IL RITO (Riten, 1967). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist - Scenografia, costumi: Mago (Max Goldstein) Interpreti: Gunnar Björnstrand (Hans Winkelmann), Ingrid Thulin (Thea Winkelmann), Anders Ek (Sebastian Fisher), Erik Hell (giudice Abrahamsson), Ingmar Bergman (un prete). Durata: 72 minuti
« Il rito deve essere gerarchico: o è gerarchico, o non è. » (Elemire Zolla, intervista del 1987 alla TSI)
“Il rito” (che è propriamente il titolo di uno spettacolo messo in scena in teatro dal trio dei protagonisti) è sicuramente il più sgradevole e il più spinto dei film di Bergman; ma è anche un capolavoro, che lascia ogni volta sorpresi durante la visione per quanto vi è di non detto, e per la potenza delle sue immagini.
Un esempio della sgradevolezza (voluta) del film è per esempio in questo dialogo, che si svolge fra Ingrid Thulin e Anders Ek in una delle sequenze iniziali: i due sono in una stanza d’albergo, lui si chiama Sebastian e lei si chiama Thea; sono due attori di teatro, che recitano in trio con il marito di lei (Gunnar Björnstrand), che è al momento assente.
Questo dialogo è davvero terrificante, più che altro per la sua vuotezza che contrasta con la precisione e la durezza delle immagini: il rapporto di coppia è spinto davvero all’estremo, poco più in là e questo film sarebbe stato sicuramente censurato. Bergman e Nykvyst, al di là della forza e della “violenza” delle immagini, ne traggono un capolavoro di studio della figura umana e delle sue espressioni; e i due attori sono formidabili, al di là della (voluta) sgradevolezza di fondo.
Siamo al minuto 11: Sebastian racconta il sogno di dover andare a scuola e di doverne rendere conto; lei sbadiglia fingendosi annoiata e risponde con un sogno palesemente inventato, quello dei due cavalli, uno giovane e uno vecchio, tra cui deve scegliere. E’ la situazione reale di questo triangolo di attori: suo marito (Björnstrand) è più vecchio di lei, Sebastian ha invece più o meno la sua stessa età.
Lui: Vorrei poterci ridere sopra. E’ penoso vedere il lato comico di una situazione e non riuscire a ridere.
Lei (gli fa un verso di scherno, simile a quello di Björnstrand col cavaliere nel “Settimo sigillo”, poi prende in mano uno specchio e si guarda)
Lui: Ricordi i versi di quella poesia? “Metà uomo sono, e metà uccello...”
Lei: (soave) Non mi interessa la poesia.
Lui: Lo so, tu leggi solo riviste. Non la ricordo più.
Lei: Che cosa?
Lui: La poesia. Ma tu non mi ascolti.
Lei: Oh, la poesia dell’uccello... (recitando) “Metà uccello e metà uomo io sono, d’uccello il cuore, d’uomo i polmoni; d’uccello la testa, gli occhi di uomo. Con desiderio mai soddisfatto, la membrana si spezza; pesanti membra avvolgono il corpo, gli occhi rivolti al cielo.” Eccetera. (ride) Sebastian...Vogel...
Lui: (si sdraia sul letto e fa delle smorfie tirandosi le guance)
Lei: Basta!
Lui: (recita) “La meravigliosa donna-fiore, calda, aperta, generosa, audace...” (riprende a tirarsi le guance facendo smorfie) “...sorella della madre terra, delizia, delizia...”
Lei: (guardandosi nello specchio) Cerchi di vendicarti perché non sei in grado di soddisfarmi, vero? Comunque, Hans è capace.
Lui: E io no, è così?
Lei: (con leggerezza, quasi cantando) No, non ci riesci in nessun modo. (si porta lo specchio davanti al pube)
Lui: Io sono più fragile, impotente a raggiungerti...Come definirmi? (tende le mani verso il pube di lei) Grottesco?
Lei: (ride, gli sfugge, va a sedersi poco più in là; poi, ridendo) Ora ti dirò cosa mi disse uno psichiatra: “tu non sei un solido, sei una sostanza in movimento; tu fluisci negli altri (mercurio?), gli altri fluiscono in te. Niente è fermo: prima lo imparerai, prima ti libererai dalle nevrosi.” E alla fine mi ha detto: “Le isole nei fiumi sono il primo segno della morte: diventano sempre più grandi e più solide, sorgono dal vortice e dall’oscurità; e un giorno la corrente sarà soffocata dalle isole.” (Solaris?)
Lui: Tu hai bisogno di quattro uomini. Uno per mantenerti, uno per portarti a letto, uno per divertirti, e uno per curare la tua anima.
Lei: (ridendo) E’ vero, sono poverissima!
Lui: Ora devo alzarmi. (per recarsi dall’Ispettore, con cui ha un appuntamento)
Lei: E io me ne andrò nella mia stanza. (recitando, ripete più volte in maniera diversa, canzonando in modo quasi infantile) Sebastian, Sebastian, Sebastian...
Sebastian le si siede in braccio, mentre lei è ancora nella poltrona. (...)
Lei: Non ascolti mai quello che dico.
Lui: (allontanandosi da lei) Ricordo quello che disse un vecchio impresario parlando degli attori: “è un miracolo che si ripete sempre, all’improvviso spuntano gigli dal culo dei cadaveri”.
Lei: (sospira) Dio, abbi pietà di me...
Lui: (irridente) Sì, piccola, avrò pietà di te martedì.
Lei: (tra sè, continuando la preghiera) Prendimi con Te, salva la mia anima prima che si perda nel vuoto...
Rimasto solo, Sebastian gioca con i fiammiferi e dà fuoco al lenzuolo, in una scena impressionante, degna dei Fratelli Coen. Ma non succederà niente, come vedremo nella scena successiva: l’incendio della stanza è riservato solo a noi spettatori.
La situazione è questa: la compagnia sta per sciogliersi, il loro contratto è in scadenza e tra poco i due si separeranno, o comunque è il momento di prendere delle decisioni. Nel film, Ingrid Thulin e Björnstrand sono sposati da cinque anni e hanno un figlio piccolo ricoverato in un istituto (“un idiota”, dice di lui il padre parlandone con l’Ispettore)
In questo dialogo, mi sono segnato alcuni rimandi importanti: innanzitutto Strindberg, che ha firmato molti dialoghi come questo; poi Solaris di Tarkovskij, per le “isole della memoria”; e infine il comportamento del mercurio, che è un metallo liquido capace di fluire in altri materiali, come l’oro. Va infine notato che il momento che può apparire più volgare in questo dialogo è una citazione quasi letterale di “il fiore che sboccia in maniera inaspettata sul vecchio ciliegio spoglio”, che è una frase del maestro Zeani, vissuto in Giappone nel ‘400, riferito proprio al lavoro dell’attore, per la precisione al teatro No.
(continua)
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