giovedì 8 luglio 2010

Quintet ( V )

Quintet (1979) Scritto e diretto da Robert Altman. Sceneggiatura di Robert Altman, Lionel Chetwynd, Patricia Resnick, Frank Barhydt. Fotografia: Jean Boffety. Musica: Tom Pierson. Interpreti: Paul Newman (Essex), Vittorio Gassman (Saint Christopher), Fernando Rey (Grigor, il giudice), Bibi Andersson (Ambrosia), Brigitte Fossey (Vivia), Nina Van Pallandt (Deuca), David Langton (Francha), Craig Richard Nelson (Redstone). Durata: 118 minuti
The Mahabharata (1989). Dal poema indiano. Regia di Peter Brook. Sceneggiatura: Peter Brook, Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne Direttore della fotografia: William Lubtchansky Scenografia: Emmanuel de Chauvigny Costumi: Chloé Obolensky, eseguiti da Barbara Higgins Musica: Toshi Tsushitori, Kim Menzer, Kudsi Erguner, Mahmoud Tabrizi-Zadeh, Diamchid Chemirani, Sarmila Roy Interpreti: Robert Langdon Lloyd (Vyasa) Bruce Myers (Ganesh/Krishna) Vittorio Mezzogiorno (Arjuna) Andrzei Seweryn (Yudhishthira) Mamadou Dioume (Bhima) Jean Paul Denizon (Nakula) Mahmud Tabrizi-Zadeh (Sahadeva) Mallika Sarabhai (Draupadi) Myriam Goldschmidt (Kunti) Erika Alexander (Madri/Hidimbi) Richard Ciezlak (Dritharashtra) Hélène Patarot (Gandhari) Georges Corraface (Duryodhana) Jeffrey Kissoon (Karna) Yoshi Oida (Drona) Sotigui Kouyate (Bhishma/Parashurama) Ciaran Hinds (Aswattaman) Tapa Sudana (Salya/Shiva/Pandu) Corinne Jaber (Amba/Sikandin) Velu Viswanadhan (Santanu) Leela Mavor (Satyavati) Tuncel Kurtiz (Shakuni)

Le scene di gioco in Quintet mi hanno fatto tornare alla mente il Mahabharata di Peter Brook, la scena della partita a dadi: è possibile che il regista inglese abbia tenuto conto del film di Altman, nel girarla. La parola che si usa è la stessa, gambling;
Shakuni (l'attore turco Tuncel Kurtiz) e Grigor (Fernando Rey, nel film di Altman) sono però molto diversi tra di loro, pur con qualche caratteristica simile; e i due giochi, le due tavole da gioco, hanno somiglianze e differenze. Metto qui alcuni dialoghi e immagini, senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, solo come punto di partenza per un ragionamento ancora tutto da maturare. L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che negli scacchi (come nel "Settimo sigillo" di Ingmar Bergman) entrambi i giocatori partono con le stesse possibilità di vittoria, ed è solo la bravura personale a determinare il risultato; per chi gioca con i dadi, o con le carte, entra invece in gioco anche il Destino, o il Caso, o come lo si voglia chiamare. Anche il miglior giocatore è destinato a perdere, se i dadi non girano dalla parte giusta o se le carte – che vanno dove vogliono – gli sono avverse...
Ambrosia: (...) Nell'ignoto c'è speranza.
Saint Christopher: Speranza?! E' un vocabolo cancellato. Io sollecito un giudizio.
Grigor: L'impostore, anche se non ha partecipato al gioco per sua scelta, è dentro al gioco. E' come la vita: nessuno c'è dentro per sua scelta. L'uomo che porta i pezzi di Redstone, è Redstone. La sua vita non è importante, al di fuori del gioco.
Saint Christopher: E così sia.
Saint Christopher: Tu giochi al buio, ed è una tattica pericolosa. Non potrai mai capire il disegno finché non sei parte del disegno.
Essex: Con questo vuoi dire che lo sarò?
Saint Christopher: Certo! Nel preciso momento in cui sarà troppo tardi.
Deuca: Ti sta dando dei buoni consigli. E' evidente che in finale vuole incontrare te, e non me.
Ambrosia: (...) Ne sei sicura? Tu sei talmente prevedibile che certe volte mi viene meno l'interesse. (Deuca muove) Pericolosa questa mossa... Fuggi via da lei, Redstone... aspetta che sia lei a sbagliare.
Essex: Non ho pazienza. Non sopporto d'aspettare, te l'ho detto: non mi va, il gioco.
Ambrosia: E allora perché giochi?
Essex: Per istruirmi.
Essex: Dimmi, esattamente quale è il tuo lavoro?
Grigor: Mantenere in vita il gioco. E' la sola cosa importante. La sola manifestazione intelligente rimasta è il gioco del Quintet. Tutti gli elementi della vita sono contenuti in esso: la nostra arte, la nostra filosofia... Tutti i valori autentici si addicono al gioco. Il gioco è la sola cosa di valore. Andiamo, andiamo!
Grigor: Il premio?? Vincere. Essere vivo! Questo è l'unico premio. Giochi per il brivido che ti dà. E' la vita stessa. (...) Puoi avere il senso della vita solo quando la morte è vicina. Lo spirito del Quintet è questo: quelli che giocano si battono per la loro vita, avresti dovuto impararlo. Non è così?
...
Grigor: Aspetta! Dove vai? Non esiste più un altro posto in cui andare. Non c'è più nient'altro da guadagnare. Non c'è più niente da imparare. Perciò cercare non ha scopo. E' come restare per tutto il giorno chiuso nel limbo, lanciando un'infinita serie di inutili sei.


Al film che Peter Brook trasse dal Mahabharata ho dedicato sei post, che sono qui in archivio. Questo è il mio post n.2, sulla partita a dadi.
MAHABHARATA 2 – LA PARTITA A DADI
Anche nel Mahabharata, come nell’Odissea, gli dèi passeggiano e vivono in mezzo a noi, come comuni mortali. Nel grande poema indiano è soprattutto Krishna a interpretare questo ruolo.
Krishna è l’ottavo avatar di Vishnu: cioè la sua ottava incarnazione su questa terra. E’ molto amato, si ricorre alla sua saggezza per consigli e sostegno, ed è temuto per la sua potenza; ma ha anche molti tratti in comune con Mercurio, o con il Loki della mitologia nordica: i trucchi, le astuzie, e perfino gli inganni sono parte integrante, e non secondaria, del suo agire. Nel Mahabharata si mostra come uomo, e come uomo agisce anche se tutti lo riconoscono come dio; si mostra in tutto il suo splendore una sola volta, quando è il re cieco Dhritarashtra a chiederglielo. Krishna ha un ruolo fondamentale, anche se marginale, in uno degli episodi più importanti del Mahabharata, che è anche uno dei momenti più sconcertanti per noi occidentali abituati alla razionalità: la scena della Partita a Dadi.
Nel palazzo del re Dhritarashtra sono cresciuti i due rami della famiglia: i cinque fratelli Pandavas, orfani di padre (era il fratello di Dhritarashtra, e re prima di lui) e i loro cugini, figli dell’attuale re. Su tutti governa l’autorità morale di Bhishma, il valoroso guerriero che avrebbe dovuto essere re ma ha ceduto il trono a causa di un complesso voto ascetico. Dhritharashtra è cieco: non avrebbe potuto essere re, ma il fratello Pandu è morto e lui ha dovuto prenderne il posto.
Tra i cugini nasce presto una grande rivalità, anche se condividono gli stessi maestri e la stessa educazione; e un giorno, quando essi sono ormai adulti, giunge alla reggia Shakuni, fratello della moglie di Dhritarashtra ed esperto giocatore d’azzardo. Shakuni propone all’impaziente nipote Duryodhana, il maggiore dei figli del re, un metodo per prendersi tutto il regno senza spargimento di sangue: si farà perno sulla passione per il gioco di Yudhìshtira, il maggiore dei cugini. Yudhishtira ama il gioco ma non sa giocare, e perderà tutto.
Il re cieco è molto perplesso; ma Shakuni gli dice: «Gli dei crearono il mondo come un gioco. Gli insetti oggi giocano con i fiori, le stelle intrecciano nel cielo i loro segreti motivi; perché devi sempre disapprovare il piacere?».
La notizia della sfida arriva anche a Bhishma, che ha l’autorità per fermare questo gioco d’azzardo. Ma è proprio Krishna che chiede a Bhishma di lasciar giocare e di non interrompere mai il gioco, qualsiasi cosa succeda. Questo può significare la catastrofe, ma così bisogna fare. A volte, è necessario distruggere per salvare il dharma. Bhishma è molto preoccupato, ma acconsente.
Shakuni si presenta a Yudhishtira, prima di iniziare la partita; ma il giovane si aspettava di dover giocare con il cugino, ed è sorpreso:
- Shakùni, sarai tu a giocare?
- Sì, al posto di mio nipote.
- Tu passi la tua vita a giocare. C’è chi ti ha visto fare trucchi incredibili: ma tu sai che barare è un delitto.
- Il buon giocatore sa come giocare, e riflette con calma. Non pensa nemmeno a barare. Qui non c’è posto per il delitto ma per il gioco, solo per il gioco. Il giocatore esperto che affronta un esordiente secondo te bara? La sapienza non è truffa. Si inizia una partita con il desiderio di vincere, è come nella vita. Un maestro non verrà mai sopraffatto dalla tentazione di barare: ritirati dalla partita, se hai paura.
La partita inizia, e Yudhishtira perderà tutto: le sue terre, i suoi schiavi, le sue ricchezze, i suoi fratelli, se stesso, tutto. Alla fine, istigato da Shakuni, giocherà anche la moglie: perderà anche lei. Invano il re chiede a Bhishma di fermare la partita: fedele al giuramento fatto a Krishna, non può che assistere agli eventi senza intervenire.
Alla fine è Dràupadi, moglie di Yudhìshtira, a salvare almeno in parte la partita: “Mio marito mi ha persa prima di perdere se stesso, o dopo?”. Colpito dalla dignità di Dràupadi, anche dopo le gravi offese da lei ricevute, il re le concede di chiedere quello che vuole. Dràupadi otterrà per lei e per i cinque fratelli l’esilio invece della schiavitù; e per 12 anni i Pandavas dovranno stare lontani dal regno e vivere poveramente. E così succede; allo scadere dei 12 anni inizieranno i preparativi per la terribile battaglia di Kurukshetra, che vedrà opposte le due parti della stessa famiglia.
Nel film di Peter Brook, la scena della partita a dadi è una di quelle più impressionanti, resa con grande attenzione e sobrietà ma anche con notevole tensione. Lo zio Shakuni, che appare solo qui (ed è davvero una di quelle interpretazioni che rimangono nella memoria), è interpretato dall’attore turco Tuncel Kurtiz. Bruce Myers è Krishna, Sotigui Kouyaté è Bhishma, Riszard Cieslak è il re cieco, i due cugini rivali sono il polacco Andrzej Seweryn e il greco Georges Corraface, e Draupadi è impersonata da Mallika Sarabhai, unica indiana del cast.

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