mercoledì 1 giugno 2011

L'uovo del serpente

L'UOVO DEL SERPENTE (Örmens ägg, 1976) Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman - Produttore: Dino De Laurentiis - Fotografia: Sven Nykvist (colori) - Musiche: Rolf Wilheilm - Scenografia: Rolf Zehetbauer - Montaggio: Petra von Oelffen. Con: Liv Ullmann (Manuela Rosenberg), David Carradine (Abel Rosenberg), Gert Fröbe (commissario Bauer), Heinz Bennent (Hans Vergérus), James Whitmore (il prete), Glynn Turman (Monroe), Georg Hartmann (Hollinger), Edith Heerdegen (signora Holle), Kyra Mladeck (Miss Dorst), Fritz Strassner (dottor Soltermann), Hans Quest (dottor Silbermann), Wolfgang Weiser (un domestico in borghese), Paula Braend (signora Hemse), Walter Schmidinger (Solomon), Lisi Mangold (Mikaela), Grischa Huber (Stella), Paul Bürks (il commediante di cabaret), Isolde Barth, Rosemarie Heinikel, Andrea L'Arronge & Beverly McNeely (ragazze in uniforme), Toni Berger (signor Rosenberg), Erna Brunell (signora Rosenberg), Hans Eichler (Max), Harry Kalenberg (il medico legale), Gaby Dohm (la donna col neonato), Christian Berkel (lo studente), Paul Burian (la persona dell'esperimento), Charles Regnier (il medico), Günter Meisner (il prigioniero), Heide Picha (la moglie), Günter Malzacher (il marito), Hubert Mittendorf (il consolatore), Hertha von Walther (la donna sulla strada), Ellen Umlauf (la padrona di casa), Renate Grosser & Hildegard Busse (prostitute), Richard Boline (l'agente di polizia), Emil Feist (lo spilorcio), Heino Hallhuber (« la sposa»), Irene Steinbeiser (« lo sposo»). Produzione: Rialto Film (Berlino), Dino De Laurentiis Corp. (Los Angeles) - Distribuzione: FoxStockholm – Durata: 119 minuti -

Il primo pensiero è: “Cabaret” di Bob Fosse, un grande successo di critica e di pubblico girato nel 1972. Il secondo pensiero è: cosa ci fa questo film nella scheda di Ingmar Bergman? Fosse per me, lo eliminerei subito dalla lista: questo non è un film di Bergman. E infatti, andando a leggere cosa ne scrive lo stesso Bergman su “Immagini”, il libro dove ripercorre tutti i suoi film, la parola che ricorre di più è errore, film sbagliato, eccetera.
“L’uovo del serpente” non sembra un film di Bergman, lo si potrebbe togliere dalla lista dei suoi film e più lo guardo più lo farei volentieri. Non sarebbe un brutto film se non si sapesse che è di Bergman, ma sapendo che è davvero di Ingmar Bergman la delusione e lo sconcerto sono troppo forti per nasconderli. E’ un film nato con ottime intenzioni, pensato forse più da Dino de Laurentiis che da Bergman; il produttore italiano voleva sicuramente sfruttare il grande successo di Bergman in quegli anni, andando su un filone che era di gran moda dopo il successo di “Cabaret”: la Berlino degli anni ’20 e la nascita del nazismo. Era un’idea sbagliata, ma lo si sarebbe saputo solo a cose fatte, a posteriori.
Di buono forse c’è questo: il lavoro sugli arredi, sui colori, sulla luce, che opportunamente digerito e metabolizzato (è come mangiare una torta nuziale troppo grande, troppo piena di panna, di pan di spagna e di liquore rosso) verrà buono per “Fanny e Alexander”.
In “L’uovo del serpente” ci sono molti punti in comune con “Il rito”, girato da Bergman nel 1969: i tre acrobati, la presenza di un giudice, il 3 più 1 nei personaggi. Rispetto a “Il rito” manca il personaggio corrispondente a quello di Gunnar Björnstrand, il leader vero del trio, ruolo che probabilmente spettava al fratello del protagonista, fratello di Carradine e marito di Liv Ullmann. Quando comincia il film, il trio si è già sciolto (e dunque il soggetto può essere immaginato come il seguito di “Il rito”), i tre componenti sono andati ognuno per conto suo, e il fratello terzo componente è appena morto, come veniamo a sapere subito.
L’ambientazione è nella Germania del 1923, cioè nel pieno della gravissima crisi economica che seguì alla sconfitta tedesca nella Grande Guerra: quello che si vede nel film non è affatto inventato, e forse è difficile da capire, ma davvero a quell’epoca l’inflazione era così forte che i soldi (il marco tedesco) venivano pesati senza nemmeno più guardare all’importo che vi era segnato sopra. La moneta nazionale era ridotta così male che un giornale poteva costare diversi miliardi di marchi, e per spese più consistenti le banconote erano così tante che serviva una carriola per portarle. Di conseguenza, i dollari americani che ha in tasca il protagonista diventano molto importanti.
Il significato del titolo, che viene spiegato nel finale, è questo: nell’uovo del serpente si vede controluce il serpente che nascerà. Tra 10-15 anni, non di più, i figli dei tedeschi umiliati dalla sconfitta nella Grande Guerra, e dalla conseguente gravissima crisi economica, saranno adulti e pieni di rabbia repressa. E’ di quell’anno il fallito colpo di Stato organizzato da Hitler in Baviera, e nel film se ne parla in più occasioni: sembrava che Hitler dovesse scomparire dalla vita politica tedesca, purtroppo le cose andarono diversamente.
Tra gli attori, memorabile Gert Fröbe (il commissario Bauer), un po’ anonimo il cattivo Heinz Bennent (Hans Vergérus), molto bravi anche tutti gli altri attori. Errori clamorosi nei titoli di testa italiani: cose come Nyrvist, Bennett...incredibile che siano passati fino all’edizione definitva.
Dei due protagonisti, è notevole la somiglianza di David Carradine con Max von Sydow e ancora di più con Anders Ek (protagonista di “Il rito”). Carradine è ai suoi primi ruoli da protagonista e se la cava molto bene,direi che il problema più che nell’attore è nel personaggio.
Diverso il discorso su Liv Ullmann, che come al solito si impegna molto, ma stavolta c’è qualcosa che non va. In particolare, ho trovato imbarazzanti i numeri di cabaret, dove Liv Ullmann appare molto meno bella che altrove, e anche un bel po’ impacciata. Liv Ullmann (un’attrice che amo moltissimo) non ha né il fisico né il viso di Liza Minnelli (che è molto meno bella e meno brava di lei) ma le si vogliono far fare le stesse cose. Forse lei ci si è divertita, chissà. Molto brutti anche tutti i numeri di teatro, se si fa il paragone con le scene analoghe di Cabaret la differenza stilistica è enorme. Qui Bergman appare stranamente greve e volgare ma il soggetto è sempre lo stesso, era volgare anche Bob Fosse ma quasi non lo si notava. I numeri di cabaret filmati da Fosse sono molto più belli ma forse, va detto, Bergman è andato più vicino alla realtà del cabaret berlinese di quegli anni.
L’unica scena del film che io attribuisco veramente a Bergman è questa, a 1h40’ dall’inizio: la scena con il prete, un pastore anglicano interpretato da James Whitmore: qui siamo tornati per pochi minuti al vero Bergman, è una scena che potrebbe stare anche in un altro qualsiasi dei suoi film.
Liv Ullmann entra in una chiesa e, come il giudice di “Il rito”, dice al prete che non è sua abitudine confessarsi ma che ha bisogno di parlare. Nel “Rito” il prete era lo stesso Bergman (una delle sue rarissime apparizioni come attore), qui è James Whitmore, un attore americano molto bravo e un volto famoso anche per via dei molti telefilm interpretati.
Liv: ...lui è fatto come suo fratello, non dice mai quello che pensa, si lancia alla carica con tutto se stesso, e ha l’aria così impaurita, e io gli dico sempre che ci aiuteremo a vicenda, ma per lui sono solo parole, tutto quello che gli dico è inutile, l’unica cosa reale è la paura... E io sto male, non so cos’è che non va, non so cosa devo fare per essere perdonata.
Whitmore: Vuole che preghi per lei?
Liv: Lei pensa che servirebbe?
Whitmore: (sereno, molto serio) Non lo so.
Liv: Adesso?
Whitmore Sì, adesso.
(si inginocchiano)
Liv: E’ una preghiera speciale?
Whitmore: Sì, mi faccia pensare. Noi viviamo così lontano da Dio che forse lui non ci sente quando chiediamo aiuto da lui. Perciò, dobbiamo aiutarci tra noi e darci l’uno con l’altra quel perdono che un dio remoto ci nega. (le pone una mano sulla testa) Io ti dico che tu sei perdonata per la morte di tuo marito, non devi più sentirti in colpa.
(Liv piange, breve pausa)
Whitmore: Io chiedo il tuo perdono per la mia apatia e per la mia indifferenza. Vuoi perdonarmi?
anche Liv gli pone la mano sulla testa, sia pure perplessa all’inizio
Liv: (mormorando) Sì, la perdono.
Whitmore (rialzandosi) Non posso fare altro...
Il pastore l’aveva ricevuta un po’ spazientito, frettolosamente, perché doveva andare in un’altra chiesa ed era già in ritardo. Il marito di lei, che nel film non si vede, è morto suicida: sapremo nel finale che il suicidio è stato provocato dagli esperimenti di Vergerus.
riassunto del film, da “Immagini”:
Berlino, novembre 1923. Abel Rosenberg arriva la sera nella sua pensione e trova che suo fratello Max si è sparato. I due, insieme alla moglie di Max, Manuela, hanno fatto un numero sul trapezio nel circo. Il giorno dopo Abel viene interrogato sul suicidio dal commissario Bauer. La sera Abel va al cabaret dove Manuela si esibisce e le racconta di Max. Incontra Hans Vergérus, uno scienziato che ha conosciuto da giovane. Abel accompagna Manuela a casa. Manuela sostiene di lavorare in un ufficio, ma Abel scopre che lavora in un bordello. Bauer porta Abel all'obitorio per identificare una donna. Abel perde il controllo, ma viene rilasciato quando arriva Manuela. Abel e Manuela trascorrono la prima notte insieme in un appartamento che Vergérus ha procurato loro. La coppia comincia a lavorare in una clinica diretta da Vergérus. Abel nell'archivio, Manuela nella lavanderia. Nelle cartelle dell'archivio ci sono le testimonianze degli esperimenti di Vergérus sugli esseri umani. Abel trova Manuela morta nel letto. Per l'ira e il dolore spacca uno specchio e scopre una macchina da presa nascosta. Quando Bauer arriva con i suoi uomini, Vergérus si toglie la vita ingerendo una capsula di veleno. Abel si sveglia in carcere. Bauer gli offre un salvacondotto per la Svizzera e la possibilità di andare con il circo con il quale ha lavorato in precedenza. Lungo la strada verso la stazione, Abel sfugge alla sorveglianza. Viene ingoiato dalla folla.
Ingmar Bergman, da “Immagini”
In “Lanterna magica” scrivo che il fallimento dell'Uovo del serpente dipese principalmente dal fatto che la città del film si chiamava Berlino e l'epoca era stata fissata negli anni Venti. «Se avessi ricreato la Città del mio sogno, la città che non esiste eppure si manifesta con i suoi contorni, il suo odore, il suo rumore, se avessi ricreato quella città mi sarei mosso in libertà totale e con pieno diritto di cittadinanza, e inoltre - ed è questa la cosa più importante - avrei condotto gli spettatori in un mondo estraneo ma segretamente familiare. Nell'Uovo del serpente sono penetrato in una Berlino che nessuno ha riconosciuto, nemmeno io ». Ora credo che il fallimento si trovi più in profondità. La descrizione del tempo e dell'ambiente può essere discussa, ma è difficile negare che essa sia stata eseguita con cura. Sceneggiatura, costumi e casting erano in mano a gente qualificata. Se si guarda all'Uovo del serpente dal punto di vista puramente cinematografico, ha straordinarie particolarità e buone spinte nella narrazione. Non c'è un momento di stanchezza, anzi, al contrario. E’ arcisveglio. E’ come se avesse preso degli steroidi anabolizzanti. Ma la vitalità è un vigore solo superficiale. Al di sotto si trova il fallimento.
In una prima fase di progettazione, volevo riprendere la vecchia idea dei due trapezisti che si erano rovinati perché il terzo era morto. Erano rimasti in una città minacciata dalla guerra. La loro progressiva decadenza sarebbe stata intercalata dalla distruzione della città. Questo motivo, che si trova sia nel Silenzio che nel Rito, sarebbe abbastanza forte da bastare per un terzo film. Ma una prima scelta infelice durante la progettazione della sceneggiatura mi portò fuori strada.
Siamo all'inizio del novembre 1975. Durante l'estate avevo letto la biografia di Adolf Hitler scritta da Joachim Fest. Qui c'è un passo che cito nella mia agenda di lavoro: «L'inflazione diede alla realtà dei tratti puramente grotteschi e schiacciò non solo le motivazioni delle persone ad assicurare l'ordine vigente, ma anche il loro senso della stabilità in generale, abituandole a vivere in un'atmosfera dell'impossibile. Questo era il crollo di un intero mondo con i propri concetti, le proprie norme e la propria morale. Gli effetti furono enormi». Questo film deve pertanto svolgersi tra le ombre e la realtà delle ombre. Questa è la perdizione eterna, e all'inferno fa freddo, perché non c'è nulla con cui far fuoco, si è nel novembre 1923 e si ha denaro a peso e tutto grava sulle nostre teste. (...)
Non ero mai stato colpito prima dalla manifesta assenza di norme che i miei guai con le tasse comportarono. Ma le righe lette sul crollo tedesco stimolarono la mia creatività. L'equilibrio, difficilmente manovrabile, tra caos e ordine mi ha sempre affascinato. Negli ultimi drammi di Shakespeare, la tensione poggia, tra le molte altre cose, proprio qui, cioè sulla rottura che avviene tra un inondo di ordine, di leggi etiche, di norme sociali, e lo sfacelo totale. Un caos irrefrenabile che all'improvviso penetra nella realtà regolata e la annienta. Ma senza saperlo, nel mio bagaglio io portavo già il fallimento. Cercavo infatti di combinare il tema dei due artisti, in una città minacciata, con il motivo di Vergérus, cioè con il tema del voyeur. Questo tema mi capitò di toccarlo già nel 1966. Cominciai a scrivere qualcosa che non sapevo affatto cosa volesse diventare. (...) Ma il guaio dell'Uovo del serpente è che il motivo del voyeur è completamente slegato rispetto al racconto dei due artisti. Essi furono uniti soltanto dalle mie rappresentazioni della catastrofe mondiale e del crollo delle ideologie. A questo va aggiunto il crollo del mio proprio mondo. Il 19 novembre giunse il primo avviso dell'Ufficio delle tasse, con fulminee e coordinate notizie sulla stampa. Dall'agenda di lavoro: «Pomeriggio e sera. Paura, angoscia, vergogna. Umiliazione. Rabbia. Essere accusato e non potersi difendere. Condannato in anticipo da un tribunale che non fa domande circa la causa reale. Se devo essere completamente leale, ho preso la cosa troppo alla leggera fin dall'inizio. Ho ascoltato i buoni consigli, pensando che i miei consiglieri ne sapessero più di me... è il loro mestiere. Tutto era a posto e veniva curato in modo esemplare dalle persone adatte.
Nelle pagine seguenti: «L'inflazione diede alla realtà dei tratti puramente grotteschi» (Germania 1923 ne «L'uovo del serpente»). Ma non è certo questo il nodo da sciogliere. Il problema è che io, in modo infantile e disgustoso, reagisco a vantaggio di quelli che mi accusano. Voglio essere d'accordo con loro. Voglio confessare, voglio essere buono, voglio pagare.
E’ un sentimento pericoloso che emerge all'improvviso dalle oscure paure dell'infanzia. Ho fatto qualcosa di brutto. Non capisco io stesso di che cosa si tratti, ma mi sento colpevole. La mia ragione cerca di richiamarmi nel giusto, ma è inutile, la sensazione di vergogna è là, e il marchio pubblico la rende ancor più grave. La debole voce della mia ragione viene soffocata da urla e da lacrime che provengono dal passato... dal tempo in cui non c'era nessun appello, quando si era condannati in anticipo, a prescindere da ciò che si era fatto. L'unica cosa che poteva dar pace era la punizione, il pentimento, anche se io non avevo nulla di cui pentirmi, e alla fine il perdono, l'improvvisa grazia che giungeva senza che io sapessi da dove. Le voci che erano state dure e accusatrici diventavano all'improvviso indulgenti, l'agghiacciante silenzio che si faceva sentire attorno al criminale svaniva allorché la punizione veniva eseguita. Rimproverato, punito, purificato, perdonato, non più in lotta, non più escluso dalla comunità, nuovamente riammesso.
Così mi sento, l'angoscia gira vorticosamente nelle mie viscere, graffiandole; è come se avessi un gatto impazzito nello stomaco, le guance ardono di qualche febbre strana che non ho mai provato negli ultimi quarant'anni, ma che ora mi torna in mente con tormentosa chiarezza.
Si trascinano avanti le ore, che ne sarà della mia vita dopo tutto questo? Potrò lavorare ancora? Ritornerà la voglia dopo questa pubblica infamia? Ma la vera domanda è un'altra: ce la farò a continuare i miei giochi? E così dunque, così era, ora ricordo, ora sono ancora là, ugualmente impotente come quella volta, ugualmente impotente come una persona gettata in un vortice che ti risucchia sempre più in basso. La tentazione di darsi per vinto, di fuggire nel buio, nella paralisi dell'azione, nell'isterismo. La tentazione di cedere. Cinquantasette anni e sette anni in una volta sola, nello stesso momento. Ah, se potessi provare un vero ribrezzo per quei furbi e astuti burocrati che mi hanno procurato questo tormento! Ma non va ugualmente. Cinquantasette anni, mi dico debolmente; santo cielo, loro non fanno che il loro lavoro, e il bambino di sette anni non dubita mai dell'autorità e dell'infallibilità dei suoi giustizieri. E’ sempre il bambino che ha torto. Lo dice lui stesso al cinquantasettenne e il cinquantasettenne gli crede, non credendo alla voce della ragione, alla calma voce oggettiva che dice che tutto quanto non è che un gioco con parti e battute, un piccolo e spiacevole palcoscenico nella commedia-tragedia universale dell'umiliazione che la società rappresenta. A nessuno importa, del resto nessuno è minacciato, nessuno sente niente, all'infuori forse di un po' di maliziosa soddisfazione. Nessuno, eccetto un buffone di cinquantasette anni, spiritualmente invalido fin dall'infanzia, che freme di umiliazione, vergogna, paura e disprezzo di sé. Ora per ora, giorno per giorno. Ecco fino a che punto può essere ridicolo.
Se ora mi tranquillizzo e ci penso un po' su, posso utilizzare questa cosa per conto di Abel Rosenberg. Lui deve sentire press'a poco allo stesso modo, e io posso raccontarlo, perché so come ci si sente quando si è accusati, quanta paura si ha e quanto sia forte il desiderio di prendersi una punizione che quasi quasi si comincia a bramare. A questo punto un po' di allegria comincia, per un breve momento, a spargersi nell'organismo. Gorgoglia qua e là costringendomi a ridere tra me e me. Deve essere un buon segno, nonostante tutto. Una piccola allegria in mezzo a tutta l'angoscia. Forse il cinquantasettenne è in grado di sopraffare il bambino urlante che vuole essere colpevole? E veramente possibile? Porca miseria, sarebbe bello se fosse così. All'improvviso ci si sente già un po' più sollevati. Forse val la pena di star qui, di rimanere sul posto, di lottare contro gli impulsi, l'imbarazzo e l'umiliazione. Di rimanere, di non cercare di scappare, di accettare tutto quanto e di utilizzarlo, di essere ragionevole e arrabbiato in un modo oggettivo, per bene. Forse che è ancora possibile fare qualcosa, nonostante tutto? »
Due giorni dopo constatavo: « Ma sì, ce l'ho fatta a scrivere sia ieri che oggi, seppure più per volontà che per ispirazione. Ci si sente come se un atto fosse finito». In realtà lo strumento mi era già sfuggito dalle mani. Ciononostante, continuavo a suonare, e così misi insieme la sceneggiatura dell'Uovo del serpente, mentre gli avvocati si riunivano, i problemi venivano ridotti a bazzecole e incominciò il dialogo con l'Ufficio delle tasse. Venne la calma, ma era una calma ingannatrice. Il 26 gennaio 1976 la polizia fiscale venne a prendermi. (...)
Ebbi un'offerta da Dino De Laurentiis. Credeva che L'uovo del serpente fosse un progetto seducente. Potevo negoziare un grande compenso, perché in quel momento ero un nome di moda con Sussurri e grida, Scene da un matrimonio e Il flauto magico nel bagaglio. In apparenza funzionavo, ma ero completamente abbattuto, cosa, questa, incredibilmente insidiosa. Il veleno che questi miei casi insinuarono in me, fu sia il carburante che il motore. Mi scontravo con le mie esperienze e credevo di ricevere forza dalle mie fatiche. Quando andai dal dottore per avere un certificato, per essere assicurato durante le riprese del film, ebbi come risposta che la mia pressione sanguigna era assolutamente fuori della norma. Me ne ero andato a lungo in giro per Monaco portandomi dietro una sensazione come di febbre, e avevo dato la colpa del mio colorito roseo al fatto che non ero abituato al clima di seicento metri sopra il livello del mare. Fino ad allora, nella mia vita, ero stato un tipico esponente della pressione bassa. Cominciai a ingoiare dei betabloccanti, ma non serviva; diventai solo schizofrenico.
Oggi posso affermare che reagii su ogni punto in modo sbagliato. Volevo fare un film al più presto per dimostrare al mondo che ero in grado di farlo. Ero attratto dall'Uovo del serpente. Tutti mi incoraggiavano, dicendomi che era una buona storia. Le riprese furono faticose, ma ogni volta ero sempre persuaso che stavo facendo il mio film migliore. Ero abbastanza su di giri e arrabbiato, perché adesso tutte le forze interiori che mi avevano soccorso se ne erano andate via.
L'illusione di aver fatto un capolavoro rimase ostinatamente in me ancora durante il montaggio e il mixaggio. (...) Il campanello d'allarme suonò, ma io non volevo ascoltarlo. (...) La dolorosa constatazione di un grosso fallimento la feci molto più tardi. Ero persino immunizzato contro le grigie reazioni dei critici. Ero drogato dai massicci contributi ausiliari delle mie forze spirituali. Solo quando cominciai a imporre alla mia esistenza un ritmo meno frenetico, mi resi conto delle proporzioni del mio fallimento. Tuttavia non mi sono pentito per un solo istante di aver fatto L'uovo del serpente. E stata un'esperienza salutare.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti 1992)
(le immagini vengono dal sito "Bergmanorama")

2 commenti:

Christian ha detto...

Il tuo post mi ha spinto a rivedere con Marisa questo film. Lo avevo visto già diversi anni fa, ma quasi non me lo ricordavo. Effettivamente è poco bergmaniano, e soffre per colpa di un personaggio protagonista con cui davvero si fa fatica a empatizzare, ma alla fine credo che la pellicola riesca a trasmettere il suo messaggio. Certo, molto di quello che dice è frutto del "senno di poi"...

Ho notato con divertimento una citazione a "M, il mostro di Düsseldorf" quando l'ispettore Bauer dice che il suo collega Lohmann sta lavorando a un altro caso insolito: ebbene, Lohmann era proprio il nome dell'ispettore, altrettanto corpulento, del film di Fritz Lang!

Giuliano ha detto...

questa mi era sfuggita! come dicevo, la delusione non è tanto nel film in sè, quanto nel fatto che lo si guarda sapendo che è di Bergman...penso che la "colpa" sia di Dino de Laurentiis, che aveva sicuramente le migliori intenzioni, ma insomma...