La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Regia di Bernardo Bertolucci. Scritto da Bernardo Bertolucci. Fotografia di Carlo Di Palma. Musiche originali di Ennio Morricone; altre musiche tratte da Offenbach (valzer dai Racconti di Hoffmann), brani da discoteca e da balera. Scene e arredi di Gianni Silvestri. Costumi di Lina Nerli Taviani. Girato tra Parma, Torrechiara, Langhirano, Corniglio; il caseificio è a Piadena. Interpreti: Ugo Tognazzi, Anouk Aimée, Victor Cavallo, Laura Morante, Riccardo Tognazzi, Vittorio Caprioli, Renato Salvatori, Olimpia Carlisi (la numerologa), Pietro Longari Ponzoni (il barone), Margherita Chiari (la domestica rock). Durata: 1h52’
Dopo un’ora abbondante dall’inizio, finalmente, il padrone del caseificio capisce cosa c’era che non gli tornava in Adelfo: sono i suoi maiali, è infatti Adelfo che li cura. Lo avevamo visto lavarsi più volte, in precedenza, ma adesso sappiamo perché. Adelfo nega che sia puzza, a lui i maiali piacciono anche se i maiali sono tutti contenti perché gli si dà da mangiare, e quando accorrono “strillano come se li volessero ammazzare” (è una battuta di Adelfo). Anche qui, è facile capire il nesso con la nostra situazione quotidiana; direi proprio che è una battuta politica, oltretutto di grande attualità in questo disgraziato 2012 d.C. E infatti vediamo subito dopo, di seguito, subito dopo aver visto i maiali contenti perché gli si dà da mangiare, uno di loro, morto, dissanguato, scottato, come già in “Novecento”, con metodi più moderni ma anche molto più orribili. Del resto, è questo che c’è dietro un panino al prosciutto.
Pietro Longari Ponzoni, un amico di Bertolucci che in Novecento interpretava il marito di Alida Valli, è il barone-usuraio che dà i soldi in contanti a Tognazzi. Lo fa al circolo, e non in un luogo più appartato, perché ci gode “a farlo sotto il naso di quelli là”.
E qui comincia il cammino in montagna di Spaggiari con la moglie, con il terzo incomodo di una valigia piena di soldi. La valigia, come per “L’avaro” di Molière, è la vera protagonista di questa sequenza.
Memorabile la battuta di Tognazzi a 1h36, dopo il colpo di pistola sparato per errore dalla moglie, e finito nella valigia:
- Nei boschi di castagni capita spesso di sentirsi spiati...
Il film sta per finire. Consegnato il riscatto, o meglio abbandonata la valigia (quasi come nei film dei fratelli Coen), marito e moglie aspettano gli eventi. Con il binocolo da marina che avevamo visto all’inizio, Anouk Aimée guarda dall’alto di una terrazza se suo figlio sta tornando libero. Dietro di lei, il marito le confessa che è tutta una truffa, che forse il ragazzo è già morto.
Siamo a 1h40, dall’inizio, e il discorso di Tognazzi a questo punto mi ha sempre fatto una grande impressione. Sembra quasi rivolto a me: Tognazzi aveva l’età dei miei zii e dei miei genitori, dopo la generazione di Tognazzi ci sono io, i suoi figli hanno più o meno la mia età. C’era stato un salto generazionale notevole, rispetto al passato (un passato lunghissimo, contadino), di questa diversità coi miei nonni mi rendevo conto fin da bambino, ma loro erano lì e li capivo; poi il divario è cresciuto in maniera esponenziale, le nuove generazioni non riusciranno mai a capire la vita millenaria che sta dietro di loro, ed è una cosa che mi inquieta molto. Si tratta della classe dirigente di oggi, quelli che nel 1981 avevano l’età di Ricky Tognazzi oggi ci governano, e con loro anche persone più giovani, i nati negli anni ’70. A questo proposito mi viene in mente la poesia di Pasolini, i figli di papà contrapposti ai poliziotti: nel ’68 tra quelli che contestavano i vecchi c’erano anche Giuliano Ferrara, Cusani, Paolo Liguori e molti che sono poi finiti con Berlusconi o con Sarkozy, ministri, sindaci, dirigenti d’azienda. E’ a loro che si rivolgeva Pasolini, quando ricordava che i poliziotti erano figli di contadini e di operai.
Ma è un discorso che rischia di diventare troppo grande. Questo è il dialogo del film:
- I figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi; hanno occhi spenti, trattano i padri con troppo rispetto oppure con troppo disprezzo. Non sono più capaci di ridere: sghignazzano, o sono cupi; e soprattutto non parlano più. E noi non sappiamo capire dai loro silenzi se chiedono aiuto o se stanno per spararti addosso. Sono dei criminali...
- Tutti?
- No, ma potrebbero esserlo.
La madre rifiuta questo discorso, il suo Giovanni non è così. Allora il padre le confessa la truffa, lei non ci crede, e poi gli dice:
- Chi è il mostro? Tu vorresti che Giovanni fosse morto...
La truffa è infatti possibile solo se Giovanni è davvero morto.
Altri appunti sparsi: 1) “il grande vecchio”, citato due volte di fila da Adelfo, detta per Tognazzi che porta i soldi, ma è una battuta che si riferisce al terrorismo e ai colpi di Stato, alla P2... 2) Tognazzi canta la Traviata, l’aria di Germont padre, “ah il tuo vecchio genitor, tu non sai quanto soffrì...” mentre cammina nei boschi con la valigia del miliardo (di lire, del 1981). 3) Il ballo nel finale, che evoca strani paralleli con Fellini e La voce della luna (che è posteriore), la scena della discoteca con Paolo Villaggio. Forse è il contrasto tra un luogo naturale, appartato e silenzioso, e le luci e i suoni artificiali, alla quale seguono poi la banda, e il ballo degli anziani. 4) il ragazzo che balla con un piede nudo, citazione di una scena simile nel finale di “La commare secca”, primo film di Bertolucci (la scarpa l’aveva persa all’inizio, dunque è tutto vero?) 5) la maga numerologa, interpretata da Olimpia Carlisi, sembra un personaggio ridimensionato per non far diventare troppo lungo il film, e che in origine doveva avere certamente maggiore importanza. Nei titoli di coda è citata una “consulente per la numerologia”, Maria Luisa Bavastro; ma la numerolgia e la veggenza passano quasi inosservate, nel corso del film.
E questo scambio di battute, sempre nel finale, alla discoteca, fra Tognazzi e Adelfo:
- Perché mi hai portato qui?
- Sono io che l’ho portata qui, o non è piuttosto lei che mi ha seguito?
Nel finale, il padre li vede tutti insieme, solo lui è l’escluso. Madre figlio e fidanzata si sono già riabbracciati, nessuno è venuto a chiamarlo ma è comunque contento, abbraccia il figlio e gli mette al collo la sua sciarpa, con un gesto di vero affetto.
- Ma sì, tutto è chiaro...con i soldi hanno pagato il riscatto e lui è tornato vivo. Ma pagato a chi?
Ma no, l’unica cosa che conta è che Giovanni è vivo e sta bene. Il compito di scoprire la verità sull’enigma di un figlio rapito, morto e resuscitato, lo lascio a voi. Io preferisco non saperlo.
Le musiche originali sono di Ennio Morricone, già collaboratore di Bertolucci in molti altri suoi film; la domestica in cucina balla con The Boppers: Rock’n’roll is good for the soul; la musica nella discoteca è Linda and The Dark: Horror movies (due gruppi di cui non so niente); il valzer di Offenbach, famossimo, è il brano suonato da Anouk Aimée agli usurai, al pianoforte. Al minuto 36 Tognazzi allo specchio accenna ad canzone di Ettore Petrolini “sono contento di morire ma mi dispiace”; nella camminata in montagna sempre Tognazzi intona (beh, quasi) l’aria di Germont dalla Traviata di Giuseppe Verdi.
Il valzer finale, per banda, è probabilmente ancora il Concerto Cantoni di Colorno, come in Novecento e in Strategia del ragno, una musica che mi strappa l’anima e un finale da antologia.
In definitiva, uno dei film più lineari di Bertolucci, ma anche uno dei più difficili, quasi come “Il conformista”, che infatti torna spesso alla memoria.
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