giovedì 19 novembre 2009
L'assedio
L’assedio (Besieged, 1998) Regia di Bernardo Bertolucci Da un racconto di James Lasdun. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci e Clare Peploe. Fotografia: Fabio Cianchetti. Musiche di Mozart, Grieg, Bach, Beethoven, Scriabin, Chopin, John C.Ojwang, Papa Wemba, Salif Keita, John Coltrane, Ry Cooder, Little Tony . Musiche originali di Alessio Vlad. Interpreti: Thandie Newton, David Thewlis, Claudio Santamaria, John C. Ojwang, Massimo De Rossi, Cyril Nri, Paul Osul, Veronica Lazar, Andrea Quercia. Durata: 93 minuti
“L’assedio” è un film d’amore. Siamo a Roma, negli anni Novanta, e un pianista inglese si innamora della ragazza africana che ha assunto come colf. Detto così sembra banale, ma la ragazza africana è moglie di un maestro di scuola messo in carcere da un regime autoritario, uno dei tanti che infestavano l’Africa Nera in quegli anni. Lei è a Roma, studia medicina, lavora per mantenersi agli studi, abita in una stanzetta di quella casa enorme piena di cose da spolverare, le tocca di ascoltare una musica che non capisce, e per di più adesso quest’uomo bianco, anglosassone e noioso, le viene a dire che si è innamorato di lei... In verità è impossibile non innamorarsi di Thandie Newton, la protagonista del film: troppo bella e troppo brava, e troppo giusta per la parte. Ma questo è solo il primo livello della storia.
Con "L'assedio" Bertolucci riesce in un miracolo: raccontare una storia quasi senza parole, solo attraverso le immagini e il sonoro (musica e rumori d'ambiente: la musica africana e quella di Beethoven). Una volta era un miracolo che riusciva a molti, oggi è rimasto quasi solo Bertolucci, maestro dell'immagine, a poter tentare queste meraviglie. Gli altri, quasi tutti gli italiani, fanno dialoghi filmati, quasi fotoromanzi; e fiction televisive mascherate da cinema.
Bertolucci racconta questa storia attraverso la musica, attraverso il contrasto fra la musica europea colta e quella africana (le prime immagini del film sono quelle di un cantastorie africano, che suona e canta accompagnandosi con una cetra d’aspetto arcaico), ma anche e soprattutto attraverso una serie di notazioni musicali trasferite in immagini. Il film è pieno di pianissimi, di “crescendo”, di “rallentando” , ci sono anche alcune accelerazioni improvvise (poche), c’è la nota buffa anche nel tragico (come in Schubert: qui fornita soprattutto dal personaggio affidato a Claudio Santamaria).
Lo scrittore James Lasdun dice di essersi ispirato al Boccaccio: ma non è la storia del falcone, è la storia di Dianora e Ansaldo. Per chi vuole divertirsi a cercarli, ci sono riferimenti precisi anche al Vangelo: a Luca XVIII, 18-23 e a Marco X, 17-22 e a Matteo XIX, 16-22 (solo che qui il giovane ricco ha davvero il coraggio di vendere tutto...). Ma spero di non aver parlato troppo, perché “L’assedio” è un film bellissimo ma impossibile da raccontare, meraviglioso per le immagini e per il modo di raccontare di Bertolucci, e anche per la bellezza di Roma così come è stata filmata.
Il meraviglioso e potente cantastorie che vediamo all’inizio e che scandisce tutta la storia (un bluesman autentico, però africano: peccato non poter capire le parole cantate) si chiama John C. Ojwang. Le altre musiche africane sono di Papa Wemba, Salif Keita, Coro Bondexo, Ali Farka Touré, Pepe Kalla e Papy Tex. C’è anche spazio per “My favourite things”, suonata da John Coltrane, e per “Cuore matto” di Little Tony; le musiche originali sono di Alessio Vlad.
Nel corso del film pianista David Thewlis alias Mr. Kinsky, doppiato dal pianista vero Stefano Arnaldi, suona: Mozart, Fantasia in re minore op.397; Grieg, Sonata op.7 in mi minore (secondo movimento); Johann Sebastian Bach, preludio in mi minore dal Clavicembalo ben temperato; Alessandro Scarlatti, studio op.8 n.12 in re diesis minore; Beethoven, 32 variazioni in do minore su un tema originale WoO80.
E il bambino Andrea Quercia, dai capelli e dal fisico beethoveniani, in una bella scena del film suona il valzer in mi maggiore di Chopin.
Non mi ricordavo più che “L’assedio” fosse un film per la tv, e rivedendolo non ci ho nemmeno fatto caso; me lo hanno ricordato alcune interviste a Bertolucci dell’epoca in cui uscì il film. Non mi sembra così diverso dagli altri film di Bertolucci, intendo (ovviamente l’ho rivisto in tv, da una cassetta: sarà ben dura rivederlo al cinema, come ho fatto la prima volta...). Certamente è un film intimo, quasi da camera: soprattutto se paragonato a Novecento o a L’ultimo imperatore. Ma, se vi capita, guardate cosa riesce a fare Bertolucci della casa dove abitano i protagonisti, e cosa riesce a fare con delle inquadrature molto quotidiane delle strade di Roma, o dell’università e dell’ospedale... Una qualità delle immagini, e una sensibilità personale, che hanno avuto in pochissimi. Roma è stata filmata tante volte, in cent’anni di cinema: raramente con questa sensibilità e attenzione.
Continuando poi a leggere le interviste “d’epoca”, trovo il punto che mi spiega tante cose: quando Bertolucci dice che chi fa i film per la tv non ha nessuna voglia di cercare soluzioni originali, e che i film per la tv sono rimasti fermi ad epoche lontane. E’ una frase detta quasi dieci anni fa, ma le cose non sono cambiate molto, dal punto di vista della fiction tv; anzi, si direbbero peggiorate.
La verità - triste – è che davanti a un film meraviglioso come “L’assedio” il pubblico della tv cambierebbe canale. La verità – ancora più triste – è che Bertolucci si ostina a non considerare le pause per gli spot pubblicitari: lui va avanti per conto suo, costruisce il ritmo del film sulla musica e non sugli spot. Che ingenuità...in qualsiasi scuola di cinema moderna gli spiegherebbero subito come si fa e cosa c’è che non va nei suoi film: troppi silenzi e pochi dialoghi, per esempio - un errore madornale.
Anzi, a dire il vero, pensandoci bene, uno come Bertolucci oggi non lo farebbero nemmeno entrare, in una scuola di cinema (pardon, “fiction”). Forse chiamerebbero la polizia per farlo arrestare.
Forse nel 1998 un film così per la tv si poteva ancora fare, oggi di sicuro no. I Murdoch e i Berlusconi farebbero gentilmente accompagnare alla porta un regista o uno sceneggiatore di quelli grandi che hanno fatto la storia del cinema. E terrebbero alla larga, soprattutto, tutti quelli che hanno tenuto alto il nome dell’Italia: ancora oggi, registi di successo di tutto il mondo (Iran e Corea compresi) citano Antonioni, Fellini, De Sica e Rossellini, ma Castellano & Pipolo e i Moccia e i Vanzina sono rimasti famosi solo qui da noi.
La vera differenza tra “come eravamo” e “come siamo” sta forse qui: che una volta l’industria del cinema vendeva soltanto il film, e quindi erano ben accette le idee nuove e le sperimentazioni. Oggi il film è solo un prodotto secondario, conta quasi soltanto il marketing: e l’industria della pubblicità ha paura delle novità, cerca solo storie e volti già noti e raccontati, si inventa memorie condivise che sono solo ripetizioni ossessive di luoghi comuni, ricicla senza ritegno melodie e canzoni di 30 o 40 o 300 anni prima, tanto chi se ne accorge.
Ma non è solo un problema di “vertici”, siamo di fronte a un cambiamento epocale che riguarda anche il pubblico. Il pubblico del cinema era diverso, più disponibile; il pubblico tv ha in mano il telecomando, e lo usa. Cancella non solo i capolavori ma anche e soprattutto la pubblicità: però non andate a dirlo ai “creativi”, che se no si inventano qualcosa per obbligarci a mangiarla tutta.
Bernardo Bertolucci, intervista del 1998 (reperibile per intero sul sito di Rai international):
- (...) Come si è trovato a lavorare ad un "piccolo progetto"?
« Ho girato in uno stato di grande libertà. Una libertà persa molti anni fa e ora ritrovata. Inquadratura dopo inquadratura pensavo solo a come la storia si evolveva. La mutazione è soprattutto un discorso di stile; l'occhio sui personaggi è sempre il mio, ma c'è qualcosa di diverso nel ritmo, nel montaggio. Ho voluto tornare alle origini del cinema muto, così anche nel mio film si parla pochissimo. Nel futuro vorrei potermi spingere ancora oltre. »
- (...) La destinazione televisiva non ha rappresentato un limite?
«Io sono grato a chi mi ha spinto a fare un film per la televisione. L'ultimo lo avevo fatto venti anni fa con "La strategia del ragno". A quei tempi fare televisione mi sembrava qualcosa di meno che fare cinema e mi ero vendicato girando il film con una quantità di campi lunghissimi. Il risultato fu che sul piccolo schermo il film era inguardabile. Stavolta, invece, non ho preso l'occasione prospettatami come una perdita, ma come una possibilità di arricchimento. Volevo sperimentare dal vero un'idea che mi ossessiona.»
- Quale?
«Il cinema si sta trasformando e non può ignorare i nuovi linguaggi e le nuove tecnologie. Era imbarazzante quando il cinema imitava la televisione e la televisione imitava il cinema. Oggi ci sono giovani registi che riescono a parlare un linguaggio nuovo e tra questi Harmony Korine che ha fatto "Gummo" presentato a Venezia due anni fa, o Tsai Ming Liang. Il loro cinema è la "diretta" della realtà e lo sanno benissimo; mentre tra quelli della mia generazione, c'è ancora molta diffidenza per l'elettronica. "L'assedio" è quasi un musical in cui il ritmo è suggerito dai movimenti della macchina da presa. Nel film c'è anche una grande mescolanza di stili di ripresa: macchina a mano, carrelli e steady-cam. E' in un certo senso un film plurilinguista come avrebbe detto Pasolini. Prima non lo avrei mai fatto. Con grossi budget si è portati a seguire le convenzioni.»
- Cosa rimprovera alla fiction televisiva di oggi?
«Mi sembra ferma agli anni Settanta/Ottanta, come se non ci fosse la voglia di esplorare il mezzo televisivo. Forse perché la committenza ti impone di volare rasoterra, oppure perché c'è questa rincorsa all'audience che rende i due poli televisivi identici. Non si pensa quindi ad investire sul futuro, sulle enormi potenzialità educative di questo mezzo che invece resta solo una vetrina di prodotti.»
- Teme che "L'assedio" possa non essere capito dal pubblico televisivo?
«Non credo che sia più ostico o misterioso di altri miei film. Comunque vorrei che "L'assedio" avesse una vita in armonia con le sue dimensioni, uscendo dall'alternativa obbligata, grande successo oppure nulla. E poi, a parte le idee nascoste sottotraccia, c'è una storia d'amore comprensibilissima che ha emozionato ovunque: a Toronto, a San Sebastian e anche in India. » (...) Bernardo Bertolucci, intervista del 1998 (reperibile per intero sul sito di Rai international)
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