mercoledì 16 febbraio 2011

La fontana della vergine

LA FONTANA DELLA VERGINE (Jungfrukällan, 1959) Regia: Ingmar Bergman – Sceneggiatura di Ulla Isaksson, dalla ballata “La figlia di Töre di Wänge”. Fotografia: Sven Nykvist - Musiche: Erik Nordgren - Scenografia: P.A. Lundgren - Montaggio: Oscar Rosander – Interpreti: Max von Sydow (Töre), Birgitta Valberg (Märeta, moglie di Töre), Birgitta Pettersson (Karin, figlia di Töre), Gunnel Lindblom (Ingerl), Axel Slangus (il guardiano del ponte), Allan Edwall (il mendicante), Gudrun Brost (Frida), Oscar Ljung (Simon), Tor Borong e Leif Forstenberg (due garzoni), Axel Düberg (il magro), Tor Isedal (l'uomo senza lingua), Ove Porath (il ragazzo), Durata: 89 minuti

- Va’, e prosegui la tua misera vita, visto che Dio dà ad ognuno ciò che si merita.
(La donna (Gudrun Brost), al pulcino rimastole in grembo)

- Tu vedi... Dio, tu vedi! Vedi la morte di una innocente, vedi la mia vendetta... e non l’hai impedita! Io non ti capisco... io non ti capisco... Eppure, adesso chiedo il tuo perdono: non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mie mani... non conosco altro modo per vivere.
(Max von Sydow, nel finale)
“La fontana della vergine” è forse il film più duro e sconvolgente di Bergman; e ciò che sconvolge di più è forse il fatto che non si tratta di un film dichiaratamente “duro”, come saranno “Sussurri e grida” o “L’ora del lupo”, ma ha un inizio, e uno svolgimento, che non farebbero presagire tanta violenza.
Nato probabilmente assieme a “Il settimo sigillo”, o da una sua costola, “La fontana della vergine” riprende un’antica ballata popolare: una ragazza viene violentata e uccisa, e sul luogo dove viene ritrovata nascerà d’improvviso una sorgente di acqua limpida e fresca. In quel punto esatto, suo padre (che ha ucciso gli assassini) decide di costruire una chiesa, una grande chiesa di pietra: è a quel punto che dice le frasi che ho riportato sopra.
Si tratta di una ballata di un tipo preciso, che veniva spesso raccontato, e che ha molte versioni nella narrativa popolare. Forse la si può far rientrare in quella categoria che Italo Calvino chiamava “dell’osso che canta”, e che di solito ha questo andamento: una persona innocente (che può essere anche un uomo) viene uccisa e abbandonata; passa del tempo, e con le sue ossa dei musicisti di passaggio costruiscono uno strumento musicale (un flauto, o un’arpa). Quando infine i musicisti si trovano, seguendo il loro percorso, davanti all’assassino (o all’assassina) lo strumento incomincia a suonare da solo, e racconta con voce chiara e ben comprensibile tutta la sua storia.
Qui siamo di fronte a qualcosa di diverso, perché viene introdotto l’elemento religioso: il contrasto fra le antiche religioni e il cristianesimo come già si era visto nell’Edda, il poema della mitologia nordica che risale più o meno all’anno Mille e che racconta in molte delle sue storie proprio il conflitto tra le antiche divinità e il Cristianesimo. E’ un tema che Bergman ci mette davanti più volte, nel corso del film: fin dall’inizio vediamo il personaggio interpretato da Gunnel Lindblom (la ragazza muta del “Settimo sigillo”) intenta a compiere riti che si possono definire stregoneschi. Più avanti nel film, la giovane donna (rimasta incinta a seguito di una violenza, come racconta lei stessa) incontrerà un uomo sulla soglia del fiume, in una zona di passaggio, che la riconoscerà come appartenenente alla sua stessa fede, e le mostrerà dei feticci che di solito tiene accuratamente nascosti. Che siano davvero riti stregoneschi, o magari residui di una religione precedente, non ci è dato sapere perché non sono dettagli importanti per il film: importanti sono il dolore e l’impotenza provate dalla giovane Ingerl quando fu violentata, sentimenti repressi che sfociano nel desiderio che capiti la stessa cosa alla figlia del padrone di casa. Nel corso del film, vediamo che le due giovani donne si vogliono bene, ma alla bionda e virginale Karin sembra impossibile che le possa capitare la stessa cosa che è successa a Ingerl: no, lei sarà solo dell’uomo che la sposerà, e negli altri casi ci si può difendere, scappare. Non sarà così, purtroppo; ma il desiderio di vendetta e di rivalsa non ha nulla a che fare con quello che succede, e anche il rospo che le viene messo nel cestino è del tutto innocente.
Forse, la sequenza che rende questo film veramente sconvolgente è quella del “rito di purificazione” che vediamo compiere a Max von Sydow subito prima di mettersi all’opera, e compiere la sua vendetta: qualcosa che non ha niente di cristiano. Il padre della ragazza uccisa, sconvolto, è però molto lucido nel compiere questo rito: lo vediamo sradicare di persona una giovane betulla, entrare nella sauna con quei rami, prepararsi con la massima cura... Eppure, avevamo visto in precedenza quanto l’uomo fosse religioso: e cristiano, profondamente cristiano.
Il collegamento che sorge spontaneo, a questo punto, più che con le antiche ballate popolari è con il Libro di Giobbe: una delle riflessioni più profonde sul dolore, sulla natura umana, e sull’assenza di Dio. Ma qui il discorso si farebbe veramente troppo profondo, preferisco fermarmi.
Posso ancora aggiungere che Bergman è costretto dall’andamento stesso della vicenda a dare un finale almeno in parte consolatorio, di speranza. Altrimenti, il film non sarebbe stato sopportabile, perché è difficile reggere la tensione che provoca. E’ anche inutile aggiungere altre parole, e dire che è un capolavoro è solo una banalità riduttiva.
Gli attori: Max von Sydow e Gunnel Lindblom sono due presenze costanti nei film di Bergman, basterà dirne tutto il bene possibile, come sempre. Birgitta Valberg, che interpreta sua moglie, compare anche, in piccoli ruoli, in “Sorrisi di una notte d’estate” e in “La vergogna” (questo è il suo unico ruolo da protagonista, con Bergman). Birgitta Pettersson, la figlia, era già apparsa in “Il volto” dove era una delle due servette, accanto a Bibi Andersson; lavorerà ancora con Bergman per “Vanità e affanni” del 1997. Per Allan Edwall, un mendicante che viene accolto nella casa e che vediamo trattato come in famiglia, si tratta (salvo miei errori) del primo film realizzato con Bergman, da qui in avanti diventerà una presenza costante, con ruoli importanti. Axel Slangus, il guardiano del ponte, ha una lunga carriera alle spalle, ma questo sarà uno dei suoi ultimi film (morirà nel 1965). Dei tre assassini, il bambino Ove Porath (che qui ha dodici anni) non ha più girato altri film; il muto (Tor Isedal) fa una breve comparsa nel “Settimo sigillo” e ha una lunga carriera sia prima che dopo questo film, soprattutto alla tv svedese dove compare anche nei telefilm di Pippi Calzelunghe. Axel Düberg, il portavoce dei tre fratelli, appare già in “Sogni di donna” ed era il servo Rustan nel “Volto”; comparirà in “La vergogna” del 1968 e avrà un piccolo ruolo anche in “Fanny e Alexander”. Gudrun Brost, la cuoca di casa, era già apparsa nella lunga sequenza iniziale di “Gycklarnas afton” (la moglie del clown), e ha una piccola parte nel “Settimo sigillo” (l’ostessa).
Rimarrebbero da dire molte cose: sul ruolo di Allan Edwall, per esempio, che a prima vista pare molto simile a quello della vecchia nel “Volto”; e poi sull’uomo della capanna che mostra oggetti magici alla ragazza incinta; sul rospo; sulla madre che stringe a sè allo stesso modo sia il bambino fratello degli assassini che il corpo di sua figlia; sul racconto di Allan Edwall alla cuoca dove si parla delle grandi città con le “chiese costruite con la pietra, e non con il legno come qui”. Però non me la sento di aggiungere altre parole, e anche Bergman, del resto, non si dilunga molto su “La fontana della vergine”.
Forse, visto da oggi, anno 2011, si può ancora dire questo: che stiamo facendo la stessa cosa alla Natura, e che la Natura si vendicherà su di noi allo stesso modo del protagonista del film. Alcuni segni ci sono già stati, vedremo; ma a questo punto è quasi impossibile riparare ai danni fatti.

Ingmar Bergman, da “Immagini“:
La mia paura della morte era profondamente collegata alle mie idee religiose. Poi, ebbi una piccola operazione chirurgica. Per sbaglio, mi fu praticata un'anestesia troppo forte, così sparii dal mondo dei sensi. Dove se ne erano andate le ore? Non durarono nemmeno una frazione di secondo.
Improvvisamente mi resi conto che la morte è così. Che dall'essere si passi al non-essere è una cosa difficile da pensare. Per una persona costantemente terrorizzata dall'idea della morte, è estremamente liberatoria. Nello stesso tempo dà un po' fastidio: si pensa che potrebbe essere piacevole avere nuove esperienze, una volta che l'anima abbia ottenuto la licenza di riposarsi, separandosi dal corpo. Ma non credo che sia così. Prima si è, e poi non si è. Questo è del tutto soddisfacente. Quello che in precedenza era tanto spaventoso e misterioso, l'ultraterreno, non esiste. Tutto è su questa terra. Tutto è dentro di noi, accade dentro di noi e noi fluiamo gli uni negli altri e fuori degli altri: va bene così.
Secondo la Svensk Filmindustri, “Il settimo sigillo” doveva improvvisamente farsi carico dello sfarzo catastrofico di un giubileo celebrativo di tutto un periodo di grandezza del cinema svedese. Il film non era stato fatto con questo obiettivo, e così, per la prima, vi furono grandi festeggiamenti in un'atmosfera generale insopportabile: pubblico di invitati, fanfare, e discorso di Carl Anders Dymling. L'esito fu devastante. Quanto a me, feci quello che potevo per impedire l'attentato, ma non potei nulla. La noia e le maliziosità piovevano da tutte le parti. In seguito, “Il settimo sigillo” attraversò il mondo come un incendio. Incontrai forti reazioni da parte di persone che avvertivano come il film centrasse le loro scissioni intime e la loro angoscia. Ma la festa della prima, non la dimenticherò mai.
Se si esclude l'epilogo, che rimane slegato, si può dire che “Come in uno specchio”, formalmente e drammaturgicamente, è un film che non suscita obiezioni. E’ il primo vero «dramma da camera» e indica la strada verso “Persona”. (...) “Come in uno specchio” sta, di conseguenza, alla conclusione di un periodo. L'epilogo tra David e Minus, con la battuta conclusiva del ragazzo, «Papà ha parlato con me!», è stato giustamente criticato perché slegato dal resto del film. Ammetto di averlo scritto spinto dal bisogno di essere didattico. Può darsi che abbia cercato di dire qualcosa che ritenevo non fosse stato detto. Non so. Rivedendolo, oggi, mi sento male. Il film è attraversato da un tono falso e quasi incomprensibile. A ciò non è estraneo il fatto che l'anno prima avessi realizzato “La fontana della vergine”, un film che migliorò il mio status economico di quel tempo e che vinse persino un Oscar. Ancora oggi posso garantire sulla problematica religiosa del “Settimo sigillo”. Essa possiede una luce sua propria, fatta di genuina e romantica devozione. Nella “Fontana della vergine”, invece, la motivazione è molto più sfrangiata. Già da tempo l'idea di Dio aveva cominciato a incrinarsi in me, rimanendo per lo più come decorazione. Quello che, in realtà, m'interessava era l'orrenda storia della ragazza, dei violentatori e della vendetta. Le mie idee in materia religiosa tendevano per buona parte a sinistra.
Nel libro di Vilgot Sjöman “Dagbok med Ingmar Bergman” (Diario con Ingmar Bergman) su “Luci d'inverno”, c'è un ragionamento che lascia trasparire un nesso tra “La fontana della vergine” e “Come in uno specchio”. Vi si dice che ho progettato “Luci d'inverno” come passo finale di una trilogia iniziata con “La fontana della vergine” e proseguita con “Come in uno specchio”. Oggi ritengo che questo sia un ragionamento a posteriori. Tutta questa idea della trilogia mi trova alquanto scettico. Essa emerse durante le mie conversazioni con Sjöman e si rafforzò allorché le sceneggiature di “Come in uno specchio”, di “Luci d'inverno” e del “Silenzio” furono pubblicate in volume. Appoggiandomi a Vilgot, stesi una nota introduttiva che doveva fungere da chiarimento: «Questi tre film trattano di un'operazione di riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d'inverno: certezza rivelata. Il silenzio: il silenzio di Dio... l'impronta negativa. Per ciò compongono una trilogia.» Scrissi queste cose nel maggio 1963. Oggi penso che l'idea della «trilogia» non abbia né capo né coda. Era una « Schnaps-Idee », come dicono i bavaresi. (...)
(Ingmar Bergman, da “Immagini“, ed. Garzanti)

12 commenti:

Marisa ha detto...

Ho appena rivisto il film. Ne avevo bisogno perchè ne avevo solo un'impressione molto dura e violenta e non ricordavo affatto il rito purificatorio, in effetti molto importante. Ma la vera purificazione si ha solo alla fine, con lo sgorgare della fonte di acqua pura, che dà il nome e il senso a tutto il film.
Non credo che si tratti di un finale voluto per dare una qualche consolazione. Non è da Bergman, che non indulge a simili consolazioni, ma è importante ricordare che si tratta di una vecchia ballata, quindi di un materiale quasi favolistico e mitico, anche se trattato con estremo realismo e, anche se può riecheggiare un fatto di cronaca, il tutto va letto in chiave simbolica e lo sgorgare della fonte è il vero cuore e giustificazione della vicenda in cui morte e trasformazione sono intimamente legati.
Giustamente il titolo prende nome dalla fonte e già questo ci avverte che tutto tende verso il rinnovamento e la benedizione che l'acqua, elemento verginale e purificatore per eccellenza, comporta.
Ma alla base dei misteri della natura c'è sempre un sacrificio , come Dioniso smembrato e sacrificato dai Titani che diventa il dio dell'estasi e Orfeo, dilaniato dalle Menadi, che continua a cantare con l'eterna lira impersonando l'armonia stessa del creato.
Del resto sempre l'acqua è stata associata al femminile e le sorgenti miracolose prima alle ninfe e poi, con l'affermarsi del cristianesimo, a Maria. Vedi Lourdes, la più celebre delle sorgenti.

Giuliano ha detto...

Il collegamento che fai con Tarkovskij è molto giusto, l'influenza di Bergman su Tarkovskij è molto forte. Questo film continua ad inquietare, ogni volta va ad aprire e toccare qualcosa che sta molto nel profondo di ognuno di noi.
Dico che il finale è quasi obbligato (anche se probabilmente è dal finale che è partita la ballata) perché un film così, senza un finale in positivo, sarebbe difficilmente sopportabile.
Mi è venuto in mente, riparlandone oggi, "Gran Torino" di Clint Eastwood: un film che per almeno tre quarti sembra giustificare la violenza e la vendetta, e invece il finale va in tutt'altra direzione. Non so se Eastwood sia un appassionato di Bergman, ma le analogie tra questi due film sono notevoli, pur dentro due storie così diverse.

Marisa ha detto...

Il collegamento con Tarkovskij era partito dall'immagine del padre vicino all'albero, che è simile a quella di Alexander che pianta l'albero morto controvento in "Sacrificio". Ma pur essendo le immagini simili mi hai fatto notare la profonda differenza di significato: in Bergman Max vov Sydow sta sradicando una giovane betulla viva, mentre Alexander sta piantando un albero morto che la fede farà fiorire, dopo tre anni di paziente fiducia e fedeltà al mandato del maestro.
Qui la rabbia e il bisogno di vendetta passano attraverso un atto distruttivo, che solo dopo, quando si sarà veramente pentito, potranno essere trasformati in benedizione e a quel punto anche la natura mostra il suo lato benevolo con il "miracolo" della sorgente.
Il tema del sacrificio è costellato in modo diverso, ma è ben presente anche in Bergman.

Giuliano ha detto...

Mi piacerebbe approfondire il personaggio di Allan Edwall, ma per adesso sorvolo. C'è qualcosa di irrisolto, e mi sembra strano perché tutto il film è scritto molto bene.
Anche il discorso sulle "cattedrali di pietra" è importante, ma può darsi che sia contenuto nella ballata originaria, che io non conosco - magari proverò a vedere se si trova su internet.
Questa betulla è comunque un'immagine molto forte, perché è un albero giovane e isolato dagli altri: viene da pensare che sia collegato in qualche modo alla figlia, ma nel film non se ne dice nulla, almeno a quel che mi ricordo.

Marisa ha detto...

Sicuramente la betulla è legata alla figlia e la rappresenta; la forza dell'immagine parla esattamente in questo senso: una giovane , bianca, flessuosa e verginale vita viene sradicata violentemente da un "Padre" irato e, solo dopo una offerta riparatoria (la cattedrale ne sancisce il patto), la vita rifiorisce in altro modo, attraverso una "trasformazione".
Da notare l'intenso e forse eccessivo amore dei genitori per la fanciulla. La madre avverte subito che forse la figlia le è stata tolta come punizione per un suo eccessivo "attaccamento"; attaccamento che costituiva il senso stesso della sua vita e che la rendeva competitiva e gelosa anche nei confronti del marito, che lei sentiva preferito.
Da notare anche la gelosia che l'eccessivo amore della madre provoca nella giovane e più sfortunata ancella incinta, mal tollerata e costretta, senza alcun riguardo per la sua condizione, ai lavori più pesanti, mentre la figlia viene coccolata e viziata in mille modi.
Tutto questo non ricorda forse anche il sacrificio che Dio chiede ad Abramo, quando vede l'eccessivo amore del padre per il figlio Isacco? E non ricorda anche la sfacciata predilezione di Isacco nei confronti di Ismaele,il figlio della schiava Agar?
Il sacrificio del figlio è un tema molto importante e difficile da capire, ma simbolicamente è essenziale per non imprigionare i figli in un amore possessivo ed egoistico e che preclude ai genitori la possibilità di una trascendenza.
Anche se i genitori sembravano molto religiosi ( la ragazza viene mandata nel bosco proprio per portare i ceri alla Vergine Maria), in realtà il primo posto nel loro cuore è in assoluto per la figlia, non per Dio. La vera chiesa ( luogo e simbolo del sentimento religioso) -e questa volta di pietra, cioè di un materiale molto più stabile e duraturo delle precedenti fragili di legno - sarà edificata solo dopo la scomparsa della figlia.
Ad Abramo viene risparmiato il sacrificio concreto perchè lui è pronto a compierlo. Ha già rinunciato a lui nel suo cuore e lo ha offerto a Dio; perciò gli viene restituito, secondo al logica misteriosa che noi abbiamo solo quel che doniamo, mentre in questa ballata la restituzione avviene solo come essenza verginale, come acqua.

Giuliano ha detto...

C'è anche un risvolto politico, nel film: il rapporto fra le due ragazze, che sembrano essere state molto amiche, ma poi "la serva" è stata violentata ed è rimasta incinta. La figlia del padrone sembra pensare, ed è un atteggiamento comune, che ci sia un lato di colpa in questo. Molti la pensano così ancora oggi: i "se l'è cercata" abbondano, sia nel campo del sesso (della violenza sessuale) che sul posto di lavoro, eccetera. I "se l'è cercata" o gli "un po' se l'è cercata" abbondano, quando uno magari si limita a chiedere sicurezza sul lavoro, o ad essere magari soltanto in giro con la maglietta e i pantaloncini d'estate, e via elencando.
Tutti discorsi complessi. Rimanendo al film, direi che Bergman è stato bravo proprio nel tener conto di tutti questi rimandi, ma senza sovraccaricare il film.
E' tipico dei grandi narratori, dire tutto ma come sfiorando, eppure con forza. Sapere dove togliere e dove mettere, che indirizzo dare alla materia narrata, fare un film o farne un altro, qui sta la grandezza. Faccio un esempio solo: Stevenson, che riusciva a mettere insieme Jekyll e Hyde, i pirati e l'onestà, il lato oscuro e quello buono...E tutto Stevenson si legge d'un fiato.

Un altro punto su cui ragionare: il bambino che fa parte del trio di assassini. La madre della ragazza uccisa gli si affeziona subito...

Marisa ha detto...

E' che la nostra coscienza è permeata di moralismo e sensi di colpa, oltre che da sopravvalutazione della volontà. Perciò, molto superficialmente, ricorriamo ai "Se l'è cercata, se l'è voluta!" In realtà i rapporti tra vittima e carnefice ci sono, ma sono molto complessi e soprattutto inconsci, ma nella nostra grossolanità dividiamo subito in innocenti e colpevoli e vogliamo subito metterci dalla parte di chi giudica...
Certo che chi è giovane, bello, fortunato e in stato di grazia attira e può risvegliare sentimenti opposti: ammirazione, ma anche invidia e desiderio di possesso o peggio, desiderio di sporcare e distruggere...
Quanta ambivalenza di fronte ad un bambino proprio per la sua estrema innocenza e vulerabilità?

Sicuramente si può dare a questo film anche una lettura sociale o politica, perchè tutto quel che avviene in una famiglia rispecchia il collettivo.
Tutta la vicenda si situa inoltre in un contesto dove la vecchia religione di Odino è ancora presente, ma ormai degradata e relegata a superstizione e stregoneria, come realmente è avvenuto in tutta l'Europa con l'avvento del Cristianesimo. Le tarantate in Puglia (v. DE Martino), non erano forse delle donne poverissime, contadine abbrutite dal lavoro, che riattivavano vecchi rituali magici e dionisiaci, per avere un pò di sollievo?

Giuliano ha detto...

Ci sono molti temi nascosti, anche sotterranei; eppure "la fontana della vergine" è il film più limpido di Bergman, il più lineare. Verrebbe da dire: il più facile - se non fosse per quello che racconta.
A Bergman capiterà molte volte di fare film poco chiari, confusi, ma qui c'è veramente una luce unica, dall'inizio alla fine: ed è una luce chiara, molto chiara. Anche nel "Settimo sigillo" c'è un'unità stilistica perfetta, e un'unica luce: ma non è una luce chiara, è oscura e dominata dalla Morte.
Qui invece, anche di fronte a una storia atroce (e anche la storia del personaggio di Gunnel Lindblom è molto dura), c'è questa luce chiara che illumina tutto il film, ed è stupefacente, quando ci si pensa.

Marisa ha detto...

E' vero, molta della bellezza del film è proprio dovuta a quello che tu chiami "la luce chiara", una specie di atmosfera magica in cui una vicenda così dura è avvolta e che si oscura - giustamente - solo nel terribile episodio della vendetta, il che rende il film ancora più intenso e drammatico, perchè la luce bianca accompagna la fanciulla, anche durante il suo martirio, mentre l'oscurità appartiene all'ottenebramento del dolore e del furore del padre.
C'è però un'altra vittima innocente nel film ed è il ragazzo, il fratello minore degli assassini, che fa da contraltare sacrificale a quello della fanciulla. Anzi lui viene violentato due volte: prima perchè è costretto ad assistere alla brutalità dei fratelli e poi, quando viene strappato letteralmente dalle braccia della madre nel suo tentativo di protezione , prima dell'uccisione. E questa seconda vittima rimarrà senza riscatto, anche se mi piace pensare che, quando il padre mostra al cielo le mani bruciate ed insangninate implorando il perdono divino, pensi soprattutto al ragazzo.

Giuliano ha detto...

Mi hai fatto pensare che c'è un ragazzo nell'Ora del Lupo, più o meno della stessa età, e una scena molto simile: si tratta di un incubo, di una visione, "L'ora del lupo" non è un film realista. Però la scena è in effetti molto simile, e anche molto sgradevole: si vede che era un'immagine ricorrente in Bergman, e a me viene da collegarla - ma io non sono Bergman e magari sbaglio - proprio al suo essere cresciuto in una Svezia nazionalista e vicina al nazismo. Questo gli è stato spesso rimproverato, ma c'è da dire che il Bergman adulto non ha nulla a che vedere con quell'ideologia, e che lui stesso non ha mai nascosto niente (e se l'ha nascosto è perché, da adulto, se ne vergognava)

Marisa ha detto...

Beh...purtroppo lo spirito del tempo è molto potente ed anche Bergman è stato molto affascinato dall'ideologia della "razza superiore". C'è da dire che aveva 16 anni ed era stato mandato in vacanza in Germania, presso degli amici del padre, una famiglia di un pastore con dei figli adolescenti già indottrinati secondo le direttive di "Mein Kampf" e la sua aderenza è del tutto frutto del contagio. Appena comincia a capire come stanno le cose ha un vero shock e ci ripenserà per tutta la vita.
Anzi questa esperienza (v. la sua biografia "Lanterna magica" da pag.112 in poi) gli sevirà proprio a capire quanto lo spirito del tempo e i suoi condizionamenti siano forti, in ogni epoca. Ci sarebbero state le processioni di flagellanti così terribilmente reali, nel "Settimo sigillo", se non sapesse come l'isteria collettiva può impossessarsi del popolo?

Giuliano ha detto...

Infatti, il problema non è quando si fanno o si dicono delle fesserie a sedici anni, il problema (enorme) è quando si arriva a 20, 25, 30, 40, 50, 60, eccetera, e non ci si è ancora accorti di niente...
Di Bergman, rivedendo i suoi film per scrivere questi appunti, mi hanno colpito soprattutto i suoi primi film, pieni di rispetto e anche di amore verso le persone che lavorano. Non sono considerazioni di maniera, basti guardare l'operaio che dà il via libera all'innamorato, in "Monica e il desiderio"... Ma anche il rispetto verso i "poveri cristi" del circo, in "Una vampata d'amore", e il ridicolo (simpatico, ma pur sempre ridicolo) in cui mette i nobili e i borghesi di "Sorrisi di una notte d'estate", dove i personaggi positivi sono il vetturino e la cameriera...
Un po' di maniera c'è negli anni '60, ma di questo proverò a parlare con "La vergogna".