mercoledì 8 febbraio 2012

Mario Monicelli ( I )

Per Mario Monicelli potrei ripetere quello che ho detto tempo fa parlando di Dino Risi, però con un’osservazione: Monicelli è più facilmente riconoscibile. Verrebbe da dire: più autore; però forse si tratta solo di pigrizia, Monicelli era meno pigro di Risi, tutto qua.
Non ricordo di aver mai visto al cinema un film di Mario Monicelli; quelli che mi piacciono di più sono usciti quando io ero bambino, o magari non ero ancora nato; da quelli degli anni ’70 e ’80 mi dividevano, e mi dividono ancora, tante cose. Ma su quello che mi divide dal cinema di Monicelli proverà a ragionare più avanti, per intanto scrivo che Monicelli come persona mi piaceva moltissimo, e che è sempre bello riascoltare o rileggere le sue interviste.
«Io comunque voto a sinistra da cinquant’anni, e mai una volta che abbia vinto, eccetto al plebiscito sulla monarchia. Il cinema era tutto a sinistra, perché era “contro”, contro il governo, contro il potere. Anche la commedia: “Totò cerca casa” è un film politico, e “Guardie e ladri”, e “Totò e Carolina” (...) Siete voi che mitizzate, noi lavoriamo. E poi non è neanche vero che il cinema, l’arte dell’immagine in movimento, bisogna vederlo solo nella sala buia, scomodi, con altre centinaia di persone, sul grande schermo. Io i film di Bergman e di Ferreri li trovo splendidi anche in tv. Siamo in epoca di videoteche. (...)»
Mario Monicelli, dal Corriere della sera 11.5.1995
L’ultima parte vale sicuramente per i film di Monicelli, che però non cita Kubrick, e nemmeno Kurosawa o Leone o Tarkovskij o Bertolucci, o Coppola... “Odissea nello spazio” e “Apocalypse now” visti in tv sono quasi incomprensibili, mentre al cinema erano una grande esperienza. Invece “Brancaleone” in tv ci sta benissimo, così come i film di Risi e di Comencini. Forse significa qualcosa, chissà; in ogni caso l’esperienza della sala cinematografica sta per concludersi definitivamente, in futuro sarà poco più che una curiosità.
Questo è ciò che scrivevo su Risi, e che vale per tutta la grande commedia italiana degli anni ’60 e ’70:
Di film ne hanno fatti tanti, Dino Risi e Monicelli: e sono tutti passati in tv, più di una volta, e continuano a passare; quindi è facile averne visti molti. Molti di questi film li ho subìti, da bambino e poi da ragazzo: non mi piaceva quel mondo, magari si rideva (difficile non ridere con Tognazzi e Manfredi...) ma era un mondo che io avrei voluto evitare, non mi sono mai piaciuti quei caratteri e c’era sempre una notevole dose di autocompiacimento nel descrivere quei difetti, ancora oggi ben visibile. Si prendevano in giro, c’era perfino della satira politica, ma anche loro erano così, registi attori e sceneggiatori: villoni, macchinone, vacanze a Cortina... E, soprattutto, ho sempre detestato questo loro modo di presentare il sesso, l’amore, i “tradimenti”, i rapporti coniugali: purtroppo sono cose vere, appena un po’ caricaturali, me ne sono accorto presto che la vita funziona così, e appena ritrovavo nella mia vita questi modelli (non so se spontanei o piovuti dall’alto, cioè ad imitazione dei film stessi: è la vita che imita il teatro, o è il teatro che imita la vita?) mollavo subito la presa. Forse è per questo motivo che non mi sono mai sposato. Alcuni di questi film, non solo quelli di Risi ma anche quelli di Monicelli, di Comencini, e degli altri bravi registi di quegli anni, sono dei capolavori; altri sono molto belli; ma la maggior parte sono film girati “ad uso alimentare”, o per meglio dire: girati per pagarsi i villoni, i macchinoni, le vacanze a Cortina o in luoghi esotici. Hanno fatto bene, s’intende, Dino Risi e i suoi amici: chiunque di noi avrebbe fatto così. Il cinema rendeva molto, negli anni ’50 e ’60, ogni film era ben pagato, se ne facevano tanti, e magari tornassero quegli anni. Ma, detto questo, bisognerà ripetere: non è come con Fellini, Rosi, Petri, Germi, Antonioni; quasi mai siamo di fronte a grande cinema, o a grande scrittura cinematografica. C’è sempre molta approssimazione, molto tirar via, e se non ci si fa caso più di tanto è per la grande professionalità e l’altissimo livello tecnico e artistico di chi lavorava in quel cinema, dai direttori della fotografia agli scenografi fino all’ultimo degli attrezzisti.
Di tanti di quei film, non so nemmeno chi sia il regista: ed è effettivamente difficile distinguere un film di Sordi, Manfredi, Gassman, Tognazzi... Ci si potrebbe imbastire un quiz, o un gioco di società: indovinare al volo chi è il regista di quel film, se è Steno, Monicelli, Comencini, Lattuada, Risi...
La confusione è alimentata dal fatto che autori e attori si mescolano, Luigi Zampa, Luciano Salce, Lattuada, Steno e Monicelli, Comencini, Scola, Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Sonego, Maccari... E magari scoprire che “Il federale” (buca, buca, buca con acqua...) è firmato da Luciano Salce; che quel film con Gassman e Anna Moffo è di Romolo Guerrieri (Il divorzio, 1970); o che “L’alibi” (1968) è stato girato in prima persona, e in trio, da Adolfo Celi, Gassman e Lucignani. O che "La grande guerra" (con Gassman e Sordi) è di Monicelli, mentre "La marcia su Roma" (con Gassman e Tognazzi) è di Risi.
In complesso, alla fine di questo discorso, si può dire un bel “chi se ne frega”, prendere quel che c’è di buono, far finta di niente quando ci sono troppe goffaggini, alzarsi e fare un giro che ci si sgranchiscono le gambe quando una scena è troppo insistita o mal scritta. In ogni film di quel periodo, la famosa “commedia all’italiana”, ci sono sempre almeno dieci minuti divertenti interessanti, che ripagano della visione del film. (...)
da http://www.wikipedia.it/
Mario Monicelli (Roma, 16 maggio 1915 - Roma, 29 novembre 2010) è stato un regista, sceneggiatore e attore italiano (...) nasce il 16 maggio 1915 a Roma, anche se la sua famiglia è originaria di Ostiglia.(...) Suo padre Tomaso era giornalista, e fu direttore del Resto del Carlino e dell'Avanti!; fu anche critico teatrale e drammaturgo. Suo fratello Giorgio è stato traduttore e editore, mentre l'altro fratello Furio (1922-2011) ha fatto lo scrittore raggiungendo un buon successo con il romanzo Il gesuita perfetto. Inoltre, Monicelli era imparentato con la famiglia Mondadori (la sorella del padre era moglie di Arnoldo Mondadori); Monicelli racconta che fu amico per molti anni di Alberto e Giorgio Mondadori.
Monicelli passa parte della sua infanzia a Roma, dove frequenta le scuole elementari. Torna a Viareggio dove frequenta le medie, il ginnasio e due anni di liceo; si trasferisce quindi a Milano dove finisce la terza liceo ed inizia gli studi universitari. A Milano Monicelli frequenta Riccardo Freda, Remo Cantoni, Alberto Lattuada, Alberto Mondadori e Vittorio Sereni; insieme fondarono, con l'appoggio dell'editore Mondadori, il giornale "Camminare", in cui Monicelli si occupava di critica cinematografica. Monicelli racconta che nelle sue critiche si accaniva molto sui film italiani, piuttosto che esaltare i film americani e francesi che amava molto; egli ha affermato che forse lo faceva per un velato antifascismo. "Camminare" non durò molto poiché il ministero della Cultura Popolare lo soppresse perché considerato di sinistra.
A Milano frequenta la trattoria Fratelli Menghi punto d'incontro per pittori, poeti, ma soprattutto giovani registi e sceneggiatori come, Ugo Pirro, Franco Solinas e Giuseppe De Santis. Ritorna a Viareggio e finisce gli studi universitari a Pisa, nella facoltà di Lettere e filosofia. Interessato al cinema, Monicelli rimandò continuamente il momento di laurearsi fino alla chiamata alle armi, appena dopo la quale fu laureato poiché come lo stesso Monicelli afferma "bastava presentarsi alla laurea vestiti da militari e non occorreva né tesi né altro [...] Così è stata la mia laurea, non so nemmeno se è valida".
Nel 1934, Monicelli gira il suo "primo esperimento cinematografico", ovvero il cortometraggio Cuore rivelatore, ispirato all'omonima opera di Edgar Allan Poe. Lo gira insieme ad Alberto Mondadori ed Alberto Lattuada, con quest'ultimo in ruolo di scenografo poiché allora studente di architettura. I tre lo inviarono ai Littoriali sperando invano che venisse poi proiettato nei Cineguf; il film venne bollato come esempio di "cinema paranoico". L'anno seguente Monicelli gira il suo primo lungometraggio, I ragazzi della via Paal. Il film fu inviato a Venezia alla Mostra per i film a passo ridotto, parallela alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica; I ragazzi della via Paal fece guadagnare ai suoi realizzatori il primo premio e l'opportunità di lavorare nella produzione di un film professionale. Monicelli quindi poté saltare le varie fasi di formazione professionale e fu inviato a lavorare come "ciacchista" nella produzione del film di Gustav Machatý "Ballerine", che si svolse a Tirrenia. Si accosta al mondo del cinema grazie all'amicizia con Giacomo Forzano, figlio del commediografo Giovacchino Forzano (...). Subito dopo Ballerine, Monicelli trovò lavoro sempre come assistente nel film di Augusto Genina "Squadrone bianco"; svolgerà il medesimo ruolo di assistente in vari film, tra cui "I fratelli Castiglioni" di Corrado D'Errico; durante la produzione de I fratelli Castiglioni conosce Giacomo Gentilomo, con cui gira due film, "La granduchessa si diverte" e "Cortocircuito", nei quali svolge ufficialmente per la prima volta l'incarico di aiuto-regista ed anche di co-sceneggiatore.
Sotto uno pseudonimo, Michele Badiek, dirige nel 1937 il film amatoriale Pioggia d'estate. Monicelli ha il ruolo di regista, sceneggiatore e soggettista; il film vide la partecipazione di Ermete Zacconi e parte della sua famiglia, dell'apporto di molti amici e di molti concittadini. Egli afferma che questa esperienza fu importante per la sua formazione poiché imparò a "scrivere per il cinema, a girare, a trattare con gli attori [...] E, soprattutto, a constatare, quando poi lo rivedevo in proiezione, che quello che mettevo in scena ogni giorno non corrispondeva se non in minimissima parte alle mie aspettative".
Nel libro dedicato a Mario Monicelli dalla fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus, si afferma nella biografia del regista che dopo la laurea conseguita a Pisa nel 1941, Monicelli viene inviato l'anno seguente a Napoli per essere imbarcato per l'Africa; Monicelli riesce però a rimandare l'imbarco finché l'8 settembre non getta l'uniforme e scappa a Roma, dove rimane nascosto. Nell'opera semi-autobiografica "L'arte della commedia", Monicelli racconta che rimase nell'esercito arruolato nella cavalleria dal 1940 al 1943 cercando di evitare il trasferimento, temendo di essere inviato prima in Russia poi in Africa, finché l'esercito non si disfece; a quel punto scappò a Roma. Rimane nascosto nella Capitale fino all'estate del 1944.
Nel 1945 Monicelli è aiuto-regista nel primo film di Pietro Germi. In L'arte della commedia, Monicelli racconta che tra lui e Germi si instaurò un profondo legame; egli afferma: "Credo di essere stato uno dei pochissimi amici con cui aveva davvero confidenza". Ad esempio di questo legame Monicelli racconta di due episodi. Quando Germi entrò in un periodo di crisi dopo la morte della moglie, egli chiamò Monicelli per dirigere il film che stava preparando (Signore & signori, del 1966) dicendogli che lui non poteva più dirigerlo; a Monicelli piacque molto il film, ma comunque si rifiutò e incoraggiò Germi a fare il suo film. L'altro esempio è quando Germi, impossibilitato a fare Amici miei per problemi di salute, chiamò Monicelli per dirigerlo.
Nel 1946 Monicelli fu scelto, insieme a Steno, da Riccardo Freda per realizzare la sceneggiatura di Aquila nera. Il film ebbe molto successo e la coppia Monicelli-Steno fu chiamata per scrivere alcune gag e battute per il film "Come persi la guerra", di Carlo Borghesio; da quel film, Monicelli e Steno formarono una coppia di sceneggiatori. La collaborazione con Steno, che durerà fino al periodo tra 1952 e 1953, produrrà alcune delle commedie più interessanti del dopoguerra; tra queste vi è Guardie e ladri, film del 1951 con Totò premiato al Festival di Cannes con il premio alla miglior sceneggiatura. (...)
Tra gli avvenimenti che hanno segnato di più la sua vita c'è senz'altro il suicidio del padre, Tomaso Monicelli noto giornalista e scrittore antifascista, avvenuto nel 1946. A tal riguardo ha detto: «Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l'ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l'altro un bagno molto modesto.»
La sua ultima compagna è stata la pittrice e disegnatrice Chiara Rapaccini. Quando si sono conosciuti lui aveva 59 anni e lei 19. Hanno avuto una figlia, Rosa, quando lei ne aveva 34 e lui 74. Nel 2007 dichiarava di vivere da solo, di non sentire la lontananza di figli e nipoti (pur avendoli), di essere un elettore di Rifondazione Comunista e di avere pianto l'ultima volta alla morte del padre; mentre in un'intervista svelava, in particolare, il motivo per cui viveva da solo a 92 anni: «Per rimanere vivo il più a lungo possibile. L'amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più.»
Il 5 dicembre 2009 parla dal palco del No Berlusconi Day e di fronte ad una piazza gremita pronuncia parole molto dure contro il governo Bossi-Berlusconi e l'intera classe dirigente italiana. Il 27 febbraio 2010 interviene ancora una volta a sorpresa durante la manifestazione organizzata dal Popolo Viola contro il progetto berlusconiano del “legittimo impedimento”, teso ad evitare i numerosi processi penali e civili in corso contro l’allora primo ministro. Il 25 marzo 2010 partecipa all'evento Raiperunanotte con un'intervista, nella quale assume posizioni molto critiche e cupe nei confronti della società odierna: «Mai avere la speranza. La speranza è una trappola, è una cosa infame inventata da chi comanda.»
«Quello che in Italia non c'è mai stato, è una bella botta, una bella rivoluzione, rivoluzione che non c'è mai stata in Italia... c'è stata in Inghilterra, c'è stata in Francia, c'è stata in Russia, c'è stata in Germania. Dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, sono 300 anni che è schiavo di tutti.»
«Sì, per me Brancaleone è l’Italia: questo affrontare le cose più grandi di noi con le toppe al culo, andando incontro alla sconfitta, ma dopotutto in modo allegro e generoso. (...)»
Mario Monicelli, dal Corriere della sera 2 agosto 1994
(continua)

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