Il trono di sangue (KUMONOSU-JO, 1957) (t.l.: Il castello Kumonosu, cioè “il castello della tela di ragno”) Regia: Akira Kurosawa; sceneggiatura (dal Macbeth di Shakespeare): Shinobu Hashimoto, Ryuzo Kikushima, Hideo Oguni e Akira Kurosawa; fotografia: Asakazu Nakai; scenografia: Yoshiro Muraki e Kohei Ezaki; musica: Masaru Sato; montaggio:Akira Kurosawa; interpreti: Toshiro Mifune (Taketoki Washizu - Macbeth), Isuzu Yamada (Asaji, sua moglie - Lady Macbeth), Minoru Chiaki (Yoshiaki Miki, suo amico - Banquo), Akira Kubo (Yoshiteru, il figlio di Miki - Fleance), Takamaru Sasaki (Kuniharu Tsuzuki, il principe - Duncan), Yoichi Tachikawa (Kunimaru, il figlio di Tsuzuki - Malcolm), Takashi Shimura (Noriyasu Odagura, il capo dell'esercito liberatore - Siward), Chieko Naniwa (lo Spirito del bosco); produzione: Shojiro Motoki e Akira Kurosawa per la Toho; distribuzione: Toho; durata: 110'.
“Il trono di sangue” è uno dei più grandi film di tutta la storia del cinema, ma dubito che le persone in grado di capirlo e apprezzarlo siano molte. Innanzitutto, per capire bene cosa ha fatto Akira Kurosawa bisogna conoscere qualcosa di Shakespeare; poi bisogna avere qualche nozione di cos’è il Teatro Nô giapponese. E infine, dettaglio non secondario, si tratta di un film in bianco e nero: gli addetti alla programmazione televisiva, anche su canali specializzati come Rai Movie o Iris, considerano i film in bianco e nero come prodotti inferiori, inguardabili. Qualcosa si trasmette ancora, ma nel palinsesto notturno; ma è raro vedere un film non a colori in orari che non siano le due di notte, e il futuro vedrà le cose peggiorare perché il nuovo standard pare che sia il 3D (in realtà, una tecnologia vecchia di cent’anni) e quindi dovremo dare l’addio non solo a Fellini e a Kurosawa ma anche a Matrix e a Guerre Stellari.
E’ da non perdere, molto bello, e ricchissimo di informazioni, il commento al film che si trova sul secondo dvd di “Il trono di sangue”, intitolato “Cinema e Teatro Nô” , a cura di Monique Arnaud e Diego Pellecchia. Non mi soffermo più di tanto perché è un argomento complesso, molto meglio guardare il documentario piuttosto che leggerne un mio riassunto; mi segno che il volto di Asaji-Lady Macbeth è una maschera di teatro, quella di una donna non più giovane; anche il volto di Washizu è una maschera Nô, “il fantasma di un guerriero arrabbiato e vendicativo”, ed è resa in modo straordinario da Toshiro Mifune. Tutti gli attori di questo film sono truccati o vestiti in modo da rassomigliare a personaggi del Teatro Nô, e sarebbe interessante fare un parallelo tra il cinema di Kurosawa e le nostre maschere della Commedia dell’Arte. Con “Il trono di sangue” sarebbe un’impresa quasi impossibile, ma – per fare solo un esempio – i due “clowns” di “La fortezza nascosta” sono parenti stretti di Arlecchino e Brighella.
Al doppio dvd è allegato anche il libro “La verità allo specchio – Cento giorni di teatro Nô con il maestro Umewaka Makio” di Matteo Casari, edizioni “il principe costante”: un’altra fonte di preziose informazioni.
Guardando il film, ci si accorge subito di un altro punto di riferimento importante per Kurosawa: non solo il Teatro Nô, ma anche e soprattutto il cinema muto. I dialoghi sono ridotti al minimo indispensabile, e Kurosawa arriva al punto di spazzar via tutte le battute più famose, compresa “la vita, che importa: è il racconto di un povero idiota”. Osservando la mimica e la gestualità di Toshiro Mifune, grandissimo e impressionante anche se spesso al limite del caricaturale, mi è venuto più alle volte in mente Gian Maria Volontè: che sarebbe stato un Macbeth altrettanto grande, ed è un peccato che nessuno sia andato a proporglielo, magari anche in teatro.
A questo proposito, e sempre visto dall’oggi, è facile sorridere su quella freccia che trapassa il collo di Toshiro Mifune, e sul trucco (da cinema muto, per l’appunto) con cui è stata realizzata: ma è esattamente così che colpisce il Fato, Atropo, con queste modalità. D’improvviso ti si toglie il fiato, in un attimo tutto è finito.
Banquo (tra sè): Ma spesso l’empio / spirto d’Averno
parla, e t’inganna, / veraci detti
Macbeth (tra sè): Due vaticinii compiuti or sono / mi si promette dal terzo il trono...
(Giuseppe Verdi, Macbeth; libretto di Francesco Maria Piave, 1847)
Tra il 1956 e il 1957 il regista porta sullo schermo due classici del teatro occidentale, il Macbeth (Il trono di sangue) e L'albergo dei poveri di Gor'kij (I bassifondi). Questa fortunata incursione nel mondo del teatro da parte di un cineasta dell'azione ha sorpreso non poco i contemporanei. Ma paradossalmente grazie proprio a questi due film sperimentali il regista riceverà il primo invito ufficiale a venire in Europa, a Londra; gli inglesi rimediavano così alla strana incuria degli organizzatori della mostra veneziana che a quanto pare si erano dimenticati di invitare l'autore di Rashómon e I sette samurai. Appassionato ammiratore di Shakespeare, Kurosawa pensava al Macbeth da tempo; aveva rimandato il progetto di trasportarlo sullo schermo in abiti giapponesi per non mettersi in concorrenza con Orson Welles (la sua travagliata versione del Macbeth uscì in effetti nel 1950). «Il mondo descritto da Shakespeare nelle sue grandi tragedie a sfondo storico», ci ha detto, «somiglia talmente al nostro medioevo e al nostro Cinquecento che a noi giapponesi pare di leggere un autore giapponese. Anche nel nostro medioevo è esistito un guerriero ambizioso e sanguinario come Macbeth. Ambíentare questa tragedia dell'ambizione nel Giappone dell'epoca delle guerre civili è stata quindi per me la cosa più naturale del mondo. »
I registi occidentali che si cimentano con Shakespeare si sentono inevitabilmente legati al testo scritto, e questo vincolo dialogico è spesso un ostacolo a una rielaborazione prettamente cinematografica. Aiutato dalla sua (provvidenziale) ignoranza delle lingue occidentali, Kurosawa non si lascia condizionare dal « verbo », « abbandona la poesia della parola per quella dell'immagine e dell'azione» come rileva acutamente il regista indiano Satyajit Ray. Kumonosu jo («Il castello della ragnatela », liberamente tradotto in italiano Il trono di sangue) è il meno parlato dei film shakespeariani e forse il più memorabile; dialoghi e monologhi vengono trasposti in immagini. La chiave di rilettura adottata da Kurosawa è quella ieratica suggeritagli dalla grande tradizione del teatro No. «Quando lessi il dramma», ricorda il regista, «mi resi conto che la semplicità, la forza, la concentrazione shakespeariana richiamavano alla mia mente il No e le sue forme espressive. Le espressioni degli attori nel mio film corrispondono a quelle stilizzate delle maschere del No, dove gli attori si muovono il meno possibile, evitano i gesti inutili, comprimono le loro energie, cosicché il minimo gesto e spostamento finiscono col provocare un'emozione intensissima. Alla estrema stilizzazione del No sono improntati anche i costumi, le scenografie, gli effetti sonori e musicali.» Tra le invenzioni visive più memorabili del film, l'apparizione iniziale (in una foresta davvero stregata) della canuta Parca assorta nel suo lavoro di tessitrice del destino (...), la «danza del sangue» della Lady nella stanza accanto a quella del regale ospite che evoca ellitticamente l'orrore del primo delitto, la tempesta di frecce sibilanti che riducono il regicida a un grottesco porcospino (sostituisce il duello finale). «Per documentare il lavoro compiuto », ricorda Kurosawa, « realizzai anche un cortometraggio di quindici minuti in cui mostravo come molte inquadrature del film corrispondevano alle varie espressioni delle maschere del teatro No (Omote).» Peccato che di questo singolare documento si siano perse le tracce.
La passione per il teatro No continuerà a intrigare Kurosawa: come ci ricordava la sua collaboratrice Nogami Teruyo, fare un film sul mondo del No figurerà a lungo tra i suoi progetti.
Il titolo non è casuale. L'inquietante Castello che scatena l'ambizione di Washizu/Macbeth viene elevato a coprotagonista della storia. Il regista ha deciso di farlo costruire ex novo sulle pendici brumose del monte Fuji. Alla scarsità del personale supplisce fortunatamente un battaglione di marines di una vicina base americana, felici di concorrere alla realizzazione di un film shakespeariano. «Fu per tutti una gran fatica», ricorda l'autore, « alla fine eravamo distrutti ma felici. » Quando mesi dopo girerà I bassifondi - in un solo ambiente, in interni - il regista avrà l'impressione di concedersi una vacanza. (...)
(da “Akira Kurosawa – L’ultimo samurai” a cura di Aldo Tassone, ed. Baldini Castoldi, pag.269)
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