The Tales of Hoffmann (I racconti di Hoffmann, 1951) Tratto dall’opera lirica di Jacques Offenbach. Regia e sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger. Sceneggiatura: Dennis Arundell, dall'opera di Offenbach, libretto di Jules Barbier. Fotografia (col.): Christopher Challis. Montaggio: Reginald Mills. Musica: Jacques Offenbach. Direzione musicale: sir Thomas Beecham. Production designer e costumi: Hein Heckroth. Scenografia: Arthur Lawson. Coreografia: Frederick Ashton. Marionette: John Wright. Produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger. Produttore associato: George R. Busby. Compagnia di produzione: The Archers per la London Film Productions. Durata: 127', ridotti a 115' prima della distribuzione.
Interpreti: Prologo ed epilogo: Moira Shearer (Stella), Robert Rounseville (Hoffmann), Robert Helpmann (Lindorff), Pamela Brown (Nicklaus), Frederick Ashton (Kleinzack), Meinhart Maur (Luther), Edmond Audran (Cancer) Philip Leaver (Andreas). Il racconto di Olympia: Moira Shearer (Olympia), Robert Helpmann (Coppelius), Leonid Massine (Spalanzani). Il racconto di Giulietta: Ludmilla Tcherina (Giulietta), Robert Helpmann (il dottor Dappertutto), Leonid Massine (Schlemiel). Il racconto di Antonia: Anna Ayars (Antonia), Robert Helpmann (il dottor Miracolo), Leonid Massine (Franz).
Cantanti: Robert Rounseville (Hoffmann) Bruce Dargavel (Coppelius, Dappertutto, Miracolo), Monica Sinclair (Nicklaus), Dorothy Bond (Olympia), Margherita Grandi (Giulietta), Ann Ayars (Antonia), Joan Alexander (madre di Antonia). Grahame Clifford (Franz, Spalanzani), Murray Dickie (Cochenille, Pitichinaccio), Owen Brannigan (Schlemiel), Fisher Morgan, Rene Soames. Royal Philharmonic Orchestra, Sadler’s Wells Chorus; direttore d’orchestra sir Thomas Beecham.
Nella versione italiana Tommaso Spataro è Hoffmann, Bruna Rizzoli è Olimpia, Antonietta Stella è Giulietta, Gianna Borelli è Nicklaus, le altre parti sono affidate al tenore Piero de Palma, e ai tre baritoni Dimitri Lopatto, Manuel Spatafora, Guido Mazzini. Dirige Ottavio Ziino, con elementi dell’Accademia di Santa Cecilia.
E.T.A. Hoffmann è uno scrittore e musicista tedesco, contemporaneo di Mozart, tra i precursori dei racconti che oggi chiamiamo “fantasy” o magari “horror”. Il suo nome completo è Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, ed è un grande scrittore, che si fa leggere anche oggi e che è stato ovviamente imitatissimo fin dagli inizi dell’Ottocento, influenzando altri scrittori come Poe, Lovecraft, e un po' tutto il genere che oggi chiamiamo "horror". Nasce nel 1776, vent’anni esatti dopo Mozart, che ammirava moltissimo: il suo terzo nome di battesimo era infatti Wilhelm, che lui stesso cambiò in Amadeus, proprio come omaggio al grande musicista suo contemporaneo. Di lui la Garzantina dice: «Hoffmann Ernst Theodor Amadeus (1776-1822) scrittore tedesco, esponente del romanticismo. Autore di racconti fantastici di prorompente immaginazione: Gli elisir del diavolo (1816), Racconti notturni (1817), La confraternita di Serapione (1819-21), Opinioni sulla vita del gatto Murr (1821). Fu anche pittore, musicista (musica sacra, l'opera sinfonica Ondina. 1812-14) e critico musicale.»
Più dettagliata la voce sull’altra Garzantina, quella dedicata alla musica:
«Hoffmann Ernst Theodor Amadeus (Königsberg 1776 - Berlino 1822) scrittore e compositore tedesco. Avviato agli studi musicali da uno zio, li proseguì a Berlino parallelamente a quelli di diritto. In seguito si dedicò all'attività musicale non meno intensamente cha a quella letteraria; nei primi difficili anni della carriera giudiziaria pensò anzi di dedicarsi interamente alla musica. Fu compositore, direttore d'orchestra, critico musicale; in quest'ultima veste collaborò anche con la Allgemeine Musikalische Zeitung e con i Berliner Blätter. I suoi scritti - che firmava con lo pseudonimo «Kapellmeister Johannes Kreisler» -, le sue intuizioni, i suoi personaggi fanno di lui uno degli iniziatori del pensiero romantico musicale e influenzarono molti compositori: da Schumann, che si ispirò, nella Kreisleriana, alla raccolta di fantasie e spunti critici dell'immaginario compositore Kreisler «alter ego» dello stesso Hoffmann, a Offenbach. il quale si ispirò alla vita e all'arte di Hoffmann per l’opera lirica i “Racconti di Hoffmann”, a Busoni, Hindemith e altri. Seguace delle teorie di Gluck, ammiratore grandissimo di Mozart (in omaggio al quale mutò il suo terzo nome Wilhelm in Amadeus), Hoffmann compose 11 opere (tra le quali Undine, del 1816, è la più tipica), musiche di scena, musiche vocali e corali, una sinfonia, una ouverture e composizioni da camera.»
Hoffmann come scrittore è ancora oggi importante, è stato sempre ripubblicato e disponibile in libreria, e viene molto spesso copiato e clonato (sia nei libri che al cinema) senza nemmeno citarne il nome. E’ invece difficile ascoltare le musiche di Hoffmann in concerto: non per sua colpa, perché è stato un ottimo compositore, ma per la statura dei musicisti suoi contemporanei: da Haydn a Mozart, a Beethoven, a Schubert, a Cherubini, a Rossini, praticamente tutti i più grandi. Quasi impossibile non rimanere nell’ombra, pensando anche a quelli che sono venuti subito dopo di lui: Verdi, Wagner, Schumann, Brahms, Berlioz...
Jacques Offenbach nasce a Colonia nel 1819, con il nome di Jacob Eberst. Si trasferisce presto a Parigi, nel 1833, e prende lezioni di composizione da Jacques Halévy, un musicista molto famoso a quei tempi, suonando nel frattempo come violoncellista nelle orchestre teatrali. Si afferma come compositore di operette e direttore d’orchestra, con enorme successo, dal 1839 fino alla morte nel 1880. I suoi più grandi successi, ancora oggi replicatissimi, sono “Orfeo all’inferno” (1858, con il famoso cancan), La belle Hélène (1864), La vie parisienne (1866), La Périchole (1868), e molti altri, sempre in collaborazione con Ludovic Halévy (nipote di Jacques Halévy) e H.Meilhac, che gli fornivano ottimi libretti e trame sempre divertenti. Diventato francese a tutti gli effetti, sceglie di usare il nome Jacques Offenbach, dal nome della città (Offenbach, per l’appunto) dove aveva a lungo vissuto suo padre.
Nel 1877, Offenbach comincia a scrivere la sua ultima opera, destinata a rimanere in parte incompiuta: “Les contes d’Hoffmann”, su libretto di Jules Barbier. E’ la sua prima opera seria, d’argomento in gran parte drammatico; non ne esiste una versione definitiva, perciò ogni esecuzione o registrazione discografica risulta più o meno diversa dall’altra in alcune parti. Offenbach completò una parte dell’opera, lasciando gli altri atti senza orchestrazione; ma soprattutto non sappiamo come avrebbe strutturato l’opera una volta finita, tutte le ricostruzioni successive sono per forza di cosa aleatorie. Pare che il progetto originale fosse questo: la Musa che assiste l’opera dell’Autore. Nella versione comunemente eseguita, la Musa è diventata Nicklaus, amico fraterno del protagonista, che è però interpretato da una donna, voce di mezzosoprano, rispettando così almeno in parte l’intenzione originaria.
Su questo tema, la Musa che ispira l’Autore (è anche l’inizio dell’Iliade) esiste un famoso dipinto di Ingres: il musicista raffigurato è Luigi Cherubini.
L’origine dell’opera risale al 1851, quasi trent’anni prima, quando Offenbach assiste a Parigi a uno spettacolo teatrale che fece scalpore: la messa in scena di tre racconti di Hoffmann, ad opera di Jules Barbier e Michel Carré. Hoffmann era ancora un autore popolarissimo, con fama di maledetto dati i temi di fondo dei suoi romanzi e racconti: indemoniati, maghi, alchimisti, stregoni. Dopo molti anni, dunque, Offenbach si rivolge a Jules Barbier (Michel Carré era morto nel frattempo) e gli chiede di riprendere quel suo dramma per ricavarne un libretto d’opera, e così viene fatto.
I tre racconti sono “L’uomo della sabbia”, “Il consigliere Crespel” e “Le avventure della notte di San Silvestro”; opportunamente riscritti e adattati, con un prologo e un epilogo a unirli, diventeranno “Les contes d’Hoffmann”. La principale modifica è questa: il protagonista dei tre racconti è uno solo, cioè lo stesso Hoffmann, con voce di tenore.
Questo è l’inizio di uno dei racconti più famosi di E.T.A. Hoffmann, “Der Sandmann”, l’uomo della sabbia: la creatura favolosa che getta sabbia negli occhi dei bambini, per farli addormentare; qui trasformato in persona reale e decisamente inquietante.
«(...) Nella mia vita si è insinuata una cosa spaventevole. Oscuri presentimenti di un destino orribile che mi sovrasta si librano sulla mia testa come ombre nere di nuvole impenetrabili a ogni raggio di sole. Ora devo dirti quel che mi è capitato. Lo devo, lo capisco, ma al solo pensiero mi esce dal petto una risata folle. O mio carissimo Lotario, non so come incominciare per farti sentire almeno in parte come ciò che mi è toccato alcuni giorni sono abbia potuto veramente distruggere la mia vita. Se tu fossi qui, potresti vedere coi tuoi occhi; così invece mi prenderai certamente per un visionario farneticante. Per farla breve, la cosa orrenda che mi è capitata (e invano mi sforzo di allontanarne l'impressione mortale) consiste in questo: che alcuni giorni fa, il 30 di ottobre, esattamente a mezzogiorno, un venditore di barometri entrò nella mia stanza e mi offerse la sua merce. Io non comprai nulla e minacciai di buttarlo giù dalle scale: dopo di che se ne andò da sé. Tu intuisci che questo fatto può avere importanza soltanto per rapporti particolari che incidono profondamente nella mia vita, e che quello sciagurato venditore deve avere su di me influenze deleterie. Così è infatti. Ora lasciami raccogliere tutte le mie forze per narrarti con calma e pazienza quel tanto della mia giovinezza che possa presentarti le cose con chiarezza e precisione in vivide immagini. Ma mentre sto per incominciare mi par di sentirti ridere e di udire Clara che dice: - Che fanciullaggini!
Ridete, vi prego, ridete pure di me! Ma, santo Dio, i capelli mi si rizzano sulla testa e mi sembra che questo mio invito a deridermi sia fatto nella follia della disperazione, come quello di Francesco Moor a Daniele. Ma veniamo ai fatti!
Oltre che alla colazione di mezzogiorno io e mia sorella vedevamo molto poco il babbo durante la giornata. Doveva aver molto da fare in ufficio. Dopo la cena che, secondo una vecchia consuetudine, era messa in tavola già alle sette, tutti noi con la mamma andavamo nello studio del babbo e sedevamo intorno a una tavola rotonda. Il babbo fumava e si beveva un bicchierone di birra. Molte volte ci raccontava storie meravigliose e vi s'infervorava talmente che la pipa gli si spegneva e io dovevo riaccenderla accostando al fuoco un pezzo di carta: che era per me un grande divertimento. Spesso invece ci metteva davanti libri illustrati, se ne stava muto e pensieroso nel seggiolone a braccioli e soffiava grandi nuvole di fumo, sicché ci pareva di essere in mezzo alla nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena suonavano le nove ci diceva: - Su, ragazzi, a letto! a letto! Viene l'uomo della sabbia, mi par di vederlo.
E realmente ogni volta sentivo un passo lento e pesante che montava la scala: doveva essere l'uomo della sabbia. Una volta quei passi cupi e rintronanti mi misero i brividi; e alla mamma che mi conduceva via domandai: - Di', mamma, chi è poi quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? Come è fatto?
- Caro figliolo, l'uomo della sabbia non esiste, - mi rispose la mamma. - Quando dico che viene l'uomo della sabbia, voglio dire soltanto che siete assonnati e non potete più tenere gli occhi aperti come vi ci avessero buttato una manciata di sabbia.
La risposta della mamma non mi accontentò, anzi nella mia mente infantile sorse chiaramente il pensiero che la mamma negasse l'esistenza dell'uomo della sabbia soltanto perché non avessimo paura: tant'è vero che lo sentivo sempre salire la scala. Incuriosito, e desiderando di sapere di più sul conto dell'uomo della sabbia e dei suoi rapporti con noi ragazzi, domandai infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore che uomo fosse mai quello della sabbia.
- Oh, Niele, - rispose costei, - non lo sai ancora? E’ un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare dalla testa: poi li prende così sanguinanti, li mette in un sacco e li porta nella luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco curvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi.
Nella mia mente si disegnò l'orribile immagine di quell'uomo crudele; e quando la sera lo udivo salire, tremavo dall'angoscia e dal terrore. Mia madre non poteva cavarmi di bocca altro che queste parole balbettate fra le lacrime: «L'uomo della sabbia! L'uomo della sabbia!» E correvo nella stanza da letto e mi torturavo tutta la notte con la paurosa visione dell'uomo della sabbia.
Quando fui abbastanza grande per capire che quella faccenda dell'uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli nella luna, come aveva detto la governante, non doveva essere una cosa vera, l'uomo della sabbia continuò ad essere per me un orrido fantasma, e io continuai a provare spavento e raccapriccio non solo quando lo udivo salire dalla scala, ma anche sentendo che apriva la stanza di mio padre e vi entrava. Qualche volta rimaneva assente a lungo, ma poi veniva più volte di seguito.
Così si andò avanti per parecchi anni e io non riuscivo ad assuefarmi, né a vincere la paura di quello spettro la cui immagine non impallidiva nella mia mente. I contatti del pauroso uomo della sabbia con mio padre agitavano sempre più la mia fantasia; un ritegno invincibile mi impediva di chiedere informazioni al babbo, ma con gli anni sorse sempre più viva in me la voglia di indagare da me stesso il mistero e di vedere il favoloso uomo della sabbia. Questi mi aveva messo sulla strada dell'avventura, delle cose meravigliose che tanto facilmente si annidano nell'animo infantile. Nulla mi piaceva tanto quanto ascoltare o leggere storie raccapriccianti di folletti, di streghe, di pollicini ecc. Ma in cima a tutto stava l'uomo della sabbia che andavo disegnando, negli atteggiamenti più strani e più ripugnanti, col gesso e col carbone su tutte le tavole, sugli armadi, sulle pareti.
Quando ebbi compiuto i dieci anni, mia madre mi passò dalla stanza dei bambini in una cameretta che si apriva sul corridoio vicino alla camera del babbo. Come sempre quando suonavano le nove e quello sconosciuto si faceva sentire in casa, dovevamo allontanarci senza indugio. Dalla mia cameretta lo udivo entrare dal babbo e poco dopo mi sembrava che per la casa si diffondesse un fumo sottile di odore strano. Con la curiosità andava crescendo anche il mio coraggio di fare in qualche modo la conoscenza dell'uomo della sabbia. Spesso sgusciavo dalla cameretta sul corridoio non appena la mamma era passata oltre, ma non riuscivo a scoprire nulla perché, quando arrivavo al punto da dove avrei dovuto vederlo, l'uomo della sabbia si era già infilato nella stanza del babbo. Infine, spinto da una smania irresistibile, decisi di nascondermi in quella stanza e di aspettarvi lo sconosciuto.
Una sera capii dal silenzio di mio padre e dalla tristezza della mamma che l'uomo della sabbia sarebbe arrivato; mi finsi molto stanco, lasciai la stanza prima delle nove e mi acquattai in un angolino presso la porta. Il portone di casa cigolò e passi lenti e pesanti rintronarono dal vestibolo verso la scala. Mia madre mi passò davanti con mia sorella. Piano piano aprii la stanza del babbo, il quale se ne stava seduto come al solito muto e rigido; volgeva le spalle alla porta e non si accorse di me che entravo rapidamente e mi infilavo dietro la tendina tirata davanti a un armadio aperto dove il babbo teneva gli abiti. Sempre più vicino... sempre più vicino suonavano quei passi... un tossire di fuori, uno strisciar di piedi e uno strano borbottìo. Il cuore mi tremava nell'attesa angosciosa. Ed ecco un passo proprio davanti la porta... un colpo violento sulla maniglia... la porta si spalanca! Raccogliendo tutto il mio coraggio sporgo la testa con cautela. L'uomo della sabbia è nel mezzo della stanza davanti a mio padre, la luce delle candele gli illumina la faccia. L'uomo della sabbia, il terribile uomo della sabbia è il vecchio avvocato Coppelius che qualche volta viene da noi a colazione! Ma la figura più mostruosa non avrebbe potuto spaventarmi come quel Coppelius. Figùrati un uomo alto dalle spalle larghe, con un testone informe, la faccia terrea, le sopracciglia grige e folte, di sotto le quali scintillano due occhi da gatto verdastri e pungenti, il gran naso pendente sul labbro superiore. La sua bocca torta si atteggia spesso a un riso beffardo; e allora gli appaiono sulle guance alcune macchioline scarlatte, e un sibilo strano gli passa tra i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antico, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava le calze nere e le scarpe con fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva appena il cocuzzolo, i cernecchi gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una grossa reticella per i capelli gli sporgeva dalla nuca lasciando scorgere il fermaglio d'argento che teneva fissa la cravatta pieghettata. Tutta la sua persona era antipatica e odiosa; ma a noi ragazzi davano disgusto specialmente le sue manacce nodose e pelose; al punto che rifiutavamo tutto ciò che egli toccava Se n'era accorto e si divertiva a toccare con qualche pretesto o un pezzetto di torta o un frutto maturo che la nostra buona mamma ci metteva nel piatto, sicché dallo schifo e dal ribrezzo, con le lacrime agli occhi, rinunciavamo alle ghiottonerie che dovevano darci gioia. E faceva lo stesso nei giorni di festa quando il babbo ci mesceva un bicchierino di vin dolce: quello vi posava rapidamente la mano o si portava addirittura il bicchierino alle labbra paonazze e livide e si faceva le sue risate diaboliche quando noi non potevamo esprimere il nostro dispetto se non con singhiozzi sommessi. Ci chiamava sempre "le bestiole"; quando c'era lui, non dovevamo dire una parola e non potevamo che maledire quell'uomo brutto e cattivo che ci guastava apposta anche il piacere più innocente. Mia madre pareva che odiasse quanto noi quell'antipatico Coppelius; appena infatti egli si faceva vedere, la serenità di lei, la sua natura gaia e ingenua si tramutava in tristezza cupa e severa. Mio padre invece lo trattava come fosse un essere superiore, del quale si debbano sopportare le sgarberie e cercar di tener alto il buon umore. Bastava che quello facesse un'allusione e tosto si preparavano cibi prelibati e si mescevano vini rari.
Appena dunque vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, poiché l'uomo della sabbia non poteva essere che lui; e non era più lo spauracchio della fiaba della governante, quello che veniva a prendersi gli occhi dei bambini da dare in pasto alle civette nella luna... tutt'altro... Era un mostro orribile e fantastico, un orco che dovunque arrivava seminava dolori e miserie... rovine temporanee e perpetue.
Rimasi affascinato. A rischio di essere scoperto e punito severamente rimasi al mio posto sporgendo la testa dalla tendina, in ascolto. Mio padre accolse Coppelius con fare cerimonioso. - Su, all'opera! - esclamò quest'ultimo con voce roca e stridula, levandosi la giubba. 11 babbo si tolse anche lui la veste da notte in cupo silenzio, e tutti e due indossarono lunghe tuniche nere. Dove le prendessero non potei vedere. Mio padre aprì i battenti d'un armadio a muro; ma quello che per tanto tempo avevo ritenuto un armadio era invece una caverna nera nella quale sorgeva un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e suscitò una fiamma azzurra e scoppiettante. Intorno c'erano strani oggetti. Dio mio, com'era trasfigurato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore orribile e lancinante avesse stravolto i suoi lineamenti dolci e onesti trasformandolo in un demonio brutto e ripugnante. Assomigliava a Coppelius, il quale con le tenaglie incandescenti toglieva dal fumo denso sostanze sfavillanti che poi martellava furiosamente. Mi pareva dl vedere intorno tanti volti umani, ma senza occhi: al posto degli occhi erano cavità nere e profonde, - Qua gli occhi! qua gli occhi! - gridava Coppelius con voce cupa e tonante.
Preso dallo spavento mandai un grido e balzai dal mio nascondiglio. .Coppelius mi acciuffò. - Ah, bestiola! bestiola! - belò digrignando i denti e, sollevatomi, mi buttò sul focolare, dove la fiamma incominciò a bruciarmi i capelli. - Qui ci sono occhi... occhi... un bel paio d'occhi di fanciullo. - Così sussurrava Coppelius cavando dalla fiamma alcuni granelli incandescenti per buttarmeli negli occhi. Mio padre alzò le mani implorando ed esclamò: - Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio Nataniele... lasciali! Coppelius rise rumorosamente e disse: - Se li tenga, gli occhi, il ragazzo e frigni la sua parte nel mondo; ma vediamo un po' da vicino il meccanismo delle mani e dei piedi! - Così dicendo mi strinse con forza le giunture facendole crocchiare e mi svitò le mani e i piedi e andava rimettendo a posto ora quelle, ora questi.
- Non vanno bene tutti! Era meglio prima. Il vecchio se ne intendeva! - Così sibilava e bisbigliava Coppelius; ma io vidi nero intorno intorno, un'improvvisa convulsione mi scosse i nervi e le ossa... e perdetti i sensi. Un soffio dolce e tepido mi passò sul viso: mi svegliai come da un sonno mortale: mia madre si era chinata sopra di me...
- C'è ancora l'uomo della sabbia? - balbettai.
- No, caro, è andato via da tanto tempo, non ti fa più del male! - rispose la mamma baciando e accarezzando il beniamino ritrovato. (...)
Coppelius non si fece più vedere. Si diceva che avesse abbandonato la città. Poteva essere passato un anno, allorché una sera, secondo l'antica usanza, stavamo intorno alla tavola rotonda. Mio padre era molto sereno e raccontava episodi divertenti dei viaggi che aveva fatto in gioventù. Ad un tratto, allo scoccare delle nove udimmo il portone cigolare sui cardini e passi lenti e pesanti rintronare nel vestibolo verso la scala.
- Questo è Coppelius, - disse mia madre impallidendo.
- Sì, è Coppelius, - ripeté il babbo con voce stanca e tremante.
Gli occhi di mia madre si empirono di lacrime. - Ma, babbo, babbo! - esclamò. - Non si può proprio farne a meno?
-E’ l'ultima volta, - replicò il babbo. - Oggi viene per l'ultima volta, te lo prometto. (...)
(E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, ed. BUR, traduzione di Ervino Pocar)
(continua)
2 commenti:
Beh, Giuliano, è davvero difficile scrivere qualcosa che arricchisca questa tua appena iniziata serie di post: posso solo aggiungere qualche mia opinione personale.
Intanto su Offenbach, un musicista a parer mio straordinario capace di essere profondo e contemporaneamente lieve, le sue opere viste in teatro sono sempre godibili.
L'ultima volta ho visto "I racconti di Hoffmann" al Regio di Torino, un paio d'anni fa circa.
Mi diverto sempre nella scena della bambola, anche se è decisamente inquietante. Tra le moderne interpreti monumentale Natalie Dessay, anche alla Scala di Milano agli inizi degli anni 90.
Bella anche la Chanson de Kleinzach, se ben interpretata.
Fai bene a sottolineare, per quanto riguarda ETA Hoffmann, quanto gli siano debitori tanti celeberrimi scrittori, perché anche in questo caso si tende a dimenticare con facilità i meriti altrui.
Pensa che io, invece, proprio recentemente, ho regalato una raccolta di suoi racconti al figlio di un mio amico. Speriamo che continui a dormire tranquillo :-)
Ciao!
La scena del moscone nell'Orfeo di Offenbach è favolosa, ho l'incisione con Laurent Naouri e basta pensarci per cominciare a ridere. Ed è anche grande musica!
Poi a me piace moltissimo la Périchole, forse ne abbiamo già parlato a suo tempo ("Felicità felicità etcetera etcetera", anche questa ogni tanto mi ritrovo a canticchiarla...).
E sono contento che tu mi abbia ricordato la Dessay, favolosa: ma Offenbach scrive in maniera che ogni cantante appena un po' dotata fa la sua bella figura, mi ricordo valanghe di applausi anche per soprani non famosi, con l'aria e scena di Olimpia.
Ma della musica ne parlo dal quarto post in avanti, domani metto le informazioni che ho trovato sugli interpreti. Mi raccomando, mi aspetto da te un lavoro da Beckmesser!
:-)
(bacchettate comprese, se servono)
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