sabato 14 novembre 2009

Sussurri e grida


Viskningar och rop (Sussurri e grida), di Ingmar Bergman (1973).
Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia (colore): Sven Nykvist. Musiche: da Johann Sebastian Bach e Fryderyk Chopin. Interpreti: Harriet Andersson (Agnes), Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullmann (Maria), Kari Sylwan (Anna), Georg Arlin (il marito di Karin), Erland Josephson (il dottore), Henning Moritzen (Joakin), Anders Ek. Produzione: Svenskfilm industri. Durata: 91 minuti

Dopo aver visto “Sussurri e grida”, ogni horror o storia di fantasmi sembra banale e scontata.
Come suo solito, Bergman non usa effetti speciali o trucchi, da grande maestro si affida soltanto alle luci e alla recitazione, così come aveva fatto con “Il settimo sigillo”. “Sussurri e grida” è anche è il film che spiega meglio di ogni altro come mai Bergman sia per molti ostico e difficile: il film è un capolavoro assoluto, ma qui siamo al limite del tollerabile, la forza delle emozioni è tale che è difficile da reggere, e ci si chiede come sia possibile raggiungere in un film simili livelli di intensità e di verità.
E’ un capolavoro assoluto, uno dei “dieci film da vedere” (se mai hanno un senso queste definizioni e queste classifiche) ma è anche di una durezza e di una forza inusuali. Non è una storia da raccontare nei dettagli, sarebbe un errore; Bergman stesso preferisce lasciare la parola a Johann Sebastian Bach, nei momenti più delicati. Protagoniste sono le immagini, i colori, i volti, tutte cose che non si possono raccontare. Sono i dettagli: gli orologi, i carillon, le case di bambola, gli orecchini, gli arredi, gli anelli, gli abiti, i bicchieri di cristallo...

Quattro donne protagoniste, quattro donne dentro una stanza rossa, tre sono sorelle e una – la migliore, la più dolce e materna – è la cameriera Anna. E il tema è di quelli forti: la morte e il nostro rapporto con l’aldilà, quello che ci è dato sapere e quello che non conosciamo. Un tema così forte che è meglio lasciar la parola a Bergman stesso:
« (...) Molti registi dimenticano che il volto umano è il punto di partenza del nostro lavoro. Noi possiamo certo dedicarci all'estetica del montaggio, possiamo imprimere a oggetti o a nature morte ritmi meravigliosi. Ma è la presenza del volto umano la nobiltà caratteristica di un film. Ne discende che l'attore è il nostro strumento più prezioso e che l'obiettivo non è che il mediatore delle reazioni di questo strumento. Ora, in molti casi si scorda questa evidenza: che le posizioni della macchina da presa e i suoi movimenti sembrano piú importanti degli attori, e l'immagine, divenendo fine a se stessa, rompe l'illusione, distrugge l'effetto artistico. Dobbiamo anche ricordare che il piú bel mezzo di espressione dell'attore è lo sguardo. Il primo piano obiettivamente composto, perfettamente condotto e recitato, è il mezzo più potente di cui dispone il regista per influenzare il suo pubblico. Ma è nel medesimo tempo il criterio più sicuro sulla sua competenza o sulla sua insufficienza. L'assenza o la moltiplicazione dei primi piani caratterizza infallibilmente il temperamento del regista e il grado d'interesse che ha per gli uomini. Tuttavia ciò non basta. Anche possedendo tutte le qualità (semplicità, concentrazione, coscienza del minimo dettaglio, compiutezza tecnica), manca la piú importante, la scintilla che provoca la vita interiore. (...) »


- Negli ultimi tuoi film il tema dei vampiri torna con insistenza sempre maggiore. Tutto questo tu lo senti come una problematica centrale e personale?
« Cioè, che gli uomini si rodono l'un l'altro? Che l'artista vive del suo prossimo? E’ stato per molti anni un problema etico. Adesso non lo è piú. Ho sentito, però, che tutto ciò era moralmente discutibile nel nostro atteggiamento. Ma non ci si può stare a rompere la testa. E’ una condizione vitale. È come accusare un puma di mangiare i bovini ... Senza con questo voler fare confronti di dettaglio.
- Non consideri il vampirismo come un'espressione di valore generale per il tipo di società in cui viviamo?
«Non sono un narratore sociale. Ma certamente descrivo, indirettamente, la società in cui vivo. Io sono soltanto un riflesso delle contraddizioni, degli avvenimenti, delle tensioni che si trovano nella società, nell'educazione e nel mondo che è il mio. Certe cose si manifestano in me, sulla membrana mucosa o sul radar che ho dentro di me. Per cavarmela nella vita io posseggo una specie di radar. Tutti lo possediamo. Sullo schermo del radar si manifestano certe cose che si mettono a funzionare assieme alle esperienze precedenti. Poi tutto ciò viene espresso nei prodotti artistici; è una specie di corrispondenza, un bisogno di contatti, un appello al mondo intorno a noi.
- Conosci di certo il famoso aforisma di Godard, per il quale ogni movimento di macchina deve essere una presa di posizione morale, cioè forma e sostanza devono corrispondere. Che ne pensi di un'affermazione cosí assiomatica?
«Mi sembra maledettamente giusta! Io potrei benissimo dire lo stesso. Penso che ogni angolazione debba essere il risultato della posizione professionale dell'artista. Si sa che cosa si vuole raggiungere, e allora si deve anche sapere dove mettere la macchina. E’ una morale professionale.»

- Com'è nato “Sussurri e grida”?
« Con una visione. Io ho sempre delle visioni, e da queste traggo i miei film. Vidi una stanza rossa con tre donne che discorrevano. Non sapevo cosa dicessero ma quella visione mi ha ossessionato finché non ho potuto costruirle intorno una storia.»

Tutti gli interni di “Sussurri e grida” sono in rosso cupo, smorzato e rituale. La spiegazione di questa scelta cromatica è stata data da Bergman stesso in una lettera inviata ai collaboratori mentre scriveva la sceneggiatura. « Gli interni saranno in diverse gradazioni di rosso - avvertiva - Non chiedetemi il perché, non lo so. Ho cercato io stesso di trovarne il motivo e mi sono dato spiegazioni una piú comica dell'altra. La piú ottusa, ma anche la piú difendibile, è che deve trattarsi di qualcosa di interiore, perché dall'infanzia mi sono sempre immaginato l'interno dell'anima come un'umida membrana tinta di rosso ». (...)
(interviste varie, raccolte da Tino Ranieri all’inizio del volume “Il Castoro Cinema”, edizione 1974)



Ma in “Sussurri e grida” c’è anche una parte consistente che riguarda la vita di coppia, una costante nell’opera di Bergman. Per esempio il dialogo fra Liv Ullmann (Maria) e il medico (Erland Josephson) che è suo amante, nella prima parte del film, prima della morte di Agnes (Harriet Andersson). Il marito di Maria è fuori città, il medico è venuto per assistere la bambina di Anna (Kari Sylwan, la cameriera). Maria gli offre ospitalità, avendo come scusa il maltempo; il medico accetta ma non vorrebbe ricominciare la relazione, rimane distante per tutto il tempo della cena. Il dialogo si svolge nella camera degli ospiti; alla fine i due si abbracceranno.
Durante il dialogo, primo piano sempre su Liv Ullmann: viso bellissimo e ironico, sensuale e forte, ascolta tutto e si compiace di vedersi nello specchio. Bergman le inquadra anche qualche piccolo difetto della pelle: oggi sarebbe impensabile ma anche le donne più belle hanno qualche difetto, magari temporaneo: non per questo cessano di essere belle. In quest’epoca patinata ce lo stiamo dimenticando, è anche per questo che mi piace rivedere i film di Bergman (e di Nykvyst).
- Ma perché sei così gelido? Non possiamo dimenticare il passato?
- Vieni qui, Maria. (la porta davanti allo specchio, alla luce della candela; da qui in avanti solo il primo piano di lei, con lui dietro che appare nell’inquadratura ma solo occasionalmente). Guardati allo specchio. Sei bella. Sei forse anche più bella di allora, ma sei tanto cambiata. Vorrei che tu vedessi quanto sei cambiata. I tuoi occhi hanno sguardi rapidi e sfuggenti, un tempo guardavi tutto e tutti apertamente, senza crearti una maschera. La tua bocca ha assunto un’espressione insoddisfatta, prima era così dolce. Il tuo viso è pallido, la pelle è incolore, sei costretta a truccarti. La tua bella fronte ampia e spaziosa ha quattro rughe sopra ogni sopracciglio, non riesci a vederle con questa luce ma risaltano chiare di giorno. Sai da dove ti vengono queste rughe?
- No. (sorride, sensuale).
- Dalla tua indifferenza, Maria. E questa linea curva, che va dall’orecchio alla punta del mento, non è nitida come un tempo: questo significa che sei superficiale e indolente. E lì, alla radice del naso, perché ora c’è tanto sarcasmo, Maria? Riesci a vederlo? C’è troppo sarcasmo, troppo scherno. E sotto ai tuoi occhi inquieti mille rughe impietose, secche, quasi inavvertibili, di noia e di impazienza.
- Sul serio vedi queste cose sul mio viso?
- No, ma le vedo ogni volta che mi baci.
- E ogni volta che rispondi ai miei baci, io so dove le vedi.
- Sì, le vedo su di te.
- Le vedi in te stesso, perché noi siamo uguali, tu e io.
- Cioè sarei anch’io egocentrico, cinico, indifferente?
- I tuoi discorsi mi hanno sempre annoiato da morire...
- Pensi che non ci siano attenuanti per gente come noi?
- Io non ho bisogno di essere perdonata.

Mi rimane da dire qualcosa sull’ambientazione, tra fine Ottocento e inizio Novecento, con gli interni curatissimi e le passeggiate nel parco con l’abito bianco: probabilmente è da qui, da “Sussurri e grida”, che verrà la magia di “Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir, due anni dopo. E la musica: Chopin, mazurka in la minore op. 17 n.4, suonata da Kabi Laretei (pianista e compagna di Bergman al tempo dei suoi esordi) e J. S. Bach: Sarabanda dalla suite n.5 in do minore per violoncello BWV 1011, suonata dal grande Pierre Fournier.
P.S.: Sui film di Ingmar Bergman il libro più importante è senz’altro “Immagini” pubblicato da Garzanti nel 1992: è il regista stesso che passa in rassegna tutti i suoi film, uno per uno, e a “Sussurri e grida” è ovviamente dedicato un capitolo molto denso.


2 commenti:

Marisa ha detto...

L'affermazione di Godard è nel post di "Sussurri e Grida"

Giuliano ha detto...

sì, nel frattempo ho cercato!
:-)
è che non pensavo di trovare Godard associato all'Andrej Rubliov...