finale del libro. La presenza di un’attrice come Hanna Schygulla, molto seria e controllata, spinge il personaggio sempre più lontano da Philine e sempre più vicino ad ideali più alti e meditativi; lei e Wilhelm hanno una storia d’amore, ma è più un interesse reciproco che una vera passione.
A questi quattro personaggi se ne aggiunge un quinto, il giovane poeta grasso goffo e austriaco, evidente alter ego (molto caricaturale) di Handke, interpretato dall’ottimo Peter Kern; e a questo punto il viaggio può iniziare.
Se la parte visiva è tutta di Wenders, ed è il motivo principale per il quale rivedo ogni volta volentieri questo film, si può però dire che il film è in gran parte opera di Handke. I dialoghi di Handke riempiono tutti gli spazi del film, e io non ho mai amato molto Handke (trovo lo stesso problema in “Il cielo sopra Berlino”, dove però Wenders ha tutta la sua libertà). I dialoghi di Handke parlano dei problemi dello scrittore. E’ un tema molto presente in quegli anni: impegno o evasione? Partecipare al mondo o starsene fuori? Molti rimproveri in questo senso furono mossi in Italia anche a Italo Calvino, per esempio; ma non è detto che un apparente distacco sia meno utile di un coinvolgimento eccessivo, e comunque oggi questi discorsi non si fanno più, perché conta solo il mercato e quanti soldi si riescono a fare; ma negli anni ’60 e ’70 il problema si poneva ancora. Scrivere e comunicare, essere vicini o lontani dalla realtà, come si fa a diventare scrittori se si sta chiusi in se stessi, senza comunicare? Queste cose se le chiede Handke, a diciott’anni, all’inizio del suo Bildungsroman... E forse ho capito perché non mi piace Handke, mi ricorda me stesso com’ero, le mie prime cose che per fortuna ho buttato via, come fece il vero Wilhelm, quello di Goethe.
Ad essere sincero, ai lunghi e densi discorsi di Handke preferisco l’estrema sintesi di Robert Wyatt, che negli stessi anni, in una delle sue bizzarre e beffarde canzoni, diceva: «Like so many of you, I've got my doubts about how much to contribute / To the already rich among us; / And how long can I pretend my music's more relevant / Than fighting for a socialist world ? »
Arriva molto di Goethe, nonostante Handke; arriva dai costumi, dai panorami, dall’aver scelto una Germania ancora antica, nelle case e nei luoghi montani. I rumori dicono molto su quante cose sono cambiate. Wenders gira sempre con il suono in presa diretta, e anche nelle piazze di Bonn in pieno giorno c’è poco rumore: un brusio dal mercato, la campanella di un tram... Questo silenzio, e le luci, e il verde e il rosso dell’autunno fra i vigneti del Reno, forse è qui che sta Goethe in questo film, oltre che in Mignon.
Nel viaggio, nel suo momento centrale, c’è l’intrusione di un suicidio, l’incontro casuale con un uomo la cui moglie si è uccisa, e che darà ospitalità per una notte alla piccola compagnia in viaggio. Una scena simile, nella stessa posizione, ci sarà anche nel film successivo di Wenders, “Nel corso del tempo”. L’ospite, un ruolo importante, è interpretato dall’attore franco-tedesco Ivan Desny.
Dopo questo incidente, la compagnia si scioglie. Uno alla volta, ognuno prenderà la sua strada, e Wilhelm si ritroverà solo come al punto di partenza: il suo è stato un movimento che non ha portato a niente, un falso movimento. In Goethe non è così: il viaggio di Wilhelm porterà molti frutti e sarà decisivo per la sua vita. Quelle del Wilhelm goethiano sono storie di vita, di donne, e di incontri occasionali ma mai banali, che culmineranno nella rappresentazione dell’Amleto, nel riconoscimento di un figlio e quindi nell’inizio di una vera vita adulta; per il Wilhelm del film alla fine non c’è niente, gli incontri casuali rimangono casuali, i discorsi non portano a niente, le donne se ne vanno, nulla viene concluso.
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