“Anche gli uccelli uccidono” (titolo solo per l’Italia: l’originale è “Brewster McCloud”, cioè nome e cognome del protagonista) è del 1970, e Altman lo gira subito dopo il grande successo commerciale di “MASH” che lo aveva reso famoso in tutto il mondo.
E’ un film strano, bizzarro, divertito e divertente, sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, a metà strada fra Pinocchio e Peter Pan. Si potrebbe dire che è un Peter Pan molto realistico, molto dentro a questo mondo, e con i poliziotti al posto dei pirati di Capitan Uncino: il che, a guardar bene, lo apparenta sempre di più a Pinocchio.
Difficile raccontare la trama: il soggetto somiglia molto a quelli che faceva Walt Disney in quegli anni, quelli con attori veri tipo “Il computer con le scarpe da tennis” o “Il gatto venuto dallo spazio”, e probabilmente il soggetto avrebbe preso quella piega, un po’ folle ma innocua, se non ci fosse stato un Robert Altman dietro la cinepresa. Ci si aspetta infatti di vedere Jodie Foster adolescente, e invece spunta il suo alter ego inquietante, una giovanissima e conturbante Shelley Duvall; e si parla di sesso, cosa che nei film Disney non capita o capita solo di striscio. In questo senso, Altman è più realistico di tanti film che sembrano presi dal vero: l’adolescenza è proprio l’età in cui il sesso si fa sentire più forte, e mette in crisi anche quel poco di identità personale che fin lì si era formata. Da adulti ce lo dimentichiamo, ma va proprio così.
Oltre alla storia del ragazzo che voleva volare, fa da struttura portante la parte del film che ha ispirato il titolo italiano, una variazione bizzarra sul tema già affrontata da Alfred Hitchcock in “Birds”, che però mi sembra più che altro una parodia divertente, forse anche una satira politica, e che per questo non affronto qui per esteso. Di questa parte del film, girata con l’umorismo astratto e un po’ forte di Altman, ma che non sfigurerebbe in un Disney di quel periodo, fanno parte le scene delle cheerleaders allo stadio, e la storia della madre-corvo che è interpretata da Sally Kellerman.
Il ragazzo, alla fine del film, costruisce veramente la sua macchina per volare, e vola per un bel po’ dentro al grande Astrodrome. E’ una macchina ingegnosa ma inutilmente complicata, proprio come i sogni dei bambini e degli adolescenti; e le fantasie dell’infanzia vengono frantumate e cancellate dalla realtà del mondo adulto. Da piccoli si può volare alti, o immaginare di farlo: non solo è possibile, ma basta anche poco per farlo. Ma la realtà è quella che è, da adulti prima o poi dobbiamo andare ad incontrarla, e il rischio è di andare a sbatterle contro, fare male a se stessi e farlo agli altri.
Il film comincia con il leone MGM, sui titoli di testa, che però ruggisce muto: «Ecco, mi sono già scordato la prima battuta...» è il commento fuori scena.
Il Leone manca la battuta, e allo stadio la cantante che deve eseguire l’Inno Nazionale fa fermare la Banda dell’Astrodrome (la Banda Musicale, legni e ottoni) perché non andava a tempo; così ripartono anche i titoli di testa. Due inizi steccati e mancati, sbagliati e rifatti: ma la cantante, dopo, stecca ancora peggio di prima. Sarà la prima vittima del Corvo, infatti, e non sappiamo dargli torto: ma anche con le stecche, i musicisti fuori tempo e le battute scordate si comincia lo stesso.
Si parte con la strana lezione di un professore di ornitologia. Una lezione che può sembrare folle, ma è come un messaggio in codice: il più delle volte basta cambiare la parola “uccello” con “essere umano” e il significato diventa comprensibile. In più, la citazione di Goethe è chiarissima: è della libertà che si sta parlando, e il volo è uno dei simboli più usati per esprimere il concetto di libertà (l’uccello che vola via dalla gabbia...). Imparare a volare è quindi imparare ad essere liberi, ad usare il proprio corpo, la sessualità e il passaggio all’età adulta. Il protagonista (interpretato da Bud Cort) è giovanissimo, e accanto a lui c’è una ragazza che si chiama Hope, cioè Speranza (l’attrice è Jennifer Salt).
Dice il Professore (l’attore è René Auberjonois):
- Volo degli uccelli, volo dell’uomo. Affinità dell’uomo con gli uccelli, affinità degli uccelli con l’uomo. Questi sono gli argomenti che tratteremo nella prossima ora, con la speranza di NON giungere a conclusioni, altrimenti il tema cesserebbe di affascinarci e, ahimè, perderemmo un altro sogno: ce ne restano tanto pochi, ormai... Con queste parole il poeta tedesco Goethe (tira fuori dalla tasca dei pantaloni un foglio, appallottolato come un fazzoletto da naso; lo spiega con molta fatica e inizia a leggere) espresse l’ansia dell’uomo di volare: «Quanto anelo di lanciarmi nell’infinito spazio, e di librarmi sull’orrendo abisso...». L’uomo, incontestabilmente l’essere più progredito, ha solo da osservare il volo degli uccelli per valutare il peso della sua prigionia terrestre. E così, il desiderio di volare è stato sempre presente nella mente dell’uomo, ma il suo sogno è stato lento a realizzarsi. Ha l’uomo veramente realizzato il suo sogno? Per rispondere, dobbiamo analizzare il sogno. Il sogno era raggiungere la capacità di volare, o era invece il sogno della libertà, che il vero volo sembrava offrire all’uomo? Potremo anche accennare (nel corso della lezione) ai danni mortali che l’uomo sta recando all’habitat degli uccelli confrontandoli con i pochi fastidi che gli uccelli recano all’uomo. Un giorno, chissà, potrà rendersi necessaria la costruzione di immense riserve per la protezione delle condizioni ambientali dell’uomo e degli uccelli; ma in tal caso è lecito chiedersi se l’uomo permetterà agli uccelli di entrare.
La “lezione di ornitologia” continua; al minuto 25 il “Professore” dice:
- Penso non vi sia nulla di più scioccante dell’affermazione che i parenti viventi più stretti degli uomini sono le mosche domestiche, o che le farfalle sono un’evoluzione del rinoceronte; ma esiste qualche verità assoluta? Può veramente l’evoluzione provare che gli uccelli provengono dai rettili? Gli uccelli sono creature sorprendenti, fantasticamente create ognuna per un diverso, precipuo scopo.
Al minuto 40 la bionda e materna Louise (fata-strega-corvo), cioè Sally Kellerman, parla con il protagonista, che si allena per imparare a volare; da lui viene sempre una ragazza, Hope, e Louise si preoccupa.
- Perchè mi domandi sempre di Hope?
- Perchè è passionale. Ti sta coinvolgendo nel sesso. (...) La gente come Hope accetta ciò che le viene detto, non pensa che può essere libera, non pensa neanche di poterlo essere. L’amore è la cosa più vicina al volo che hanno.
- Non vogliono volare?
- Oh, sì: al principio. Ma poi crescono, e l’amore diventa sesso. E allora vanno sempre più verso la terra. E, sperimentato il sesso, si adattano a quello; e generano altra gente come loro. E’ per questo che non devi mai farti tentare, o lasciare che qualcosa distrugga la piena concentrazione del tuo lavoro.
- Non ce la farei mai senza il tuo aiuto.
- Io sarò sempre qui per aiutarti. Io starò con te finché tu non potrai volare.
Ma poi, contrariamente a ciò che gli aveva detto Louise, conoscerà il sesso: non con l’amica e coetanea Hope (Jennifer Salt) ma con un’incantevole Shelley Duvall, che qui aveva vent’anni giusti (anche lei ne dimostra di meno) ed era davvero molto attraente. La conoscenza del sesso, e quindi l’entrata nell’età adulta, gli impedirà di volare?
Finale al circo, con tutti gli attori in maschera e gran festa nonostante tutto quello che è successo (o forse: alla faccia di tutto quello che è successo...)
René Auberjonois, un fedelissimo di Altman, è il Professore; Michael Murphy è il poliziotto superefficiente (che però fallirà). Stacey Keach, un attore all’epoca molto in voga e che diventerà famoso per una serie di telefilm polizieschi che ancora oggi si vedono su qualche canale, appare all’inizio e si diverte molto a cammuffarsi per interpretare un vecchiaccio di quelli ricchi e cattivi. Sally Kellerman è un’attrice molto brava che non ricordavo assolutamente e che infatti avevo scambiato per Nancy Allen o Karen Black, due attrici molto frequenti nei film di Altman. La sua auto è targata BRD SHT , per chi sa un po’ d’inglese sarà facile risalire al pensiero che si nasconde dietro questa sigla, e che individua una caratteristica precisa degli uccelli tutti, del resto ben rappresentata nel film (in questo veramente molto realistico). Le due ragazze sono Jennifer Salt, timida compagna di classe, e la molto più disinibita Shelley Duvall, qui agli inizi di una carriera che culminerà in parti ancora oggi giustamente famose, in molti film di Altman (compresa l’Olivia di “Popeye”) e in “Shining” di Stanley Kubrick. Bud Cort è il protagonista: qui aveva 22 anni, ma è difficile dargliene più di 15, o magari 13.
Che dire, ancora? Magari un pensierino a Edgar Allan Poe e al suo “nevermore” gracchiato da un corvo, o magari questo:
Oh, I never asked to be your mountain
I never asked to fly...
(Tim Buckley, da “Goodbye and hello”, 1967)
2 commenti:
Di questo ricordo; i film così non li dimentico, forse perchè sono per adolescenti come me:)
io l'ho visto in tv, da adulto... Shelley Duvall è davvero molto attraente, Altman dice che provò la stessa impressione quando la vide per la prima volta: "ma che cos'ha questa per piacere subito?" (in effetti, guardandola in Shining...) (molti anni dopo farà Olive Oil sempre con Altman)
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