lunedì 12 luglio 2010

Il ragazzo selvaggio

Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage, 1970) Regia di François Truffaut. Tratto dal libro (resoconto scientifico) del dottor Jean Itard (anno 1798). Sceneggiatura di François Truffaut e Jean Gruault. Fotografia di Nestor Almendros. Scenografie di Jean Mandaroux. Costumi di Gitt Magrini. Musica di Antonio Vivaldi (concerto per flauto, solista Michel Sanvoisin; concerto per mandolino, solista André Saint-Clivier). Con François Truffaut (Jean Itard), Jean Pierre Cargol (Victor), Jean Dasté (professor Pinel), Françoise Seigner (madame Guérin). Durata 83’

« Un fanciullo di dodici o tredici anni, che qualche anno prima era stato intravisto nei boschi della Caune, completamente nudo, in cerca di ghiande e di radici di cui si nutriva, venne incontrato in quegli stessi luoghi, verso la fine dell'anno VII, da tre cacciatori, che lo catturarono, mentre si arrampicava su un albero per sfuggire al loro inseguimento. Condotto in un piccolo villaggio delle vicinanze e affidato alla custodia di una vedova, in capo a una settimana il fanciullo fuggì e riguadagnò le montagne sulle quali errò nei più crudi rigori dell’inverno, rivestito più che coperto da una camicia a brandelli , ritirandosi durante la notte in luoghi solitari e accostandosi di giorno ai villaggi vicini, conducendo una vita errabonda, fino al giorno in cui entrò di sua spontanea volontà in una casa abitata del cantone di Saint-Sernin. Venne ripreso, sorvegliato e curato per un paio di giorni; fu quindi trasferito all’ospedale di Saint Affrique, poi a Rodez, dove venne trattenuto per parecchi mesi. Durante il periodo trascorso in questi diversi luoghi lo si è visto sempre ugualmente selvaggio, impaziente, inquieto, cercare continuamente di fuggire e offrire materia di osservazioni interessantissime, raccolte da testimoni degni di fede, che non si mancherà di riferire nel corso di questo saggio, nei punti in cui potranno avere maggior risalto. Un ministro, protettore delle scienze, credette che la scienza dell'uomo morale avrebbe potuto trarre qualche lume da questo avvenimento. Vennero impartiti ordini perché il fanciullo fosse condotto a Parigi. Vi giunse verso la fine dell'anno VIII, sotto la scorta di un povero e rispettabile vecchio che, costretto a separarsene poco tempo dopo, promise di tornare a riprenderselo e di fargli da padre, se mai la società lo dovesse abbandonare.

Le più luminose e meno ragionevoli speranze avevano preceduto a Parigi il Selvaggio dell'Aveyron. Molti curiosi pregustavano il piacere di vedere il suo stupore dinanzi a tutte le bellezze della capitale. D'altro canto diverse persone, per altro raccomandabili per i loro lumi, dimenticando che i nostri organi sono tanto meno duttili e l'imitazione è tanto più difficile quanto più l'uomo è lontano dalla società e dall'epoca della prima infanzia, credettero che l'educazione di quell'individuo sarebbe stata questione di qualche mese e che lo si sarebbe presto udito fare i più piccanti racconti della sua vita passata. E invece, cosa si vide? Un fanciullo di un sudiciume disgustoso, affetto da movimenti spasmodici e spesso convulsi, che si dondolava in continuazione, come certi animali in cattività, e mordeva e graffiava quanti lo servivano; e che infine era indifferente a tutto e non prestava attenzione a nulla. E’ facile immaginare che un essere del genere non dovette suscitare che una momentanea curiosità. Accorsero in massa, lo videro senza osservarlo, lo giudicarono senza conoscerlo e non ne parlarono più. In mezzo all'indifferenza generale, gli amministratori dell'istituto nazionale dei sordomuti e il suo celebre direttore, non dimenticarono che la società, attirando nel suo seno questo giovane sventurato, aveva contratto nei suoi confronti degli obblighi imprescindibili, che era loro dovere soddisfare. Condividendo allora le speranze che io fondavo su un trattamento medico, decisero di affidare il fanciullo alle mie cure. (...)»
Così comincia uno dei libri più affascinanti che mi sia mai capitato di leggere, “Il ragazzo selvaggio” di Jean Itard (ed. Longanesi 1970, traduzione di Tilde Riva). Siamo nel 1797, poco dopo la Rivoluzione Francese (è ad essa che si riferiscono le date in numeri romani), e in Francia, nei boschi di Lacaune nella regione dell’Aveyron, viene avvistato un bambino, dell’età apparente di 10-12 anni, nelle condizioni qui sopra descritte proprio dal dottor Itard. E’ da questo libro, il resoconto da parte di Itard dell’educazione del “ragazzo selvaggio”, che François Truffaut trasse uno dei suoi film più belli e più singolari.

Il libro mi era stata regalato, quando ancora andavo alle medie, da una cara persona che forse non sapeva di cosa si trattava; il film lo avevo visto pochi anni dopo, e mi aveva colpito molto. Fu il mio primo incontro con Truffaut, e forse per questo non mi sono mai raccapezzato molto con gli altri suoi film, quelli precedenti e quelli successivi. Ancora oggi, per me Truffaut è questo, quello illuminista del “Ragazzo selvaggio”. Oltretutto, in “L’enfant sauvage” Truffaut recita di persona: si prende la parte del dottor Itard ed è un’interpretazione di quelle che non si dimenticano.
Non c’è niente di facile o di effettistico, in questo film: Truffaut inquadra il racconto dentro l’Illuminismo, con ambienti molto razionali e ricostruiti con cura, e con grandi stampe alle pareti che sono quasi sicuramente prese dall’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert.

Rivedendo il film di Truffaut dopo parecchi anni, mi ha colpito una somiglianza curiosa, e che non ritengo casuale, con un film che sarebbe uscito pochi anni dopo: “L’enigma di Kaspar Hauser” di Werner Herzog. Nei due film vengono raccontate due storie vere, molto ben documentate, con molte somiglianze e molte differenze. Si tratta di due trovatelli, più o meno della stessa età (anche se Herzog fa interpretare la parte di Kaspar ad un attore adulto), a distanza di circa quarant’anni l’uno dall’altro. Ma, mentre Victor (il bambino di Jean Itard) è cresciuto nei boschi e si comporta come un animale, Kaspar Hauser è stato tenuto segregato ed ha ricevuto una qualche forma di educazione, che non tarda a riemergere. I due film hanno molto in comune sotto l’aspetto visivo: soprattutto gli interni, i costumi, gli atteggiamenti degli attori, la ricostruzione storica così perfetta da far credere, a tratti, che si tratti di un documentario. Ecco, questa “parentela” tra Herzog e Truffaut è davvero singolare, e inaspettata.
C’è poi un’altra parentela, questa volta dichiaratissima, con Jean Vigo. Truffaut è cresciuto nel mito di Jean Vigo, autore di soli tre film ma meravigliosi: il suo capolavoro è “L’Atalante”, del 1933 (la più bella storia d’amore mai girata al cinema). Prima dell’Atalante, Jean Vigo aveva girato un film tutto interpretato da ragazzi dell’età di Victor, in un collegio per adolescenti. Il film di Vigo si chiama “Zero in condotta”, e anche se risente molto degli anni che sono passati (siamo agli albori del cinema sonoro), la sua influenza su tutto il cinema di Truffaut è evidentissima. Truffaut si è dedicato molto ai bambini e agli adolescenti, e questa in fin dei conti è la storia di un bambino. Sia in Truffaut che nel libro di Itard, è il bambino Victor che risalta in primo piano, e non era così scontato. Grande evidenza, nella prima parte del film, hanno i bambini dell’Istituto per i Sordomuti, presso i quali viene ricoverato Victor prima di essere preso in casa da Itard: è qui che la somiglianza con “Zero in condotta” diventa evidente. Ma Victor è vissuto troppo tempo da solo e non può comunicare nemmeno con i bambini sordomuti.

Tra gli interpreti di “L’enfant sauvage” c’è anche Jean Dasté, il protagonista dell’Atalante di Vigo: chi segue Raitre lo ha visto molte volte (da giovane) tuffarsi dalla sua chiatta sulla Senna per raggiungere sott’acqua l’immagine dell’amata. Dasté è un attore che ha lavorato moltissimo, la lista dei suoi film dopo l’Atalante è lunghissima, ed è quindi forse un po’ esagerato dire che la sua presenza qui sia un omaggio a Jean Vigo, ma oserei dire che la scelta non è da considerarsi casuale.
Dasté intrepreta il professor Pinel, il collega di Itard che a Parigi fu il primo a stendere un rapporto sul ragazzo trovato nei boschi; e con lui accanto Truffaut fa davvero una gran figura.

« (...) Riferendo poi parecchie storie, raccolte a Bicêtre, di fanciulli irrevocabilmente colpiti da idiozia, il cittadino Pinel stabilì tra lo stato di quei disgraziati e quello che presentava il fanciullo di cui ci occupiamo, gli accostamenti più rigorosi, dai quali risultava necessariamente un'identità completa e perfetta tra quei giovani idioti e il Selvaggio dell'Aveyron. Questa identità portava necessariamente a concludere che colpito da una malattia ritenuta sinora inguaribile, il fanciullo non era suscettibile di nessuna specie di sociabilità e d'istruzione. Questa fu appunto la conclusione che ne trasse il cittadino Pinel, accompagnandola tuttavia con quel dubbio filosofico che pervade tutti i suoi scritti e che suole mettere nei suoi presagi chi sa apprezzare la scienza del pronostico e sa vedervi null'altro che un calcolo più o meno incerto di probabilità e di congetture. Io non condividevo affatto questa opinione sfavorevole; e malgrado la verità della descrizione e la giustezza degli accostamenti, osai concepire qualche speranza. Speranza che fondai sulla duplice considerazione della causa e della curabilità di quell'apparente idiozia.
Non posso andar oltre senza soffermarmi un istante su queste due considerazioni. Esse ci riportano ancora al momento presente e si basano su una serie di fatti che devo raccontare e ai quali mi vedrò costretto a mescolare più d'una volta le mie personali riflessioni. Se ci venisse dato da risolvere questo problema di metafisica: determinare quale sarebbe il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente che, privato sin dall'infanzia di ogni educazione, abbia vissuto completamente isolato dagli individui della propria specie. O mi sbaglio di grosso o la soluzione del problema si ridurrebbe a non concedere a questo individuo che un'intelligenza relativa all'esiguo numero delle sue necessità e privata, per astrazione, di tutte le idee semplici e complesse che riceviamo con l'educazione e che nel nostro animo si combinano in tanti modi, unicamente per mezzo della conoscenza dei segni. Ebbene, il quadro morale di questo adolescente, sarebbe quello del Selvaggio dell'Aveyron e la soluzione del problema darebbe la misura del suo stato intellettuale. Ma per ammettere ancora a maggior ragione l'esistenza di questa causa, bisogna provare che ha agito a distanza di anni e bisogna rispondere all'obiezione che mi si potrebbe muovere e che mi è stata già mossa, che il preteso selvaggio altri non era che un povero imbecille che i genitori, disgustati, avevano da poco abbandonato in qualche bosco. Quelli che hanno fatta propria una simile supposizione, non hanno certo osservato il fanciullo poco tempo dopo il suo arrivo a Parigi. (...)» (da “Il ragazzo selvaggio” di Jean Itard, ed. Longanesi, trad. di Tilde Riva)


Truffaut segue fedelmente la storia così come viene raccontata da Itard, e più avanti mi piacerebbe riportare altri brani del libro con le immagini del film: penso proprio che lo farò. Rimane da dire che il recupero di Victor non sarà completo: da adulto, Victor tornerà all’Istituto dei Sordomuti e vi rimarrà fino alla morte, che lo coglie ancora giovane, nel 1828.
A conclusione del discorso su “L’enfant sauvage” mi viene da dire che rivedendolo mi è tornato alla mente, e con grande evidenza, un altro maestro (nel senso di insegnante) di quegli anni, quello interpretato in tv da Bruno Cirino nel “Diario di un maestro” con la regia di Vittorio De Seta. Erano cose che capitavano in quegli anni, mi sono detto: c’era stato anche il maestro Manzi, per esempio. Erano i temi che si sceglievano in quegli anni, e che piacevano anche ad un pubblico molto vasto. Oggi questi temi non vanno più, anche a scuola si parla d’altro: di separare, di bocciare, di discriminare, di privatizzare. Sono proprio altri tempi, e chissà di cosa ci avrebbe parlato Truffaut, oggi: ma forse avrebbe preferito fare altro, stare zitto prima che lo si costringesse a tacere.

4 commenti:

Il cineocchio ha detto...

Complimenti per il blog, continuerò a seguirti! Volevo tra l'altro riferirti che ti ho inserito nella mia lista di blog segnalati per il premio Dardos (nonchè nel blogroll del mio sito). Link:

http://ilcineocchio.99k.org/?p=2340

Saluti!

Giuliano ha detto...

Ringrazio molto, ma ricordo che questi sono soltanto miei appunti personali. So che a qualcuno fa piacere leggerli, ed è solo per questo che sono leggibili in rete.

Marisa ha detto...

Si tratta indubbiamente di un film eccezionale, anche se scomodo. I debiti di riconoscenza verso Jean Vigo ci sono tutti e Truffaut ne è ben consapevole.
La grande illusione dell'illuminismo è mirabilmente bilanciata da un autentico amore per il ragazzo e uno spirito di ricerca che precorre Freud.
Certo che più i danni dovuti alla mancanza di relazione e di "empatia" sono precoci e meno sono le probabilità di una riparazione totale, ma questo ancora oggi preferiamo ignorarlo e tirare in ballo sempre più le cause organiche e i geni. Meno lavoro e meno responsabilità, in cambio più guadagno per le case farmaceutiche...
E continuiamo a sostenere che l'uomo è prevalentemente un essere sociale e relazionale!
Che tristezza!

Giuliano ha detto...

Ero rimasto molto colpito dal libro di Jean Itard, e anche dal film: ero poco più di un bambino, ma la presenza di una mia cugina handicappata mi è servita molto per capire e anche soltanto per evitare di dire scemenze, quelle scemenze atroci che un po' tutti dicono.
Quello che più mi aveva colpito era di trovare un'esperienza come questa, di amore e di assistenza, addirittura a fine Settecento. Ancora negli anni '60, chi aveva un figlio handicappato lo teneva nascosto; oggi purtroppo si sono fatti molti passi indietro, per colpa soprattutto di una classe dirigente e politica non all'altezza.
Dobbiamo moltissimo all'Illuminismo, spesso è difficile rendersene conto ma l'Illuminismo - grazie anche alla Rivoluzione Francese, che ebbe questo merito anche dopo, con Napoleone, si diffuse la cultura dell'igiene: molti studiosi di medicina dicono che le gravissime epidemie, le pestilenze e il colera, eccetera, sparirono proprio perché si cominciò a capire che l'igiene personale e pubblica (le fognature, le sepolture fatte in modo appropriato) era fondamentale.
Di quel periodo sono anche le grandi scoperte chimiche e la nascita dell'industria. Il libro di Itard è bellissimo, e penso che ne approfitterò ancora in futuro.