venerdì 23 luglio 2010

Lettera al Kremlino

THE KREMLIN LETTER (LETTERA AL KREMLINO, 1969) Regia: John Huston; sceneggiatura: John Huston, Gladys Hill (dal romanzo omonimo di Noel Behn); fotografia (Panavision, De Luxe): Ted Scalfe; scenografia: Ted Haworth, Elven Webb; arredamento: Dario Simone; costumi: John Furniss; musica: Robert Drasnin; montaggio: Russell Lloyd; interpreti: Richard Boone (Ward), Bibi Andersson (Erika Boeck), Max von Sydow (colonnello Vladimir Kosnov), Patrick O'Neal (tenente Charles Rone), Orson Welles (Aleksei Bresnavitch), Ronald Radd (Potkin), Nigel Green (Janis alias «La puttana»), Dean Jaegger («L'uomo dell'autostrada»), Lila Kedrova (Madame Sophie), Barbara Parkins (B. A.), George Sanders («Lo stregone»), Raf Vallone («Il fabbricante di pupazzi »), Michael MacLiammoir («Sweet Alice»), Anthony Chinn (Kitai), Sandor Eles (Grodin), Niall McGinnis (apparecchio erettore), Guy Deghy (professore), John Huston (ammiraglio), Fulvia Ketoff (Sonia), Vonetta McGee (negra), Marc Lawrence (prete), Cyril Shaps (medico di polizia), Christopher Sanford (Rudolph), HanaMaria Pravda (signora Kazar), George Pravda (Kazar), Olof Siren (impiegato d'albergo), Daniel Smid (cameriere), Victor Beaumont (dentista), Steve Zacharias (dittafonista), Laura Forin (Elena), Saara Rannin (madre di Mikhail), Rune Sandlunds (Mikhail), Sacha Carafa (signora Grodin); produzione: 20th Century Fox; origine: USA; durata: 121'.

“Lettera al Kremlino” (o forse, più comprensibile, “La lettera al Kremlino”) un John Huston del 1969, è così brutto e noioso che ho fatto fatica a reggere fino alla fine, ed è una cosa che mi capita di rado. Un altro film “alimentare”, dunque, fatto per portare a casa soldi e senza troppa convinzione: ma è anche un film con molti punti interessanti che vale la pena di fermare.
Girato per fare (molto probabilmente) concorrenza a James Bond e ai film di spionaggio che andavano per la maggiore in quegli anni, visto oggi appare quasi incomprensibile, slegato, elefantiaco: non che sia tutto da buttare, ma anche quello che c’è di buono è montato male e girato male, molto genericamante. A dirla tutta, e conoscendo bene gli altri film di John Huston, l’impressione dominante è che il film sia stato girato da altri e che Huston si sia limitato a metterci la firma.
In più, “Lettera al Kremlino” è stato girato con un formato di pellicola enorme, da grandissimo schermo, roba tipo Cleopatra o Ben Hur: inutilmente enorme, viene da dire, visto che il soggetto del film si basa tutto sugli attori e non richiede scene di massa o grandi panoramiche.
Come ciliegina sulla torta, l’attore protagonista (Richard Boone) è inespressivo e poco simpatico, decisamente anonimo: impossibile identificarsi con un tipo così. Vengono invece ad essere molto simpatici i “cattivissimi sovietici”, e qui sta uno dei motivi d’interesse del film, perché i cattivi sono interpretati da grandissimi attori, anch’essi decisamente in vacanza ben pagata, ma che comunque vale la pena di vedere almeno una volta. I “cattivi” più cattivi sono infatti Orson Welles e Max von Sydow, evidentemente divertiti ed evidentemente in vacanza, ben spesati e ben pagati.
Anche il resto del cast è stellare, inutilmente stellare viene da pensare: questo film dev’essere costato una fortuna, ma è anche un film dove tutto è sprecato e insensato, e viene da pensare che il vecchio pirata John Huston l’abbia fatto deliberatamente così, come suggerisce Morando Morandini: «Dalle campagne e dai castelli dell'Austria, con qualche ripresa all'abbazia cistercense di Fossanova (Latina) di A Walk with Love and Death, Huston passa a Helsinki per girare The Kremlin Letter (1969), la prima delle sue incursioni nel genere spionistico. Bisogna risalire a Il grande sonno o a Il tesoro dell'Africa per trovare nel cinema americano d'azione un film di altrettanto labirintica assurdità. Il plot del romanzo di Noel Behn si dipana dall'invio di agenti americani a Mosca per recuperare un documento, distrattamente firmato da un alto funzionario di Washington e inviato al Kremlino, in cui il governo degli Stati Uniti si dichiara disponibile ad aiutare l'Unione Sovietica per distruggere gli installamenti nucleari della Repubblica Popolare Cinese. Nell'adattare il romanzo con Gladys Hill, Huston ne accentua così impavidamente, con nerissimo humour, il senso di irrealtà da trasformarlo in un pamphlet feroce e delirante. Le giravolte violente dell'intrigo, impaginato a ritmo spedito, sono il pretesto di un'allucinata mise en scène di Mosca by night all'insegna della droga e del meretricio, abitata da sadici, ninfomani, canaglie di ogni risma, che fa il paio con l'omologo e altrettanto corrotto mondo occidentale. In cadenze di divertissement cinico portato alle sue estreme conseguenze, Lettera al Kremlino può essere letto anche, sollecitando rudemente il testo, come una metafora politica attraverso la quale, con un disprezzo intinto nella disperazione, Huston, moralista solitario, esprime il suo giudizio sulla convivenza pacifica delle due superpotenze. Sostenuto da una straordinaria compagnia di attori, è un film mistificatorio che dinamita dall'interno, nelle cifre di una parafrasi irridente, un filone che negli anni '60 di bondismo trionfante si era a poco a poco costituito in un genere dalle norme rigide quasi quanto quelle del western. Anche perciò, accolto con tiepido rispetto da una critica distratta, fu un fiasco al botteghino, ma non ci sarebbe da meravigliarsi se sarà riscoperto negli anni '80, diventando un oggetto di culto nelle piccole stanze dei cineclubs e filmstudio occidentali quando il cinema avrà ormai lo statuto di consumo elitario e periferico di lusso. (...)»
(Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”)
Beh, bisognerà pur dire che gli anni ’80 sono passati da un pezzo, questo film non è mai stato “riscoperto”, e se qualcuno lo ha riscoperto è stato solo per tornare a nasconderlo con cura. Il giudizio di Morandini è però ancora da condividere appieno: Huston tende davvero a fare del soggetto, tratto da un romanzo di Noel Behn, una giostra di assurdità e una parodia delirante, con in più un giudizio negativissimo sia sull’URSS che sulle spie USA, descrivendo un mondo corrotto di pazzi assassini e drogati, nonché pervertiti (vedere per credere, non sto affatto esagerando).
In questo cast “stellare” troviamo fra i sovietici lo svedese Max von Sydow (che la faccia da cattivo non l’ha mai avuta, e anche qui non è molto credibile) e un corrottissimo Orson Welles, cinico e doppiogiochista, che in questo ruolo pare divertirsi un mondo: era in gran forma, peccato che il film non lo abbia sfruttato a dovere. Russa, o sovietica, è anche Bibi Andersson: vedova e moglie di cattivissimi doppiogiochisti sovietici, alle prese con due goffissime scene sadomaso girate insieme al protagonista Richard Boone, che qui si manifesta appieno (sorry) nella sua vera entità di patata bollita. Gli altri attori formano il drappello di spie americane, ritrovati e recultati all’inizio come in altri fortunati film e romanzi di genere, dai “Tre moschettieri” (Vent’anni dopo) a “Quella sporca dozzina”. Si inizia infatti così, con il drappello di gloriosi (e sporchi) eroi che viene riformato uno per uno; ed è un inizio piacevole, dopo il quale ci si aspetterebbe qualcosa di rocambolesco e di divertente, ma il seguito è invece di una noia mortale e di una goffaggine inaspettata, anche là dove si fa sesso, si lotta e si spara. A proposito di Orson Welles, “Lettera al Kremlino” è anche una delle poche occasioni per rivedere, in ruolo diversissimo, l’attore che fu Iago nel suo “Othello”: l’irlandese Micheal MacLiammoir. Nel cast altri nomi noti, come Raf Vallone e Patrick O’Neal, oltre a Vonetta McGee, una delle bellissime del cinema afroamericano.
Va detto che forse il film andrebbe visto in inglese, non doppiato; ma forse è più utile ricordare che in quel 1969 John Huston girò ben tre film, per poi riposarsi fino al 1972 quando girò due film molto belli, Fat city e Roy Bean. Nel 1973 ecco un altro film “alimentare” (The Mackintosh Man) per poi tornare alla grande nel 1975 con “L’uomo che volle farsi re”.
Tra le “perle nere” di Lettera al Kremlino metterei senz’altro George Sanders vestito da donna (il suo personaggio è un omosessuale che grazie a questa sua devianza s’infiltra tra i pervertiti sovietici e ne ricava preziose informazioni). Il giudizio negativo non è tanto per il fatto in sè, ma piuttosto perché tutta la sequenza appare incomprensibile (nel senso che non ci si capisce niente), e per la maniera davvero caricaturale in cui vengono trattati gli omosessuali: vere, autentiche “checche” come nei film di Bombolo e Pierino. Anche qui, ad essere del tutto sinceri, queste sequenze sembrano provenire da un altro film e incollate grossolanamente a tutto il resto: penso di non essere molto lontano dalla verità, e non solo per queste scene. Un altro dubbio che sorge: non è che Sanders (che nel 1969 era ancora una stella di prima grandezza) venga fatto “sparire” di colpo solo perché, come capita oggi con le soap operas, aveva preferito mollare tutto e andare da un’altra parte a fare qualcosa di meglio?
Un altro dettaglio incomprensibile: perché mai il protagonista (Richard Boone) viene chiamato “nipote” per tutto il tempo che dura il film? Perché il vecchio “capo spia” americano lo chiama così, e lo tratta con affetto filiale? Sono ancora qui che me lo chiedo, una spiegazione ci sarà ma vedendo il film non si capisce affatto.
Nel cast c’è anche John Huston, che appare brevemente all’inizio nei panni dell’ammiraglio che degrada (ma solo per finta, per copertura) il protagonista: e Huston come attore è sempre bravissimo, da non perdere.
In “Lettera al Kremlino” gran parte hanno le perversioni sessuali, ma l’effetto è quasi sempre grottesco e caricaturale: alla spia russa catturata in America si fa vedere un filmino dove la figlia “rischia di diventare lesbica” e solo così lo si convince a collaborare – le minacce di morte alla moglie e alle altre figlie non lo avevano convinto, questa cosa invece lo terrorizza e lo convince a collaborare seduta stante... Memorabile anche il momento in cui viene suggerito al protagonista come truccarsi “da russo sovietico” senza destare sospetti: tra i consigli, farsi crescere i peli nel naso e nelle orecchie, perché tutti i russi sono così (i russi sono dei selvaggi simili alle scimmie, è questo il pensiero nascosto?).

Notevole è comunque la sequenza in cui una meravigliosa ragazza mora (la meravigliosa ragazza mora in questi film è d’obbligo, e Barbara Parkins è tra le migliori mai viste), figlia di uno dei “vecchi spioni”, dimostra la sua bravura aprendo con le dita dei piedi una cassaforte di cui non conosce la combinazione, dentro la quale c’è una bomba ad orologeria. Calzamaglia nera, piedi nudi perfetti, a questa meravigliosa ragazza (ovviamente, la fidanzata dell’eroe) è dedicato anche il finale del film, un ordine spietato da eseguire che lascia tutto in sospeso e che fa immaginare che fosse pronto un sequel: ma penso proprio che il seguito di “Lettera al Kremlino” non sia mai stato girato. In ogni caso, se è stato girato non è opera di John Huston: e l’unico motivo per cui ho voluto vedere fino in fondo questo film (lo ammetto, un po’ mi ci sono divertito) è proprio la firma di uno dei miei autori preferiti. Di interessante, da ricordare, c’è un tema tipico di Huston che torna, come già in “The list of Adrian Messenger” del 1963 (che è invece un capolavoro, sia pur nella sua stranezza), ed è il tema del mascheramento: qui nessuno è se stesso, tutti hanno due o tre o quattro personalità. In questo senso, è da rimarcare ciò che dice Bibi Andersson quando scopre la vera identità del suo amante finto sadomaso, cioè il protagonista del film, a tre quarti d’ora circa dall’inizio: «...è il mondo in cui vivete...la verità non esiste, e chi la fa esistere muore presto.»
La musica, firmata da Robert Drasnin, è invadente e fastidiosa, enfatica, in perfetto “stile James Bond”. C’è a chi piace, io quando trovo una musica così abbasso subito il volume.
PS: Le immagini di questo post vengono quasi tutte da BLUEFISH321, che le ha pubblicate su Flickr.

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