PASSIONE (En Passion, t.l. “Una passione, 1968). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist (colori) - Scenografia: P.A. Lundgren. Interpreti: Max von Sydow (Andreas Winkelmann), Liv Ullmann (Anna Fromm), Bibi Andersson (Eva Vergérus), Erland Josephson (Elis Vergérus), Erik Hell (Johan Andersson); e poi Sigge Fürst (Verner), Svea Holst (sua moglie), Annika Kronberg (Katarina), Hjördis Pettersson (sorella di Johan), Lars-Owe Carlberg e Brian Wikström (poliziotti), Barbro Hiort af Ornäs, Malin Ek, Britta Brunius, Brita Oberg, Marianne Karlbeck (donne nella sequenza del sogno), Ingmar Bergman (voce fuori campo) Durata: 101 minuti
“Passione” è il film gemello di “La vergogna”, girato negli stessi luoghi, con gli stessi attori, e realizzato di seguito, quasi senza interruzione. “Passione” e “La vergogna” sono in effetti due film che si somigliano molto, è facile confonderli nel ricordo, e devo dire che fino a poco tempo fa, prima di rivederli entrambi, li consideravo l’uno la variante dell’altro; e del resto anche il commento di Bergman tende ad accomunarli. Però adesso ho un’impressione diversa, che è questa: più guardo “Passione” e più trovo che somiglia a “Persona”, girato due anni prima.
“Passione” ha una struttura strana, forse unica, a più livelli di lettura, comprese le interviste ai quattro attori protagonisti che interrompono l’azione, o forse la incorniciano. Un primo livello è sicuramente quello delle immagini, girate a colori (siamo già nel 1969, ma è soltanto il secondo film a colori di Bergman); un altro è quello dei rapporti di coppia, un terzo – forse il principale – è quello della violenza e della sua negazione. Appare stranamente simile a “Persona”, più che a “La vergogna”, proprio per questo studio continuo sui primissimi piani e soprattutto per il tema della violenza, fisica e psichica, che percorre tutto il film dando una sensazione di disagio e di inquietudine, che però è contraddetta dall’atmosfera tutto sommato quieta e amichevole in cui si muovono i protagonisti, e dai colori caldi e confortevoli scelti da Bergman e da Nykvyst. Il disagio c’è, ma è altrove, è sotterraneo, è nei filmati della tv e nelle misteriose violenze sugli animali; però il film inizia in modo del tutto tranquillo, con Max von Sydow che ripara il tetto della sua casa, con il buon rapporto di amicizia coi vicini, niente a che vedere – in apparenza – con la guerra che invade le vite dei protagonisti di “La vergogna” e che è un elemento reale, è la violenza che irrompe dall’esterno.
Le immagini che vediamo nel film sembrano avere spesso valore narrativo in se stesse, un valore simbolico, quasi figure di tarocchi o di santi, le figure allegoriche che vediamo nelle cattedrali romaniche e nelle incisioni medievali, dipinti sacri, metafore, archetipi, segni e sogni: la donna che zoppica, il cagnolino appeso, il vecchio col carretto, la donna addormentata in auto, sulla strada; il carretto impantanato (Karna nel Mahabharata?), il gioco degli scacchi, la morte dell’uccellino e la sua sepoltura, il fuoco (in primissimo piano e in più occasioni), il sangue delle pecore e quello dell’uccellino, eccetera.
La storia in sè è quasi un Hitchcock, magari “Il sospetto” o “Delitto perfetto”: devo dire che a me sembra poco interessante, quasi un pretesto, un’impalcatura per parlare d’altro, di questioni più profonde. Farei molta più attenzione ai dettagli, che non sembrano messi lì per caso ma sembrano quasi simboli, elementi mitici, archetipi, dettagli ricorrenti nei sogni: la scrittura sulla macchina da scrivere, passata in primissimo piano in sequenze lunghe e insistite (due volte), la lettera “dimenticata” per farla leggere come in “Persona”, le gonne sopra il ginocchio, gli interni accuratissimi, il secchio col cemento che continua a ribaltarsi, il cappello rosso di Liv nell’intervista, il fazzoletto rosso nella scena con la scure, e molto altro ancora.
Si tratta comunque di un 4+1, per usare uno dei modelli proposti tempo fa da Umberto Eco ragionando sui romanzi e sulle storie: un 3+1 è Dumas nei “Tre moschettieri”, ma anche “Il rito” di Bergman, il film che verrà girato subito dopo “Passione”. Qui abbiamo invece due coppie di protagonisti, che si intrecciano fra di loro, più il quinto protagonista che è l’anziano vicino, amico di Max von Sydow, interpretato da Erik Hell (che sarò il giudice nel “Rito”). Ci sono anche delle ombre, in questa storia, che agiscono dal passato: il marito del personaggio interpretato da Liv Ullmann (che vediamo in una fotografia), morto in un incidente stradale insieme a loro figlio, e la giovane moglie del personaggio di Max von Sydow, che vediamo nel finale in una breve sequenza molto bella, nel ricordo, della quale però non veniamo sapere a molto. Una cosa che sappiamo è invece questa: il marito del personaggio interpretato da Liv Ullmann si chiamava Andreas, cioè lo stesso nome del personaggio interpretato da Max von Sydow.
Dovendo scegliere un tema di partenza che riassuma tutto il film partirei proprio dalla scena più estrema e violenta, quella dove la violenza è più esplicita: la scena dell’accetta, degna antenata di quella analoga in “Shining” di Kubrick, che sarebbe arrivata dodici anni dopo. Una scena molto dura e molto impressionante, che Bergman e Nykvyst girano da maestri e che Liv Ullmann e Max von Sydow interpretano in maniera sorprendentemente vera. Per fortuna, è una scena che dura pochi minuti: fosse stata più lunga, sarebbe stata intollerabile.
Si tratta probabilmente della violenza, fisica e psichica, che irrompe nella nostra realtà quando noi cerchiamo di negare le nostre colpe (quelle individuali ma anche quelle collettive, le guerre, i profughi e le morti in mare...) o di addossarle ad altri, o quando neghiamo (con violenza, ma anche con sarcasmo e disprezzo) colpe e responsabilità che sono soltanto nostre.
In particolare, mi ha colpito in questa scena lo sguardo iniziale di Liv Ullmann, le espressioni di scherno appena accennato, un accenno alla mancanza di stima verso l’uomo, che indica già la fine della relazione. Lo scatto d’ira che segue ha la sua origine proprio da questo sguardo, da questo atteggiamento di disprezzo appena accennato, che Liv Ullmann rende in maniera straordinaria (le basta un breve istante) e che ha il suo precedente nel sorriso soddisfatto con il quale rovescia le pedine sulla scacchiera in una sequenza precedente, sempre nell’ambito della vita di coppia. Un sorriso infantile, un distruggere senza rimorsi, quasi una manifestazione di potenza che è però una manifestazione infantile, qualcosa che non porta a nulla e che serve solo a far provare dispiacere ai genitori, alle persone amate, e a riconfermare la propria importanza. E’ questo sorriso, questa espressione di scherno, che verrà a portare a galla la verità, nel finale: come in un film di Hitchcock, per l’appunto, si scoprirà che era lei a volere, più o meno consciamente, la morte dei suoi cari.
Questo sorriso di scherno, questa mancanza di vero calore dietro l’apparente quiete della loro relazione, è causa di dolore nel personaggio di Max von Sydow: che rivede (in una sequenza che ho trovato quasi magica) le sembianze della giovane compagna, e gli pare di poterla toccare. L’illusione di poter ricominciare quella relazione con un’altra donna è ormai finita, ed è la verifica finale di un fallimento che finora era rimasto nascosto, ma che adesso è venuto tragicamente alla luce in tutta la sua intensità. E’ da qui, dal riconoscimento del proprio fallimento, che nasce la violenza: molto più facile nascondersi, vivere da soli, che mettersi allo scoperto in una nuova relazione affettiva.
Il film che mi è venuto subito in mente, a parte Hitchcock (“Il sospetto” e “Delitto perfetto”, come dicevo più sopra) è “Images” di Altman (1972, pochi anni dopo), ma soprattutto direi che non si può evitare almeno un accenno a “Il pianeta proibito” (1956, regia di F. MacLeod Wilcox): un film di fantascienza dove la violenza si scatena, inarrestabile ed estrema, attraverso i “mostri dell’ID”.
(continua)
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