L’occhio del diavolo (Djävulens öga, 1960). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Gunnar Fischer. Musica: Domenico Scarlatti, Sonata in mi maggiore Kk380. Musiche originali: Erik Nordgren. Scenografia: P.A. Lundgren. Montaggio: Oscar Rosander. Costumi: Mago. Interpreti: Gunnar Björnstrand (il narratore), Stig Järrel (Satana), Jarl Kulle (Don Giovanni), Nils Poppe (il pastore protestante), Gertrud Fridh (Renata, la moglie del pastore), Bibi Andersson (Britt Marie, figlia del pastore), Axel Düberg (Jonas, il suo fidanzato), Sture Lagerwall (Pablo), Gunnar Sjöberg (il Marchese), Georg Funqvist (il Conte), Allan Edwall (Orecchio), Törsten Winge (il pastorello), Kristina Adolphsson (la donna velata), Inga Gill (Sara), Ragnar Arvedsson (diavolo guardiano), John Melin, Börje Lundh, Sten Törsten Thuul, Anne Lindblad, Lenn Hjörtzberg, Svend Bunch, Tom Olsson. Durata originale: 87 minuti
Non è certo un capolavoro, “L’occhio del diavolo”, ne avevo un vago ricordo e non avevo nemmeno una gran voglia di rivederlo; però poi, rivedendolo per amore di completezza (sto facendo passare tutti i film di Bergman) mi sono accorto che ci sono molte cose di cui prendere nota e che, soprattutto, gli attori sono tutti molto bravi e meritano che si parli di loro. Si sa che, in presenza di bravi attori, anche il soggetto meno riuscito prende comunque forma; e questo è esattamente il caso di “L’occhio del diavolo”.
“L’occhio del diavolo” è l’esatta traduzione del titolo originale del film; è una commedia, e si fa riferimento a un detto proverbiale irlandese che Bergman mette proprio in apertura, così che sia ben chiaro di cosa si sta parlando. Questo proverbio mi è sempre sembrato di cattivo gusto, e non so bene che cosa vi abbia trovato di interessante Ingmar Bergman, forse un gioco con qualche sua compagna (moglie o amante occasionale?); sta di fatto che prima di cominciare a parlarne bisogna spiegare che cos’è un orzaiolo, e già questo costringe a fermarsi prima di cominciare, il che non è che sia la condizione ideale.
Avendone sopportato uno tanti anni fa, quando ancora andavo a scuola, posso parlarne con cognizione di causa: l’orzaiolo è un’infezione, di solito a decorso benigno, che colpisce la palpebra facendola gonfiare. Il nome deriva probabilmente dal fatto che si pensava fosse di origine allergica. Un fastidio e un inconveniente estetico, più che una vera e propria malattia; ma è di questo che soffre il diavolo - anzi, il Diavolo in persona: il Gran Capo dell’Inferno. Il proverbio recita più o meno così: che la verginità (la virtù) di una giovane donna è per il diavolo un fastidio come avere un orzaiolo nell’occhio.
E infatti vediamo quasi subito il Gran Diavolo, seduto alla sua scrivania, che si contempla nello specchio l’occhio dolorante: è un diavolo in abito di altissimo dirigente d’azienda, elegante, giacca e cravatta, studio lussuoso, maggiordomo sulla porta. Ricordo almeno altri due Gran Diavoli, Diavoli Capo, come questo di Bergman: uno è precedente, in “Il paradiso può attendere” di Lubitsch, l’altro è un enorme cane da guardia che accoglie Gatto Silvestro in uno dei suoi cartoons più divertenti (si sa che i gatti “hanno sette vite”, e quindi Silvestro si trova a presentarsi più di una volta davanti al diavolo, nei cinque minuti del cartoon). Ma il film non comincia così, comincia invece con la musica di Domenico Scarlatti: e davanti a Domenico Scarlatti bisogna fermarsi un’altra volta, questa volta in segno di ammirazione.
Domenico Scarlatti nasce nel 1685, come Johann Sebastian Bach e come Haendel: è uno dei più grandi compositori di tutta la storia della musica, le sue Sonate sono ancora oggi molto eseguite, e alcune di esse sono materia d’esame nei Conservatori, quindi quasi tutti i pianisti le conoscono a memoria. La Sonata che ascoltiamo è quella in mi maggiore, numero di catalogo Kk380: è eseguita al clavicembalo, il che per un film del 1960 è ancora da considerare come una rarità. Dopo l’invenzione del pianoforte il clavicembalo era completamente sparito dall’uso comune, e fu recuperato nelle sale da concerto solo negli anni ’30 del Novecento, con le leggendarie esecuzioni di Wanda Landowska; negli anni ’50 questo recupero era ancora gli inizi, oggi i clavicembalisti sono tornati ad essere in gran numero. Domenico Scarlatti era napoletano, figlio di un altro grande musicista (Alessandro Scarlatti, siciliano di nascita), le sue Sonate sono bellissime ma quasi sempre piuttosto brevi, e di solito non hanno un titolo ma solo l’indicazione della tonalità: questa è una Sonata in mi maggiore. Il numero di catalogo, in questo caso K 380, sta a ricordare il nome di chi ha curato la revisione delle opere di Scarlatti, il grande clavicembalista Ralph Kirkpatrick.
Va anche ricordato che nei titoli di testa Bergman definisce il film come un “Rondò capriccioso” , scritto in italiano: si tratta di due termini musicali molto precisi e molto usati dai grandi musicisti, anche non italiani, come Bach e Haendel. “Capriccio” in musica sta ad indicare una forma libera, qualcosa come un’improvvisazione trascritta; “rondò” ha nella Garzantina questa descrizione, molto complessa:
Rondò: forma strumentale, meno frequentemente vocale, largamente utilizzata dai compositori della seconda metà del sec. xviii e della prima metà del sec.xix (e in minor misura anche successivamente), derivata dal rondeau dei clavicembalisti francesi dei secc. xvii-xviii. La struttura formale del rondò consiste nell'alternanza di un episodio fisso (o lievemente modificato, seppur sempre riconoscibile) nella tonalità fondamentale con episodi di carattere contrastante ambientati in tonalità diverse. Lo schema più semplice di rondò è quello ternario (a-b-a'), coincidente con la forma ternaria di canzone; da esso deriva il rondò a cinque periodi (a-b-a'-b-a"). Una forma particolarmente diffusa è quella del cosiddetto rondò-sonata, costituito da sette periodi. In questa varietà i primi tre episodi coincidono con l'esposizione della forma sonata (terminando tuttavia, Il rondò vocale, che ha tra i suoi precedenti la cantata-rondò (fiorita in Italia. Francia e Germania nel sec. xviii e consistente nell'alternanza di episodi in stile recitativo e arioso con una breve aria sempre eguale o lievemente variata) si strutturò nella seconda metà del sec. xviii come una grande aria di forma affine a quella del rondò strumentale e divenne elemento quasi immancabile del melodramma del tardo '700 e del primo '800.
E a questo punto posso cominciare la visione del film, non senza constatare che ho utilizzato tutto il primo post per parlare d’altro; il che del resto, è perfettamente in linea con tutto il cinema di Bergman e in particolare con “L’occhio del diavolo”, come vedremo.
Il film inizia con Gunnar Björnstrand, nelle vesti del narratore: io Gunnar Björnstrand lo vedo sempre molto volentieri, ma qui lo trovo particolarmente divertente (e divertito).
Ecco cosa dice nel suo primo intervento, sullo sfondo di una mappa dell’Inferno che sembra presa direttamente da Dante:
Il Narratore: Rispettabile pubblico, chiedo venia: ho il compito di parlarvi dell’inferno. (va alla lavagna, una proiezione sullo sfondo). L’inferno è come un cartoccio (per la patatine?): in basso i peccatori occasionali, che presto finiranno di soffrire. Sopra di loro i diversi gironi; il più in alto è sulla terra, dove c’è il nostro inferno, creato dalle menti più acute e subdole del genere umano. Questa comunità capovolta è affidata alle cure di un satanasso che dal progredire dell’umanità è stato continuamente rigenerato fino ad essere sempre più simile all’uomo: stavo per dire “spiritualizzato”... (accenna un sorriso sarcastico, poi apre il libro sulla scrivania). Siamo all’inizio della nostra commedia.
(continua)
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