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Un pittore, importante e ben quotato, ha una moglie giovane e bella; ma è diventato cieco. I due non andavano d’accordo da tempo, ma l’incidente che ha tolto la vista all’uomo li ha costretti alla convivenza. Vivono in una casa vicina alla spiaggia, in un paese solitario e tranquillo di un’America per molti tratti ancora ottocentesca, anche se l’azione è contemporanea al film. Un poliziotto a cavallo (Robert Ryan) appena arrivato da quelle parti, fa la conoscenza della donna (Joan Bennett), strana e affascinante; da lei viene introdotto nella casa e conosce il marito pittore (Charles Bickford), che lo prende in simpatia. E’ una storia torbida, il poliziotto capisce subito che c’è qualcosa che non va, pensa che forse il pittore non è davvero cieco, è ormai perdutamente innamorato della donna e pensa che la cecità del marito sia solo una messinscena per evitare la separazione... Una storia torbida, che appassiona subito anche per l’ambientazione, su una spiaggia d’altri tempi, degna di Caspar Friedrich e dei Romantici, con un bianco e nero molto nitido che rimane nella memoria. Le musiche (funzionali ma non memorabili) sono di Hanns Eisler, un compositore importante del 900 che lavorò molto per il cinema.
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(...) Per lui il cinema americano era rimasto quello dei Griffith e degli Stroheim. Con questa immagine nella testa, Renoir si è sempre illuso che un giorno o l'altro avrebbe potuto fare il suo film all'americana, mettendo la sua personalità al servizio di una organizzazione efficiente per realizzare finalmente un'opera spettacolare e - sia pure - cosmopolita. Non ha mai sottovalutato le condizioni di precarietà in cui dovette realizzare gran parte dei suoi film e non ha mai cessato di considerarsi una specie di dilettante con una forte personalità. La sua ambizione di professionalizzarsi non si è mai realizzata, e in America avrebbe imparato a sue spese quanto difficile sia perseguire questo obiettivo. Del resto, era una ambizione contraddittoria, poiché egli non poteva far tacere la sua «personalità» e mettersi tout-court a tradurre in immagini una sceneggiatura qualsiasi, con lo stesso spirito con cui un pianista suona uno spartito altrui, né aveva l'animus per trasformarsi in una fabbrica di congegni spettacolari, come è riuscito cosí bene, e anche con notevoli risultati, a Hitchcock. Avesse veramente perseguito sino in fondo questa bizzarra ambizione, sarebbe ben presto scaduto al rango di comprimario come è successo ai molti grandi (Lang in testa) inghiottiti dalle sabbie mobili nella impietosa Hollywood degli anni quaranta.
Tuttavia, a loro modo, cinque film americani hanno rappresentato altrettanti tentativi di inseguire questa illusione. Altrettanti fallimenti da tale punto di vista, sebbene non cosí fallimentari appaiano, nel complesso, i risultati artistici. Dietro a “The Woman on the Beach”, che avrebbe dovuto essere una specie di “Greed”, « un film d'avanguardia che sarebbe stato al suo posto venticinque anni prima tra Nosferatu, il vampiro e Caligari » (“Ma vie et mes films”, cit., pag. 229), c'era il tentativo di far rinascere un cinema violento come quello di Stroheim. Un cinema di grandi passioni e un risvolto in senso naturalistico dell'esasperato psicologismo americano. Per essere efficace questo naturalismo aveva bisogno di essere esplicito come il cinema americano nel 1946 non poteva permettersi di essere. Ecco perché l'opera rimane monca, e assai lontana, almeno nella versione che si conosce, da dove aveva ambizione di arrivare. Ecco perché, mancando quello slancio « esplosivo sul piano sessuale » che Renoir dice di aver cancellato nella versione finale, resta un drammone contorto e poco leggibile. Le tempeste che squassano i rapporti del trio di protagonisti (composto da un pittore diventato cieco, da sua moglie dipsomane e da un marinaio che fa da terzo incomodo) sono troppo blande e convenzionali per essere significative. Non sono tempeste all'altezza delle ambizioni del regista. E con ciò Renoir conclude la sua attività americana: « Il fiasco di “The Woman on the Beach” segnò la fine dalla mia avventura hollywoodiana. Da allora non sono piú tornato in un teatro di posa americano per fare un film. Zanuck, che di registi se ne intendeva, spiegò un giorno il mio caso a un gruppo di cineasti americani. La sua diagnosi è tutto sommato lusinghiera per me e perciò non esito a riportarla: 'Renoir - disse - ha molto talento, ma non è dei nostri' ». (Ma vie et mes films, cit., pag. 230).
(da “Renoir” di Carlo F. Venegoni, editore “Castoro Cinema”)
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