ALLE SOGLIE DELLA VITA (Titolo originale: Nära livet, “Vicino alla vita”, 1957). Regia di Ingmar Bergman. Sceneggiatura: Ulla Isaksson dalle sue novelle “La cosa gentile, dignitosa” e “La cosa incrollabile”. Fotografia: Max Wilén. Scenografia: Bibi Lindström. Interpreti: Ingrid Thulin (Cecilia), Eva Dahlbeck (Stina), Bibi Andersson (Hjördis), Barbro Hjort af Ornäs (l'infermiera Brita), Max von Sydow (marito di Stina), Erland Josephson (marito di Cecilia), Ann-Marie Gyllenspetz (l'assistente sociale), Gunnar Sjöberg (dottor Nordlander), Margaretha Krook (dottoressa Larsson), Lars Lind (dottor Thylenius), Sissi Kaiser (l'infermiera Mari), Inga Gill (una puerpera), Kristina Adolphson (un'inserviente), Maud Elfsjö (un'allieva infermiera), Monica Ekberg (l'amica di Hjördis), Gun Jonsson (l'infermiera di notte), Gunnar Nielsen (un medico), Inga Landgré (Greta Ellius). Durata: 84 minuti
Un altro film dove il non detto è più importante di quello che viene detto, e dove la cosa più inutile da fare è soffermarsi sulla trama, commentare le singole storie, dire che Bergman sta di qui o di là (per l’aborto o contro l’aborto, direbbero i ciellini). E’ invece importante la battuta che dice il dottore alla donna che ha appena perso il figlio: anche la medicina è impotente di fronte al mistero della nascita e della morte. Questo è forse il senso di tutto il film, che stavolta non viene da un soggetto originale di Bergman ma dalle novelle della scrittrice Ulla Isaksson. Detto molto in breve, è la storia di tre donne che si trovano incinte nello stesso periodo, riunite insieme nella stessa stanza d’ospedale, e dei loro diversi destini. Le tre donne sono Ingrid Thulin, Eva Dahlbeck, Bibi Andersson; altre attrici che hanno lavorato spesso con Bergman sono Inga Landgré (protagonista del primo film di Bergman da regista, e moglie del cavaliere nel “Settimo sigillo”), Margaretha Krook (che sarà la psichiatra di “Persona”), Barbro Hjort af Örnas (brevi parti in molti film). Gli attori maschi sono per forza di cose meno importanti: Erland Josephson e Max von Sydow sono i mariti delle due donne sposate (Bibi Andersson è una ragazza madre), e uno dei dottori è interpretato da Gunnar Sjöberg, un volto facilmente riconoscibile per chi ha visto “Il posto delle fragole”.
Però a questo punto è meglio fermarsi e dare la parola a Ingmar Bergman, che su questo film ha scritto parole chiarissime.
Ingmar Bergman, da “Immagini”:
Non avevo più rivisto “Alle soglie della vita” da quando l'avevo fatto, nell'autunno del 1957. Questo non mi ha impedito di parlare del film in termini negativi. Dopo che Lasse Bergström e io avemmo definitivamente spento il registratore, constatammo come “Alle soglie della vita” non venisse nominato una sola volta, nemmeno in una nota a piè di pagina. Eravamo d'accordo circa la stranezza di questo fatto. Mi decisi finalmente a rivedere il film. Provavo ripugnanza. Mi sentivo l'inferno dentro, senza sapere perché.
Lo rivedo ora in solitudine nel mio cinematografo di Farö. Mi stupisco della mia reazione: il film era un lavoro su ordinazione, promesso, non so più perché, alla Sveriges Folkbiografer. Avevo letto la bella raccolta di racconti di Ulla Isaksson, “La zia della morte”, e ero stato affascinato da due di essi che, messi insieme, avrebbero potuto costituire il materiale per un film. Il lavoro di sceneggiatura fu fluido, rapido e anche divertente (come sempre, del resto, quando lavoravo con l'amica Ulla). Potei procurarmi «l'equipaggio» che desideravo. Bibi Lindström costruì un comodo reparto di ostetricia, tutti erano di buon umore e il lavoro fu concluso rapidamente.
Perché allora tanti sospetti? E evidente: oggi posso vedere debolezze e pecche assai meglio che non trent'anni fa. Ma quanti film degli anni Cinquanta risultano soddisfacenti ancora oggi? I nostri criteri cambiano (quando si tratta di cinema e teatro, questo avviene a velocità furiosa). Il vantaggio delle rappresentazioni teatrali sta nel fatto che esse sprofondano nel mare dell'oblio fino a scomparire. Viceversa, i film restano. Mi domando che aspetto avrebbe questo libro se il corpus delicti fosse scomparso e io avessi basato i miei commenti su agende di lavoro, fotografie, critiche di giornali e ricordi sbiaditi. Eccomi, dunque, davanti a “Alle soglie della vita” come fu ascoltato e visto alla prima dell' 11 marzo 1958. Sedevo al buio, da solo e senza essere influenzato da nessuno.
Ecco ciò che vidi: una storia ben raccontata e minuziosa di tre donne in una stanza d'ospedale. L'insieme era corretto, caldo e intelligente, con una recitazione in gran parte di prima qualità. Il trucco era eccessivo, la parrucca di Eva Dahlbeck deplorevole, la fotografia a tratti misera, certi toni troppo letterari. Quando ebbi finito di vederlo, rimasi stupito e anche un po' contrariato: quel vecchio film mi piacque subito. Era buono, ben fatto e, sicuramente, andava ancora bene dal momento che circolava nei cinematografi.
Ricordo che nei locali dove veniva proiettato stazionava il personale del servizio medico. La gente sveniva per la paura. Il consigliere medico del film, il professor Lars Engström, mi aveva permesso di assistere a un parto al Karolinska Sjukhuset. Fu un'esperienza sconvolgente ed edificante. E’ vero che avevo cinque figli, ma non ero mai stato presente a nessun parto (a quel tempo era così). Durante il travaglio mi ubriacavo, o giocavo con i miei trenini Märklin, o andavo al cinema, o dirigevo le prove, o filmavo, oppure mi intrattenevo con signore di dubbia moralità. Non ricordo bene. Sia come sia, il parto era magnifico e, nondimeno, si rivelò un'operazione complicata. La mamma, una donna giovane e paffuta, partorì con grida e risa. L'atmosfera era quasi euforica. Io fui due volte sul punto di svenire e fui costretto ad andare fuori a sbattere il capo contro la parete per riprendere i sensi. Poi ritornavo, scosso e grato.
Non voglio affermare che le riprese abbiano avuto luogo senza problemi. Lo studio della Sveriges Folkbiografer era un ex salone da ginnastica lungo e stretto, situato nello scantinato di una vecchia e cadente casa di Ostermalm. Gli spazi circostanti erano rudimentali o inesistenti. La ventilazione era precaria: la presa d'aria era posta nel marciapiede in alto e portava all'interno i gas di scarico delle macchine. Tutto era stretto, sporco, cadente. Inoltre, l'asiatica imperversava, e noi cadevamo come mosche. Tuttavia, non potevamo abbandonare, perché gli attori avevano già firmato contratti per altri impegni. Portare avanti una ripresa con la febbre a quaranta dovrebbe essere impossibile. Invece risultò del tutto possibile. Recitavano tutti con la mascherina di garza sulla bocca. Di quando in quando, ma comunque abbastanza spesso, andavamo dietro le quinte dove erano custoditi i tubi con il gas esilarante. Il gas esilarante ha gli stessi effetti della droga, sia pure di più breve durata. Max Wilén, direttore della fotografia, si dimostrò un bravo e onesto artigiano, ma privo di sensibilità e di allegria. Portammo a termine la nostra triste collaborazione, mantenendo una cortese tetraggine. Il laboratorio, come detto, era una desolazione: crepe, sudiciume, ecc.
Ma la cosa più importante sono le attrici. Come avviene quasi sempre, allorché le condizioni di lavoro sono così anguste, le attrici dimostrarono presenza di spirito, ricchezza di trovate e un'incrollabile lealtà. Capacità di ridere nello sfacelo. Dedizione. Cura. Quello degli attori è, del resto, un capitolo a sé. (...) Sono gli attori che producono il teatro. Registi e scenografi possono fare quello che vogliono, possono persino sabotare se stessi, gli attori e i poeti. Ma i grandi attori producono comunque teatro. Ricordo una rappresentazione delle Tre sorelle fatta a pezzi e macinata come tabacco da fiuto da un vecchio e tetro barbagianni mitteleuropeo. Bravi attori se ne andavano in giro come sonnambuli annoiati. Ma una regina vestita di nero si elevava al di sopra del grigiore, inflessibile e follemente viva: Agneta Ekmanner.
So che la nota scritta qui sopra non è in accordo con la mia considerazione su “Alle soglie della vita”. Anche se, forse, lo è comunque. Per lo più, i testi dei miei film li scrivo io. Scrivo e riscrivo. Le mie agende di lavoro testimoniano (spesso con mio stupore, più tardi) i processi di lunga durata. I dialoghi subiscono duri controlli, vengono scarnificati, condensati, ricostruiti, cestinati, le parole saggiate e cambiate. Nella stesura finale ampi brani del testo vengono eliminati: «kill your darlings». Quando l'attore, alla fine, s'impossessa delle mie parole e le trasforma in espressioni sue proprie, di solito perdo il contatto con il significato originale delle battute. Gli artisti riescono a destare nuova vita in scene piene solo di chiacchiere. Sono prudentemente lieto e un po' soddisfatto: ah, sì, mi dico, è così? Sì, certo, era così che pensavo, anche se, durante il lungo e solitario processo di accordatura, ho finito col dimenticare tutto.
Quando feci “Alle soglie della vita”, la situazione era un'altra. Ero responsabile delle parole di Ulla Isaksson. Dovevo maneggiare una realtà, a un tempo ben nota e lontana: donne e partorienti. Mi ritrovai, letteralmente, alle soglie della vita. Ci furono molti inattesi effetti collaterali: una sala con sei madri da poco sgravate e bambini piccoli; seni ingrossati, schizzi di latte acido dappertutto, le condizioni fisiche più disparate, nonché gli aspetti più ridicoli e animaleschi dell'agire umano. Mi sentivo male, e fui costretto a riferirmi alle mie proprie esperienze di padre eternamente sprovveduto, eternamente in fuga dalla realtà.
Ingrid Thulin interpreta Cecilia, che è al terzo mese ed è sul punto di perdere il bambino. Alza la coperta e terrorizzata, sudando freddo, vede che il letto e le lenzuola sono macchiati di sangue, fin su, ai seni. La nostra esperta in materia, l'ostetrica presente quel giorno, sistemò il sangue (sangue di bue mescolato con un colorante chimico per ottenere la giusta tonalità). Ricordo che all'improvviso mi sentii male, ma soprattutto ricordo una ragazza in preda al panico accovacciata sulla tazza del water con il sangue che le colava tra le gambe. Amministrai quindi in modo strettamente professionale le parole di Ulla Isaksson e le situazioni da lei narrate; nei momenti disperati pensavo che, se soltanto lo avessi saputo, di certo non l'avrei fatto. Nuotavo come uno che affoga e cerca il fondo per appoggiarsi, ma non trova alcun fondo. E alla fine, porco diavolo!, al colmo di tutto questo incappai anche nell'asiatica. Alla malora tutte le costrizioni!
Le quattro attrici non ci badarono, e si comportarono gentilmente. Avevano notato che non stavo bene e nonostante i loro gravosi compiti mi trattarono con indulgente affettuosità. Fui loro grato, come del resto lo sono quasi sempre verso gli attori. Quando dobbiamo separarci dopo un periodo di lavoro, mi prende una difficile angoscia di separazione che sfocia nella depressione. (...)
(Ingmar Bergman, da “Immagini” ed. Garzanti 1992)
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