La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Regia di Bernardo Bertolucci. Scritto da Bernardo Bertolucci. Fotografia di Carlo Di Palma. Musiche originali di Ennio Morricone; altre musiche tratte da Offenbach (valzer dai Racconti di Hoffmann), brani da discoteca e da balera. Scene e arredi di Gianni Silvestri. Costumi di Lina Nerli Taviani. Girato tra Parma, Torrechiara, Langhirano, Corniglio; il caseificio è a Piadena. Interpreti: Ugo Tognazzi, Anouk Aimée, Victor Cavallo, Laura Morante, Riccardo Tognazzi, Vittorio Caprioli, Renato Salvatori, Olimpia Carlisi (la numerologa), Pietro Longari Ponzoni (il barone), Margherita Chiari (la domestica rock). Durata: 1h52’
Quello che caratterizza i personaggi di “La tragedia di un uomo ridicolo” (tutti) è la loro ambiguità. Fino all’ultimo non sappiamo davvero cosa pensano, eppure si muovono in un mondo reale, molto concreto. E’ un modo di raccontare che rimanda molto a Dostoevskij, con il quale questo film di Bertolucci condivide molte cose; inoltre, “La tragedia di un uomo ridicolo” è piuttosto atipico nella filmografia di Bertolucci. L’unico film che davvero gli somigli è “Strategia del ragno”, di dieci anni precedente, con il quale condivide l’ambientazione (Parma e dintorni) è l’ambiguità dei personaggi, un’ambiguità morale che lascia aperto qualsiasi giudizio su di loro. Come in Dostoevskij, per l’appunto.
Dopo la presentazione degli eventi dei personaggi, davanti a un bicchiere di vino bianco (al minuto 31) comincia l’indagine sui personaggi. Tognazzi-Spaggiari è con Adelfo, un suo operaio, amico intimo di suo figlio. Adelfo è quasi prete, operaio-prete e non prete-operaio come specifica subito lui stesso. Adelfo sa qualcosa sul rapimento, forse l’ha sentito in confessione (ma può confessare se non è ancora prete?), è stato lui a contattare Spaggiari, che nemmeno si ricordava di lui. Adesso sono soli al tavolino di un bar, Spaggiari si spazientisce, che cosa sa davvero Adelfo? Che cosa vuole da lui, in concreto? E, soprattutto, dov’è suo figlio? Come sta?
A questo punto, in questa scena, c’è una scena di caccia che può apparire cruenta e fuori luogo: chi conosce il cinema di Bertolucci sa che è una citazione da Jean Renoir, “La regola del gioco”, anno 1939. La violenza quotidiana, quella che rifiutiamo di vedere.
Adelfo (l’attore è Victor Cavallo), da qui in avanti, lo vederemo quasi sempre in coppia con la ragazza, interpretata da Laura Morante, che è la fidanzata del rapito. Il figlio è fidanzato con un’operaia del caseificio, sua compagna di banco fin da quand’erano bambini, ma in casa non lo sanno; lo ignorano sia il padre che la madre del ragazzo. Lei sembra meridionale, una di fuori, “sarà mica araba?”.
Con la ragazza, Spaggiari si ritrova a parlare di se stesso, della sua storia personale: i bigonci del latte, la vita da partigiano, smette di studiare a nove anni, va a lavorare con le mucche, gli piace mungere, poi rileva un piccolo caseificio, il caseificio ha l’età di suo figlio, dopo vent’anni è una grande impresa. Ma quanto vale quest’impresa, quanti soldi si possono ricavare, subito?
E’ la moglie a chiederglielo, e lui di preciso non lo sa. Il caseificio lavora, produce, chi ha mai pensato a chiedere soldi alle banche? E dunque Spaggiari va in banca, ma si sente offrire una cifra di molto inferiore a quella che si aspettava.
“Ma allora hanno ragione loro!”
“Loro chi?”
In banca gli offrono 300 milioni invece di 2 miliardi, ma “è per le scorte di Parmigiano”, e non per tutto il caseificio. Da qui nasce un sospiro di sollievo, e anche l’idea della truffa
Le indagini sul sequestro sono condotte in primo luogo dai carabinieri (il maresciallo è Vittorio Caprioli) e poi da un sostituto procuratore che arriva da Varese (e che noi non vediamo), infine da un ufficiale di quella che poi sarebbe diventata la DIGOS, o forse aveva già allora questo nome, interpretato da Renato Salvatori.
Su queste indagini forse conviene aprire una parentesi, perché molte cose sono state dimenticate. Dato l’alto numeri di sequestri che si erano verificati, il Governo aveva deciso misure drastiche: tra queste, il blocco dei beni di famiglia. Conti correnti, depositi bancari, immobili: tutto era bloccato, e procurarsi i contanti non era facile, per i parenti disperati e disposti a qualsiasi sacrificio. Questo spiega bene il comportamento dei carabinieri, e molti dei dialoghi che si vedono nel film; spiega anche come mai (più avanti nel film) Tognazzi-Spaggiari si rivolga a un usuraio suo amico per avere il miliardo in contanti che gli serve. L’irruzione nella villa di Spaggiari da parte della DIGOS, invece, è dovuta al sospetto che il sequestro serva a finanziare il terrorismo: i sospetti sono dunque sul figlio di Spaggiari, presunto simpatizzante di gruppi terroristi, che avrebbe finto il sequestro per avere i soldi dal padre. A tutto questo va aggiunta la tv che filma dall’alto con l’elicottero, nel film non viene detto ma è quasi sicuramente una tv commerciale, sul tipo di quelle di Berlusconi. Tutti questi dettagli erano probabilmente chiari per uno spettatore del 1981, che ne sentiva parlare ogni sera al telegiornale; lo sono molto meno per uno spettatore di oggi.
Per la prima parte del film abbiamo di fronte come rappresentante della legge uno strano carabiniere, a metà strada tra Sciascia e Ionesco, interpretato magnificamente da uno dei nostri grandi caratteristi del cinema e del teatro Vittorio Caprioli. E’ un’interpretazione che non va sottovalutata, surreale, ed è davvero spettacolare l’inciampo di Caprioli (roba da avanspettacolo, nel senso positivo del termine), che andrà a fare rima con l’impaccio di Renato Salvatori al momento di soccorrere Anouk Aimée, nella seconda parte. In un’ambientazione così realistica, le forze dell’ordine appaiono invece astratte e irreali, come se venissero da un mondo diverso; ed è un dettaglio sul quale varrebbe la pena di riflettere.
(continua)
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