PASSIONE (En Passion, t.l. “Una passione, 1968). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist (colori) - Scenografia: P.A. Lundgren. Interpreti: Max von Sydow (Andreas Winkelmann), Liv Ullmann (Anna Fromm), Bibi Andersson (Eva Vergérus), Erland Josephson (Elis Vergérus), Erik Hell (Johan Andersson); e poi Sigge Fürst (Verner), Svea Holst (sua moglie), Annika Kronberg (Katarina), Hjördis Pettersson (sorella di Johan), Lars-Owe Carlberg e Brian Wikström (poliziotti), Barbro Hiort af Ornäs, Malin Ek, Britta Brunius, Brita Oberg, Marianne Karlbeck (donne nella sequenza del sogno), Ingmar Bergman (voce fuori campo) Durata: 101 minuti
Da qui in avanti comincia il finale, con il fuoco nella fattoria, l’incendio provocato dal folle che fa strage di animali: ora è il turno delle mucche, e di un povero cavallo. Andreas e Anna vanno a vedere cosa è successo, avrà mai fine questa violenza?
Nella lunga sequenza che chiude il film vediamo Anna e Andreas in automobile, ed è lei a guidare, come accadde nell’incidente in cui morirono suo figlio e il primo marito. Si tratta di una scena che potrebbe stare benissimo in un film di Hitchcock (Il sospetto, Delitto perfetto), e alla quale si è sicuramente ispirato Robert Altman (Tre donne, Images...). Le ultime immagini, con Max von Sydow da solo, ripreso da lontano, fanno pensare al cinema di Werner Herzog (Fata Morgana, Woyzeck...). La frase di Andreas in una scena precedente, “Rivoglio la mia solitudine”, mi ha fatto invece pensare a un film di Marco Ferreri, La cagna (che però è tratto da un racconto di Flaiano). A parte Hitchcock, sono tutti film successivi a “Passione”.
Alla parola “Passione” diamo quasi sempre un significato positivo, essere appassionati, appassionarsi, provare grande passione, a meno che non si stia parlando della Pasqua e del Venerdì Santo. Forse, per capire il titolo di questo film è più utile pensare a “compassione” (la compassione, o la sua mancanza; la passione, o la sua mancanza). I libri dicono che la traduzione corretta è “Una passione” (in inglese, il titolo è “La passione di Anna”) ma guardando il film mi è venuto da pensare a parole come durezza, violenza (fisica e psichica, citate apertamente) più che alla passione. Mi è quindi difficile trovare un senso preciso a questo titolo, ma sicuramente è stato scelto con cura e non è un titolo messo lì per caso. Però si può far notare che all’inizio del film, e nei ciak che precedono le interviste agli attori, il titolo del film non c’è, al posto del titolo c’è la sigla L 182.
L’impressione è che sia tutto vagamente autobiografico, dialoghi e situazioni sembrano riflettere situazioni di vita vissuta, soprattutto per quello che riguarda le relazioni di coppia. Ci sono molti livelli narrativi, uno è quello delle interviste, lo straniamento, il dramma visto dall’interno e dall’esterno.
Ottimi tutti gli attori, come sempre in Bergman; poco da dire se non qualche appunto sparso. Erik Hell, un volto curioso non da svedese, qualcosa tra Pietro De Vico e Vittorio Caprioli, è il vecchio del carretto, e sarà poi il giudice di “Il Rito”; è l’unico dei protagonisti a non avere l’intervista.
Aggiungerei ancora che c’è troppo cerone sul volto di Bibi Andersson, nei primissimi piani si vede, e probabilmente bisognava avere più fiducia nel suo volto. Erland Josephson ha i capelli stirati e (si direbbe) tinti di nero, è un viso familiare ma in questo film alle volte è difficile riconoscerlo.
Questo è un mio appunto del 1990:
- E’ tremendo essere un fallito... ognuno può sentirsi in diritto di darmi degli ordini, col suo bonario disprezzo... e il sadico desiderio di calpestare qualcosa di vivo.
(Andreas – Max von Sydow)
Non mi piace “Passione”. E’ il Bergman prolisso e verboso, oppure eccessivo. Si confronti questo quartetto con quello di “Come in uno specchio”: se nel film del ’61 un momento addirittura più drammatico (quello con Harriet Andersson nella barca) era risolto in maniera drammatica, qui non si raggiungono gli stessi effetti quando Max von Sydow e Liv Ullmann “si sbranano”, e la scena con l’accetta è una di quelle cose che da Bergman proprio non si vorrebbero vedere. Anche la scena del bassotto è poco risolta; ma curiosamente, e forse perché entrambi girati a Faro, ci sono parecchie anticipazioni di Sacrificio di Tarkovskij: dal latte nella ciotola (che Liv Ullmann fa cadere subito prima del brano citato qui sopra) al misterioso assassino d’animali (presenza inquietante e non chiarita, scontata da un innocente folle, quasi come in Nostalghia), a Erland Josephson, qui più giovane e satanico, là vecchio ma non saggio. Anche qui, il cattivo si chiama Vergerus, come nell’Occhio del serpente e forse nel Rito, dove ancora?
Però è anche vero che in Passione, quasi un film-laboratorio, ci sono sequenze emozionanti e ben riuscite, come il sogno di Anna-Liv Ullmann, Jospehson-Vergerus che fa raccolta di fotografie, e che fotografa Andreas-Max von Sydow; e il colore spento, quasi una copia sbiadita, che domina in tutto il film. Al negativo metterei, ancora, le interviste agli attori sui loro personaggi. Al positivo, decisamente, Bibi Andersson. Insomma, un film brutto ma decisamente vitale.
(novembre 1990)
Ingmar Bergman, da “Immagini”
Passione fu girato a Farö nell'autunno del 1968 e contiene tracce delle arie che a quel tempo spiravano sul mondo reale come in quello del cinema. Per certi aspetti è dunque fortemente e gravemente datato. Per altri, invece, è pieno di forza e di ostinazione. Io lo guardo con sentimenti misti.
Sul piano superficiale, ma che dà nell'occhio, si vede il legame con il tempo dall'acconciatura dei capelli e dal taglio degli abiti delle mie attrici. La differenza tra un film legato a un'epoca e un film senza tempo può essere stabilita con chiarezza dalla lunghezza delle gonne, e questo continua ancor oggi a colpirmi, quando vedo Bibi Andersson e Liv Ullmann, due signore mature, recitare in minigonna, secondo la moda di quegli anni! Voglio ricordare che cercai di fare un po' di resistenza, ma di fronte a quel doppio potere femminile, per mia disgrazia, dovetti cedere. Questo all'epoca non si notò, ma più tardi è emersa alla luce del sole come una scrittura con l'inchiostro simpatico.
Passione è, in un certo senso, una variante della Vergogna. Mette in mostra ciò che, in realtà, avrei voluto far vedere nella Vergogna: una violenza che si manifesta in modo imbastardito. Era proprio la stessa storia, ma più veridica.
Ho tutta una dettagliata agenda di lavoro, non priva di spunti d'interesse. Già nel febbraio del 1967 si legge come io stessi elaborando un'idea su Farö come il Regno dei morti. Qualcuno giunge, errante, sull'isola, e avverte la nostalgia di qualcosa di lontano. Ci sono molte stazioni, lungo il cammino. Luminose, spaventose, particolarmente eccitanti. Questa è dunque l'idea di base, che rimarrà come una nota nel film finito. Improvvisamente il progetto si sviluppò in tutte le direzioni. Un tempo mi ero trovato alle prese con una complicata idea su due sorelle, Anna morta e Anna viva. Due vicende che avrebbero dovuto fare da contrappunto l'una all'altra. Ma ecco quello che si legge sull'agenda di lavoro del 30 giugno 1967: «Un mattino mi sono svegliato e ho deciso di abbandonare la storia delle due sorelle. Mi sembrava una cosa troppo grande, troppo deforme, troppo poco interessante dal punto di vista cinematografico».
Non c'era alcuna sceneggiatura, ma solo un abbozzo dettagliato. Le due storie erano concepite in modo da presentare lunghe sequenze dialogiche. Così, quando l'Unione Radio Europea ordinò un pezzo per la televisione, mi ci volle una settimana per fare dei tagli alla Riserva e allestire un pezzo teatrale. Che La riserva e Passione si compenetrino a vicenda risulta perciò abbastanza comprensibile. Il resto dell'operazione consistette in un'ampia trasformazione di quello che doveva essere Passione. Ebbe luogo durante l'estate, e in autunno cominciammo le riprese.
Nelle mie annotazioni successive ritorna di quando in quando il Regno dei morti. Oggi mi pento di non aver insistito sulla mia prima visione originale. Invece il film finito si sollevò dal Regno dei morti. In ogni caso, il collegamento con La vergogna divenne senza dubbio più importante.
In entrambi i film il paesaggio è lo stesso, ma la concreta minaccia della Vergogna, in Passione si è fatta più sottile. O, come sta scritto nel testo: le avvertenze si trovavano nel lato inferiore.
Il sogno di Passione comincia dove finisce la realtà di Vergogna. E’ piuttosto noioso, non molto convincente. Gli agnelli sgozzati, il cavallo in fiamme e il cucciolo impiccato sono sufficienti come incubo. I minacciosi aloni del sole nell'introduzione hanno già creato atmosfera e tonalità.
Passione sarebbe stato forse un buon film, se non ci fossero le tracce del tempo, visibili non solo nelle gonne e nelle acconciature, ma anche in parti più importanti dal punto di vista formale: le interviste con gli attori e l'improvvisato invito a pranzo. Le interviste avrebbero dovuto essere tagliate. L'invito a pranzo, invece, avrebbe dovuto avere ben altra e più solida struttura. Trovo deplorevole il fatto di essere stato in tante occasioni così angosciosamente didascalico. Ma avevo paura. Lo si diventa, quando si è segato a lungo il ramo su cui si sta seduti. La vergogna non ebbe successo. Lavorai sotto l'assillo di essere comprensibile. Posso forse difendermi dicendo che, ciò nonostante, ci volle del coraggio nel dare a Passione la sua forma decisiva.
Le quattro protagoniste del film hanno Johan (Erik Hell) come compagno di recitazione. Esiste un'analogia tra questo Johan e il pescatore Jonas di Luci d'inverno. Tutti e due diventano vittime dell'inattività dei protagonisti e della loro aridità umana.
Continuo a pensare che esista una cattiveria che non si può spiegare, una virulenta, spaventevole malvagità, di cui solo l'uomo tra gli animali è capace. Una malvagità irrazionale, slegata da qualsiasi legge. Cosmica. Senza motivo. Non c'è nulla di cui gli uomini abbiano tanta paura quanto dell'incomprensibile e inspiegabile malvagità.
Per le riprese di Passione occorsero quarantacinque giorni. Fu un lavoro pesante. La sceneggiatura era stata scritta senza alcun respiro ed era più una relazione sulle atmosfere che uno scenario nel senso tradizionale. In caso contrario, sono solito risolvere già a livello di scrittura i problemi tecnici che mi si presentano. Ma qui avevo scelto di lasciarmeli davanti e di risolverli durante le riprese. Ciò fu dovuto, in certa misura, a mancanza di tempo, ma soprattutto al bisogno di sfidare me stesso.
Passione fu anche il primo vero film a colori mio e di Sven Nykvist. In A proposito di tutte queste signore avevamo usato il colore secondo regole da manuale. Quello che volevamo fare con Passione era un film « a colori» come non ne erano stati mai fatti.
Strano a dirsi, ci trovammo continuamente in disaccordo. La mia ulcera intestinale si rifece viva e Sven ebbe attacchi di capogiro. La nostra ambizione era quella di fare un film in bianco e nero a colori, con alcune violente accentuazioni secondo una scala cromatica fortemente controllata. Ma la cosa risultò difficile. Il negativo a colori aveva bisogno di lunghi tempi d'esposizione ed esigeva che le luci fossero posizionate in tutt'altro modo rispetto a oggi. Gli scarsi risultati dei nostri sforzi ci sconcertarono, e così bisticciavamo spesso e malvolentieri. Questo era, dunque, il 1968. Il bacillo speciale di quell'anno raggiunse anche la troupe cinematografica che girava a Fàró.
Sven aveva un assistente fotografo con cui in precedenza avevamo collaborato in parecchi film. Era piccolo di statura e portava rotondi occhiali da recluta. Non c'era nessuno più bravo e più diligente di lui. Ma ora si era trasformato in un attivo contestatore. Convocava assemblee, dove spiegava che Sven e io ci comportavamo da dittatori e che ogni decisione artistica andava presa in gruppo.
Feci osservare che chi non gradiva il nostro modo di lavorare poteva tornarsene a casa il giorno seguente con in tasca lo stipendio. Non avevo alcuna intenzione di cambiare i miei ritmi di ripresa e non intendevo prendere direttive artistiche dal gruppo. Nessuno volle andarsene. L'agitatore ebbe altri compiti e le riprese di Passione continuarono senza ulteriori assemblee. Ma fu uno dei film più faticosi, paragonabile a Questo non succede qui!, Luci d'inverno e L'adultera.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti 1992)
2 commenti:
Molto bella l'osservazione che hai fatto sulla portata simbolica e archetipica della la donna che zoppica, del cagnolino appeso, del vecchio col carretto e così via; trova conferma anche in considerazioni di Bergman sull'origine del film ( l'ho visto oggi pomeriggio ). Ho trovato impressionante la scena della colazione perchè seguita immediatamente da una diametralmente opposta.
è uno dei film più difficili di Bergman, si rimane davvero impressionati (anche dal colore, dalle immagini)
Posta un commento