IL RITO (Riten, 1967). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist - Scenografia, costumi: Mago (Max Goldstein) Interpreti: Gunnar Björnstrand (Hans Winkelmann), Ingrid Thulin (Thea Winkelmann), Anders Ek (Sebastian Fisher), Erik Hell (giudice Abrahamsson), Ingmar Bergman (un prete). Durata: 72 minuti
“Il rito” parte probabilmente da un’esperienza autobiografica dello stesso Bergman, e cioè i suoi problemi con il fisco svedese: che cominciano in questi anni, e che sfoceranno in autentica crisi negli anni successivi. Bergman ne parla apertamente e per molte pagine in “Lanterna magica” (Garzanti 1987), con dettagli psicosomatici molto approfonditi dei quali avrei fatto volentieri a meno, che si riflettono in una battuta molto pesante rivolta da Anders Ek all’ispettore nel corso del suo primo interrogatorio. Le ripetute inchieste del fisco sui guadagni di Bergman avranno ripercussioni sulla sua vita privata negli anni ‘70, l’allontanarsi dalla Svezia e il trasferimento in Germania e in America per alcuni suoi film; un atteggiamento molto discutibile e che non fa certo onore a Bergman, ma lui ne parla diffusamente, il film parte proprio da qui, e io non potevo non prenderne nota.
Si tratta comunque solo di un punto di partenza, ben presto il film prende un’altra strada molto più interessante e molto più inquietante; l’inchiesta del fisco diventa subito qualcosa di più profondo, che riguarda noi stessi e il nostro inconscio, ma anche il soprannaturale e il rapporto con l’aldilà.
Al minuto 26, una sequenza che inizia col primo piano di una Madonna scolpita nel legno, ci porta in chiesa; è una chiesa cattolica, e il prete che vediamo nel confessionale è proprio Ingmar Bergman, in una delle sue rarissime apparizioni nei suoi film (io ne ricordo solo un’altra, il passeggero del treno in “Donne in attesa”) con un cappuccio da frate in testa, e tutta la scena assume un aspetto molto somigliante a quella analoga della Morte nella chiesa del “Settimo Sigillo”. Qui però il prete è davvero un prete e non una figura allegorica, e al posto del cavaliere c’è un uomo piccolo e anziano, molto diverso dal Max von Sydow del “Settimo Sigillo”.
Siamo al minuto 26, la scena del confessionale. L’ispettore entra in chiesa e si avvicina al confessionale; dice che non vuole confessarsi, ma che ha solo bisogno di parlare. Inizia dicendo che ha paura di morire, che si sente vecchio, il cuore è malato. Il prete è Ingmar Bergman, che ha perfino una battuta: «L’ascolto.»
Il giudice: ... le persone possono perdonarsi l’un l’altra, è vero? C’è pietà sulla terra, ma al di là del fragile anello del calore umano c’è solo crudeltà. Discernimento (insight), Dio mio...”discernimento”. Lo so che non ridi di me, probabilmente conosci bene il mio caso, data la tua esperienza. Sai bene che i miscredenti spesso si mettono a pregare. Io prego, e la preghiera mi libera dall’angoscia. E’ sera, si è fatto buio e ho paura; mia madre se ne è andata e ha chiuso la porta, so che nessuno potrà udirmi se chiamo. Non oso attraversare il pavimento, perché ci sono degli animali; devo rimanere nel mio letto. Se iniziassi a piangere per la paura, mi spaventerei di più...
Riappare in primissimo piano il volto della Madonna scolpita nel legno, che chiude in maniera molto intensa la breve scena.
Ingmar Bergman, da “Immagini”:
...Lessi del rito dell'elevazione in connessione con i miei studi sulle Baccanti e ne parlai con Lars Levi Laestadius, in occasione di una messinscena della tragedia sul grande palcoscenico, con Gertrud Fridh nella parte di Dioniso e Max von Sydow nella parte di Penteo. Cominciammo a progettare, ma avevamo molti dubbi. Lo Stadsteater di Malmoe aveva in realtà soltanto un compito: procurare pubblico. Soppesammo così i vantaggi e gli svantaggi, e abbandonammo il progetto senza recriminare. Il teatro si batteva per la propria sopravvivenza, e la cosa era sia troppo grande che troppo piccola.
Nell'antica Grecia il teatro era indissolubilmente collegato con i riti religiosi. Gli spettatori si radunavano molto tempo prima del sorgere del sole. All'alba venivano avanti i sacerdoti mascherati. Quando il sole spuntava al di sopra delle montagne, illuminava il centro della scena. Là era stato eretto un piccolo altare. Il sangue sacrificale veniva raccolto in una grande ciotola. Uno dei sacerdoti si nascondeva dietro gli altri. Portava una maschera d'oro con l'effigie di un dio. Quando il sole si era alzato ulteriormente, al momento giusto due sacerdoti levavano in alto la ciotola in modo che gli spettatori potessero vedere come la maschera d'oro si riflettesse nel sangue. Un'orchestra di tamburi e di pifferi suonava e i sacerdoti cantavano. Dopo alcuni minuti l'officiante abbassava la ciotola e beveva il sangue. (...) Nel “Rito” non c'è molta luce. Ha un'espressività aggressiva, le reazioni furono di spavento, sia alla televisione che presso i critici.
Quando terminai il mio periodo come direttore al Dramaten, mi sentivo addosso una grande collera: avevamo risvegliato il teatro, che prima era come un castello della bella addormentata, e collocato la chiesa al centro del villaggio. Avevamo ristrutturato tutto quanto l'edificio e avevamo cominciato a rappresentarvi una drammaturgia d'attualità. Facevamo teatro per bambini sul grande palcoscenico e teatro per le scuole al China. Facevamo tournée. Mantenevamo un alto ritmo di produzione, più di venti pièces in un anno. Utilizzavamo al massimo le risorse del teatro. E per questo noi (io) fummo sgridati. Non potei incanalare questa collera. Esplose nel “Rito”.
Più o meno coscientemente, ho distribuito me stesso in tre personaggi. Sebastian Fischer (Anders Ek) è irresponsabile, dissoluto, imprevedibile, infantile, sentimentalmente tormentato, sempre al limite del crollo ma verosimilmente creativo e profondamente anarchico, avido di piaceri, pigro, amabile, tenero, brutale. Hans Winkelmann (Gunnar Björnstrand) è ordinato, fortemente disciplinato, si sente responsabile, è socialmente ragionevole, bonario e paziente. La donna, Thea (Ingrid Thulin), è, credo, un tentativo semicosciente di raffigurare la mia intuizione. Lei non ha volto, non conosce la sua età, è indulgente e ha bisogno di piacere. Ha delle ispirazioni improvvise, parla con Dio, gli angeli e i dèmoni, credendo di essere lei stessa una santa, cerca di mostrare le stigmate, è insopportabilmente sensibile e talvolta non può neppure portare vestiti. Non è né costruttiva né distruttiva. E un'antenna parabolica per i misteriosi segnali che provengono dalle stazioni trasmittenti extraterrestri.
Questi tre personaggi sono indissolubilmente uniti, non possono fare a meno l'uno dell'altro e non possono funzionare a due a due. E soltanto nella tensione fra i tre vertici del triangolo che può nascere qualcosa. C'era un ambizioso tentativo di sezionare me stesso, per raffigurare come io in realtà funzionassi. Quali forze mantenessero in moto la macchina.
Thea ha delle sorelle: Karin, in Come in uno specchio, passa attraverso le pareti tappezzate e parla con un dio-ragno; Agnes, in Sussurri e grida, resta impigliata sulla strada tra la vita e la morte; Aman/Manda, nel Volto, con la sua identità sessuale continuamente cangiante. Oppure cugini: come Ismael, in Fanny e Alexander, che deve essere chiuso a chiave in una stanza.
Dal punto di vista di questa mia trinità, gli anni al Dramaten non furono un bel periodo. Sia Sebastian che Thea non ebbero alcuno spazio per muoversi, non se ne parlava nemmeno. Era quell'ordinato di Hans Winkelmann che prendeva la parola. Gli altri due tacevano, deperivano e si tiravano indietro.
Con questa interpretazione, il tentativo di Thea di giungere al rendiconto diventava comprensibile:
«Gioco a essere una santa o una martire. Ed è per questo che mi chiamo Thea. Posso sedere per ore al grande tavolo dell'ingresso a guardare le palme delle mie mani. Una volta spuntò un arrossamento nella mano sinistra. Ma non uscì sangue. Gioco a sacrificarmi per salvare Hans e Sebastian. Gioco all'estasi, a conversare con la Santissima Vergine, gioco alla fede e alla mancanza di fede, alla sfida e al dubbio. Sono una povera peccatrice con colpe intollerabili. Così rigetto la fede e perdono a me stessa. Tutto è gioco. Dentro il gioco sono sempre la stessa, talvolta estremamente tragica, talvolta incredibilmente esultante. Tutto con la stessa insignificanza di fondo. È come acqua che corra incessantemente. Mi lamentai presso un dottore. (Sono andata da molti dottori!) Mi disse che la mia vita vagabonda era dannosa per la mia psiche. Mi ordinò casa, marito e bambini. Sicurezza, ordine, vita quotidiana. Le chiamava le fattibilità. Sosteneva che non ci si può separare dalla realtà, come facevo io. Gli chiesi allora se la realtà fosse la rappresentazione che la maggioranza aveva dell'andamento della vita o se invece non ci fossero diversi generi di realtà: l'uno ugualmente vero come l'altro. Rispose che si trattava di vivere nel miglior modo possibile. Io risposi che non ero affatto infelice, allora lui scrollò le spalle e mi scrisse una ricetta.»
C'era anche l'intenzione di far cadere una luce simpatica sul povero Giudice (Erik Hell), ma noto che non ci sono riuscito molto bene. (...)
Quando oggi rivedo “Il rito” e leggo il dialogo, posso anche pensare che avrebbe dovuto essere fatto in un altro modo. E’ denso e in parte divertente, ma in certi punti è di difficile comprensione, come per esempio nella scena del crollo di Sebastian davanti al Giudice:
«Mi manca una professione di fede e non appartengo a nessuna comunità. Non ho mai avuto bisogno di nessun Dio o di salvazione o di vita eterna. Io sono il mio proprio Dio, mi fornisco i miei angeli e dèmoni. Sto su una spiaggia pietrosa, che ondulata scende verso un mare protettivo. Un cane abbaia, un bambino piange, il giorno tramonta e diventa notte. Lei non potrà mai farmi paura. Nessuna creatura umana potrà mai più farmi paura. Ho una preghiera, che rivolgo a me stesso nel più completo silenzio: possa giungere un vento a scuotere il mare e il soffocante crepuscolo. Possa un uccello venire fuori dall'acqua a rompere il silenzio con il suo grido.»
Dodici anni dopo Sebastian fu spaventato fino alla pazzia. Ne parleremo più avanti. (il riferimento di Bergman è probabilmente a “Un mondo di marionette”)
(Ingmar Bergman da “Immagini”, ed. Garzanti, 1992)
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento